Marsilio da Padova
Sarebbe oggi ingenuo non riconoscere il sovraccarico teorico e ideologico cui le dottrine di Marsilio furono sottoposte nel secondo Ottocento e in buona parte del Novecento, sino a farne il precorrimento del moderno pensiero politico. Resta tuttavia il fatto che le enunciazioni teoriche del Padovano, anche se ricollocate nel loro contesto storico, presentano una valenza civile che va al di là dell’orizzonte polemico in cui egli si muoveva, ponendosi in una linea di sviluppo tipicamente italiana che dal pensiero tardomedievale conduce a Niccolò Machiavelli e oltre.
Ma chi era questo figlio della guelfa Padova, che divenne uno dei critici più temibili della potestas ecclesiastica in temporalibus? Le notizie di cui disponiamo sono scarse: nato nella contrada di S. Andrea in data incerta (tra il 1275 e il 1280 oppure, secondo una diversa ipotesi, tra il 1284 e il 1287) da una famiglia di notai (i Mainardini), fece i suoi primi studi nella città natale; è dubbio se sia stato discepolo del celebre filosofo, medico e astrologo Pietro d’Abano, con il quale fu comunque in rapporti di amicizia, tant’è vero che figura tra i testimoni che assistettero al giuramento di fede (ossia la professione di fede cattolica) pronunciato dall’Aponense il 24 maggio 1315. Marsilio fu inoltre amico del poeta Albertino Mussato, che in una sua epistola metrica accenna agli studi di medicina che lo stesso Marsilio aveva intrapreso a Padova sotto la guida di un «maestro famoso» non meglio identificato. Nel 1312 lo troviamo all’Università di Parigi, ove svolse la funzione di ‘rettore’ (assai diversa da quella odierna) dal dicembre di quell’anno sino al marzo del 1313.
Nel decennio successivo alternò lo studio e l’insegnamento all’attività diplomatica (nel 1319 fu in missione presso Charles de la Marche, futuro re di Francia, per proporgli di assumere la guida della lega ghibellina di Matteo I Visconti e Cangrande I Della Scala). Scritto in appoggio alla causa di Ludovico il Bavaro, che nel frattempo era stato colpito dalla scomunica papale, il Defensor pacis risulta terminato il giorno di san Giovanni Battista (24 giugno) del 1324. L’opera circolò dapprima anonima, ma quando ne furono individuati gli autori – oltre che a Marsilio, essa venne attribuita dai contemporanei anche al filosofo averroista Giovanni di Jandun, suo collega e amico – i due magistri lasciarono Parigi nel 1326 e si rifugiarono presso Ludovico il Bavaro a Norimberga, ponendosi al suo servizio.
Il 23 ottobre 1327 da Avignone il pontefice Giovanni XXII emanò la bolla di scomunica Licet iuxta doctrinam, in cui venivano elencate cinque «eresie» desunte dal Defensor pacis: 1) i beni temporali della Chiesa sono assoggettati all’imperatore; 2) gli apostoli ebbero pari autorità e Cristo non pose alcuno a capo della Chiesa (negazione del primato di Pietro); 3) spetta all’imperatore istituire, destituire e punire il papa; 4) i sacerdoti, i vescovi e il papa godono di eguale autorità (negazione della gerarchia ecclesiastica); 5) il papa e il clero in generale non detengono alcun potere coattivo, a meno che non sia loro concesso dall’imperatore (Enchiridion symbolorum definitionum et declarationum de rebus fidei et morum, a cura di H. Denzinger, A. Schönmetzer, 197335, pp. 289-90).
Sceso in Italia al seguito di Ludovico il Bavaro, Marsilio fu da questi nominato amministratore dell’arcidiocesi di Milano e quindi vicario in spiritualibus della città di Roma, ove nella prima metà del 1328 furono compiuti alcuni atti ufficiali che riflettono la linea ecclesiologico-politica del Defensor pacis, in netta opposizione ai principi teocratici: l’incoronazione imperiale di Ludovico a opera di Sciarra Colonna in veste di ‘delegato’ del popolo romano (17 gennaio); la sentenza imperiale di deposizione di Giovanni XXII, che risiedeva allora nella sede di Avignone (18 aprile); l’elezione a opera del popolo di Roma – il 12 maggio, alla presenza dell’imperatore – dell’antipapa Niccolò V, il francescano Pietro da Corvara, che a sua volta incoronò e confermò Ludovico quale sacro romano imperatore. Il soggiorno romano fu però di breve durata: minacciato a Sud dall’avanzata del guelfo Roberto d’Angiò, re di Napoli, e temendo una rivolta popolare nella stessa Roma, la notte del 4 agosto 1328 Ludovico e il suo seguito abbandonarono la città e ripiegarono a Nord, prima a Pisa, roccaforte ghibellina, e quindi nell’alta Italia. Nel 1329 l’imperatore rientrava in Germania, a Monaco, conducendo con sé anche Marsilio, che rimase alla corte imperiale sino alla morte, avvenuta sul finire del 1342 o nei primi mesi del 1343. A quest’ultimo periodo risale la composizione del Defensor minor, del Tractatus de iurisdictione imperatoris in causis matrimonialibus e del Tractatus de translatione imperii, sempre a sostegno dell’autorità imperiale.
Il Defensor pacis è diviso in tre dictiones («discorsi»), di cui la terza è una brevissima ricapitolazione. La I dictio – che si richiama di continuo alla Politica di Aristotele – ha un’impostazione strettamente filosofica e quindi ‘moderna’ nel metodo e nei contenuti, mentre la II si fonda sull’esegesi di una serie di passi tratti dalla Scrittura e affronta alcune questioni di fondo della cristianità tardomedievale, dalla ‘povertà meritoria’ (che viene estesa a tutti i membri del clero) alla superiorità del concilio rispetto al pontefice. È per questo che molti filosofi della politica e del diritto, che hanno letto la I dictio con l’occhio rivolto alla modernità, hanno finito con il considerare la II dictio (che occupa circa il 70% dell’intero testo) come un’ingombrante appendice oppure una concessione alle circostanze e alla mentalità dell’epoca. In realtà le prime due dictiones sono strettamente collegate fra loro, con l’obiettivo di fornire alla causa imperiale una raccolta il più possibile completa di argomentazioni contro la dottrina teocratica, tale da coprire sia l’ambito filosofico (dominio della ragione naturale) sia quello ecclesiologico (che fa riferimento alla rivelazione):
Nel primo libro dimostrerò (demonstrabo) le mie tesi nei modi sicuri scoperti dalla ragione umana, che dipendono da proposizioni evidenti a qualsiasi coscienza che non sia corrotta per natura da un’abitudine o da un’inclinazione perversa. Nel secondo libro riaffermerò (confirmabo) le cose che avrò dimostrato, grazie alla testimonianza della verità eterna, all’autorità dei santi che la hanno interpretata e certamente anche degli altri dottori della fede cristiana. In questo modo il libro può esistere di per se stesso, senza aver bisogno di alcuna prova esterna (ut liber iste sit stans per se, nullius egens probacionis extrinsece) (Il difensore della pace, 2001 [d’ora in avanti: D.p.], I, I, 8, pp. 14-15).
Un’attenta lettura del primo capitolo del Defensor pacis, che funge da prologo, ci consente di cogliere la strategia adottata dal Padovano. Preservare la pace: è questo l’obiettivo dichiarato, che si esprime già nel titolo e che viene ribadito nella citazione posta all’inizio. L’opera si apre infatti con un passo di Cassiodoro (Variae, I, I), in cui si esalta la pace quale bene supