Marte
Figlio di Zeus e di Era (secondo alcuni mitografi, della sola Era, senza intervento maschile), Ares, dio della guerra, è rappresentato per lo più in atteggiamento virile, armato, e non di rado sul cocchio da guerra guidato dalla sorella Bellona. I Latini l'identificarono in M., divinità indigena particolarmente cara ai Romani che le attribuivano la paternità del fondatore di Roma (e da lui Romolo-Quirino sarebbe stato assunto in cielo: cfr. Met. XIV 805-829).
Ovidio narra gli amori del dio per Venere (che gli avrebbe generato vari figli, tra cui Cupido) e la conseguente scoperta dell'adulterio da parte del marito Vulcano il quale imprigionò in una rete gli amanti (Met. IV 171-189); Stazio descrive diffusamente la reggia e la corte di M. (Theb. VII 40 ss.). Più genericamente i poeti classici nominano M. come attivamente presente nelle guerre, tanto che spesso il nome del dio è usato in metonimia per " battaglia ", " guerra ", " strage " e simili (così anche in D.: cfr. If XXIV 145, XXXI 51, e v. Eg I 43).
D. nomina il figlio di Giove per indicare il pianeta omonimo M. (Pd XXII 146), il cui influsso venne dagli antichi personificato in divinità (cfr. IV 63). Né è da credere, secondo l'Alighieri, che Quirino fosse proprio nato da M.: tale falsa credenza essendo sorta allo scopo di nobilitare l'oscura origine del fondatore di Roma (VIII 132). Ben diverso significato assume la menzione, tra gli esempi di superbia punita scolpiti nella prima cornice purgatoriale, del valido aiuto portato a Giove nel debellare i giganti da M. unitamente ad Apollo e a Pallade (Pg XII 31; cfr. Stazio Theb. II 597-599): episodio da interpretare in chiave biblico-cristiana secondo il senso anagogico, quelle tre divinità significando attributi dell'unico vero Dio (naturalmente M. sta a indicare la potenza distruttrice del biblico Dio degli eserciti).
In If XIII 143-150 il poeta ricorda come M. fosse stato il patrono della Firenze pagana: antica tradizione che i Fiorentini solevano addurre non senza una punta di orgoglio, e che sembrava comprovata dalla presenza sul Ponte Vecchio di una statua monca di un uomo armato a cavallo (rappresentante forse Teodorico o altro re goto), in cui si volle ravvisare Marte. Quella scultura sarebbe stata creata nell'antichità per il tempio di M. in Firenze, che dai cristiani fu poi dedicato al nuovo patrono Giovanni Battista (più tardi vi sarà edificato il Battistero); tratta pertanto da quel tempio per essere collocata su una torre presso l'Arno, la statua sarebbe caduta nel fiume durante la distruzione di Firenze attuata da Totila (che molti cronisti confondono, come D., con Attila; l'anno indicato è il 450), e allorché la città fu riedificata (secondo i medesimi cronisti, nel 802) ne sarebbe stato ripescato un frammento (così descritto dal Boccaccio [in Esposizioni, ediz. Padoan, p. 627]: " questa statua era diminuita dalla cintola in su; senza che, essa tutta era per l'acqua e per li freddi e per li caldi molto rósa per tutto, tanto che quasi, oltre al grosso de' membri, né dell'uomo né del cavallo alcuna cosa si discernea; e per quello se ne potesse comprendere, ella fu piccola cosa, per rispetto alla grandezza d'uno uomo a cavallo, e di rozzo e grosso maestro "). La statua rimase in capo del Ponte Vecchio fino al 1333, quando la grande alluvione dell'Arno la portò via assieme a parte del ponte stesso. Cfr. La grande inondation de l'Arno en 1333. Anciens poèmes populaires italiens, a c. di S. Morpurgo e J. Luchaire, Parigi-Firenze 1910. (La notizia è utilizzata per la datazione dei primi commenti all'Inferno).
Un'antica e diffusa credenza attribuiva a quella statua particolari poteri di origine astrologica: " gli antichi diceano e lasciarono in iscritto, che quando la statua di Marte cadesse o fosse mossa, la città di Firenze avebbe gran pericolo o mutazione. E non sanza cagione fu detto, che per isperienza s'è provato " (G. Villani XI 1; e vedi I 42, II 1, III 1). D. pare condividere tale credenza (cfr. If XIII 143-150, Pd XVI 47 e 145-147): contro la quale si appuntarono veementi le critiche dei teologi, con maggior asprezza dopo il quarto decennio del secolo.
Il Pianeta. - Nel sistema di Tolomeo il pianeta M. occupa il quinto posto ed è animato da un movimento epiciclico che si svolge entro una sezione sferica contigua, all'interno, a quella del sole e, all'esterno, a quella di Giove (Cv II III 7, XIII 20 [due volte] dov'è paragonato alla Musica per la sua posizione simmetrica e armonica; cfr. ancora Pd XIV 86, XVIII 28 e XXII 146). D. deriva da Aristotele (Coel. II 21; cfr. anche N. Oresme, Le livre du ciel et du monde, ediz. A.D. Menut e A.J. Denomy, Madison 1968, 498) la dimostrazione delle posizioni rispettive dei cieli di M. (il quinto) e della Luna (il primo) nel caso della scomparsa di M. durante una congiunzione di questi due pianeti (Cv II III 6, due volte).
In due circostanze D. fa riferimento alla durata della rivoluzione di M.: in Cv II XIV 16, ipotizzando l'assenza del moto diurno, valuta a quasi un anno il tempo durante il quale M. rimarrebbe invisibile. Ciò corrisponde infatti a quasi la metà - durante la quale M. sarebbe visibile da un'estremità all'altra dell'orizzonte - della durata della rivoluzione del centro dell'epiciclo sul deferente, la cui esatta durata per l'astronomia medievale è di 1 anno, 10 mesi e 18 giorni. D'altra parte, in Pd XVI 34-39, D. fa dire a Cacciaguida che tra l'annunciazione di Cristo e la sua nascita M. è tornato cinquecentottanta volte nel segno del Leone. Se prendiamo tale affermazione alla lettera si può concludere che Cacciaguida nacque tra l'agosto 1090 e il maggio 1092. Infatti, calcolando in 687 giorni una rivoluzione siderale di M. e in 365, 25 giorni l'anno solare medio, le 580 rivoluzioni considerate fanno esattamente 1090,9 anni dopo l'annunciazione di Cristo, vale a dire il mese di febbraio 1091 (il precedente passaggio di M. nel Leone ebbe luogo nell'agosto 1090 e il seguente, il 581°, nel maggio 1092). Ma sembra più probabile che D. non abbia attribuito a quest'affermazione un'assoluta esattezza giacché, come abbiamo testé osservato, nel Convivio egli calcolava la rivoluzione di M., in modo approssimativo, a circa due anni.
Questo metodo di computare gli anni riferendosi ai passaggi di un pianeta diverso dal sole entro uno dei segni zodiacali può spiegarsi con considerazioni astrologiche proprie di Cacciaguida. Ma, in ogni caso, sarà bene notare che queste considerazioni trovano rispondenza nel suo interlocutore giacché M. si trovava proprio nel segno del Leone alla probabile data di nascita di D., tra la fine di maggio e l'inizio del giugno 1265.
In astrologia M. è caratterizzato come un pianeta rosso e caldo (Cv II XIII 21; al § 25 [due volte] e in Pd XXVII 14 è contrapposto al pianeta Giove, bianco e temperato; cfr. Tolomeo Quadripartitum II 8), il che D. ha modo di constatare nell'abbandonare il cielo del Sole per penetrare in quello di M. (Pd XIV 86-87; come ‛ cielo di M. ' è detto anche al v. 101). Il color rosso di M. si può osservare bene allorché è basso sull'orizzonte, specialmente quando, trovandosi in opposizione col sole, esso scompare a ovest al levarsi del sole (spettacolo a cui D. allude in Pg II 13-15) o appare a est quando quello tramonta. Delle qualificazioni astrologiche di M. è ancora detto in Cv II XIIII 22 dove, sulla scorta di un passo del De Meteoris di Alberto Magno (I IV 9), vengono attribuiti come segni della sua segnoria l'accensione di fuochi meteorici (cfr. If XXIV 145), come le comete, che comportano morte di regi e trasmutamento di regni. In Pd XVII 77 si allude a M. come a stella forte perché il pianeta influisce alla nascita predisponendo ad azioni guerresche.
Il cielo di Marte. - D. rappresenta il cielo di M., il quinto, e le anime dei combattenti per la fede (in conformità con gl'influssi che il pianeta invia sulla terra) che ivi sono collocate da Dio, da Pd XIV 82 a XVIII 51. Guardando gli occhi di Beatrice, D. viene trasportato a diversa e più alta stella, e di ciò si avvede non soltanto per lo splendore più forte, ma anche per il colore, rosso come il fuoco rovente, più che l'usato, della stella: è il colore che D. aveva attribuito a M. in Cv II XIII 21, affermando che Marte... pare affocato di calore, mentre anche in Pg II 14 aveva parlato di M. rosseggiante, sul presso del mattino, tra grossi vapori: un color rosso che appare qui sottolineato in quanto D. vuole allegoricamente affermare che grande ardore di carità è in coloro che combattono, o forse (se l'espressione l'usato si riferisce al colore del cielo precedente, quello del Sole) che i combattenti presenti in M. mostrano maggior ardore di carità che non gli stessi sapienti, posizione che potrebbe esser coerente con un certo atteggiamento dell'animo di Dante.
Due raggi, due liste luminose, formano nel corpo di M. una croce a bracci eguali (la cosiddetta croce greca): la sua luce lampeggia, e in quella croce balena la figura di Cristo, in modo tale che D. non sa esprimere: lo scuserà, quando nel cielo vedrà Cristo, chi sulla terra avrà preso la croce e seguito Cristo, conformandosi al precetto evangelico (" si quis vult post me venire, abneget semetipsum et tollat crucem suam et sequatur me ", Matt. 16, 24). Un'espressione che, secondo taluni critici, su M. assumerebbe un senso specifico, alludendo ai combattenti per la fede, o forse anche specificamente ai crociati, avendo comunque un riferimento con la mistica croce. In essa si muovono lumi che scintillano fortemente nel congiungersi insieme e nell'oltrepassarsi, mentre si spande, raccogliendosi nella croce, una melodia che rapisce D., pur senza che egli comprenda l'inno, nel quale tuttavia sente che son fatte alte lodi di Dio, perché giungono a lui le parole Resurgi e Vinci: un inno che concerne certamente Cristo, cioè la resurrezione di lui e la sua vittoria sul demonio, mentre le parole distinguibili hanno forse il senso specifico che queste cose - resurrezione che è vittoria - l'uomo è chiamato essenzialmente a comprendere della gloriosa battaglia di Cristo (anche qui il riferimento al carattere peculiare di Marte). La volontà del bene (c. XV) impone silenzio a tutti i beati e D. vede muoversi dal braccio destro al piede della croce, senza allontanarsi dalla lista, un lume, che si rivelerà esser quello di Cacciaguida (v.). Dopo aver riesumato il ricordo dell'antica Firenze pacifica e sobria e pudica, Cacciaguida narra l'episodio - l'aver seguito un imperatore Corrado in una crociata - che lo ha condotto alla lotta e alla morte per la fede. D. chiede poi all'avo altre notizie: sui suoi antenati, sugli anni nei quali si svolse la sua giovinezza, sulla grandezza di Firenze, su quelli che furono in essa i cittadini più degni di onore. Riferendosi per il computo degli anni a M., Cacciaguida indica che dal momento dell'incarnazione di Cristo al parto di sua madre il pianeta tornò 580 volte sotto il segno del Leone: il che equivale a dire che passarono 1091 anni, poiché, secondo i calcoli di Alfragano, M. compie ogni sua rivoluzione in 687 giorni (se si considera invece la rivoluzione di M. eguale a due anni solari esatti, come D. può aver fatto e come ritiene Pietro di D., la nascita di Cacciaguida è da collocare intorno al 1106). Cacciaguida indica poi Porta San Piero come luogo ove sorgevano le case di lui e dei suoi; esalta la purezza della cittadinanza di quei tempi, quella cittadinanza che ora è mescolata di gente venuta dal contado; enumera le famiglie fiorentine, notando la loro condizione di ascesa o di declino, e terminando con un nuovo cenno alla vita pacifica e lieta del tempo antico. D., che ha più volte (If X 79 ss., 121 ss., XV 61 ss., XXIV 140 ss., Pg VIII 133 ss., XI 139 ss.) sentito accennare a un suo prossimo esilio, chiede a Cacciaguida di chiosare le oscure predizioni, e questi, leggendo in Dio, predice a D. il suo allontanamento da Firenze per volontà di taluni che sono a Roma nella curia papale, ove ogni giorno Cristo... si merca; il riversarsi della colpa sui vinti; la durezza della sua dipendenza, per la vita di ogni giorno, da altri; il contegno dei malvagi e scempi compagni di sventura che indurrà il poeta a far parte per sé stesso e a compiacersi di questo; la cortesia infine degli Scaligeri che gli daranno il primo asilo: l'ammonisce tuttavia a non invidiare i concittadini della parte trionfante, presto puniti mentre la sua fama durerà nel tempo. D. manifesta il dubbio se egli debba rivelare o tacere ciò che ha visto scendendo nell'Inferno o salendo per il Purgatorio, le non poche cose che a molti appariranno aspre: se egli parlerà l'esilio sarà per lui ancor più difficile, se tacerà teme di perder fama tra i posteri. Cacciaguida esorta a nulla tacere, anche se questo turberà la coscienza dei colpevoli o di molti amici e familiari, anche perché tali rivelazioni potranno essere col tempo a quei medesimi vitale nutrimento, e se feriranno i grandi ciò sarà onore anche maggiore: per questo anzi gli sono state mostrate anime note per fama, perché gli esempi debbono riguardare persone celebri per essere efficaci. D. viene quindi esortato da Beatrice a non pensar più all'esilio, a liberare il cuore da altre cure: da lei invitato torna a guardar Cacciaguida, vedendo in lui il desiderio di parlare ancora: ciò che egli fa mostrando altri otto grandi combattenti: Giosuè, Maccabeo, Carlo Magno, Orlando, Guglielmo d'Orange, Rinoardo, Gottifredi (Goffredo di Buglione), Roberto Guiscardo. Poi lo spirito di Cacciaguida si confonde tra gli altri; Beatrice diviene più lieta e raggiante, e a tale indizio D. si avvede di esser nel sesto cielo, quello di Giove, divenendo argenteo il colore del pianeta, da rosso che era su Marte.
La rappresentazione del cielo di M. si distingue dunque dapprima per il profondo impegno figurativo messo in opera da D., anche nell'invenzione della grande croce in cui si addensano i lumi (è anzi questa la prima delle grandi immagini simboliche in cui D. aduna gli splendori, cui seguiranno quella dell'argentea aquila di Giove e quella dello scaleo): invenzione che, nella più ampia struttura del Paradiso, vuol portare una mirabile variazione negli elementi luminosi soffusi in tutto il corpo celeste, e forse anche offrire il senso di maggiore solennità con l'elevarsi del poeta in più alti cieli, adunando le anime in simboli grandiosi. Altre particolarità della prima parte della rappresentazione di M. sono il parallelo e particolare impegno nella descrizione musicale, e la precisa attenzione scenica (in una sorta di dramma sacro fondato su molti elementi) per la quale alla cessazione della musica il poeta fa seguire, nell'improvviso silenzio, il movimento di uno dei lumi, al fine di concentrare, con spettacolare artificio, l'attenzione su di esso: un simile accurato preambolo scenografico appare proporzionale all'importanza profonda di quanto poi viene detto, importanza che si esprime anche nell'estensione lungo tre canti - fatto unico nel Paradiso - del colloquio tra l'anima e D.; il quale non a caso affida a tale colloquio l'espressione della sua fondamentale convinzione - che sta a base di tutto il poema - del proprio dovere di poeta che coincide col dovere del cittadino, o meglio, in coerenza col carattere specifico di M., col suo dovere di uomo che ritiene di combatter per la fede - con l'arma della parola poetica - in modo del tutto peculiare. Suggestiva l'alternanza dei toni lungo i canti del cielo di M.: da quello descrittivo iniziale, a quello epico nell'inizio del racconto di Cacciaguida, al tono lirico (di un lirismo singolarmente intriso di polemica e da questa esaltato in controluce) nella rappresentazione della vagheggiata Firenze antica e patriarcale, a quello realistico-polemico nella descrizione della storia di Firenze concretata attraverso la cronaca delle famiglie dai tempi di Cacciaguida a quelli di D. (in questo si risolve la nuova descrizione di Firenze antica fatta col gusto dell'erudito che fruga e descrive fatti della propria città malgrado tutto assai cari), al tono oratorio infine - percorso da una grande oratoria - nel proposito di una coraggiosa e pericolosa espressione di verità, che è essa stessa battaglia, una battaglia che il poeta mostra di non disamare (a contrasto con l'intermittente e pur egualmente sincero vagheggiamento di una pace fatta di semplicità): mentre l'episodio si chiude con la dignitosa indicazione (dignitosa anche perché sono tutte figure che la letteratura ha già nobilitato) delle altre maggiori anime dei combattenti per la fede.
Bibl.- Si vedano anzitutto le ‛ lecturae ' del c. XIV di C. Steiner (Firenze 1912) e di E. Bonora (Struttura e linguaggio nel XIV del Paradiso, in " Giorn. stor. " LXXIX [1962]); e quelle dedicate ai canti di Cacciaguida: del XV (E. Donadoni, Firenze 1923 [rist. in Lett. dant. 1637-1657]; G. Rocchi, in Scritti vari, Bologna 1928; W. Binni, in " Cultura e Scuola " 13-14 [1965] 615-633; A. Vallone, Torino 1965; R. Ramat, in Lect. Scaligera III 507-525); del XVI (L. Rocca, Firenze 1912; E.G. Parodi, ibid. 1933 [rist. in Lett. dant. 1661-1676]; B. Maier, in Problemi ed esperienze di critica letteraria, Siena 1950; G. Fatini, in " Convivium " XXIX [1961] 648-655; G.B. Salinari, Torino 1965; F. Allevi, in Lect. Scaligera III 533-572); del c. XVII (I. Del Lungo, Firenze 1906; C. Grabher, ibid. 1940 [rist. in Lett. dant. 1679-1700]; O. Costanzi, Torino 1964); e inoltre F. Figurelli, I canti di Cacciaguida, in " Cultura e Scuola " 13-14 (1965) 634-661; E.M. Fusco, D. e Cacciaguida, Bologna 1965.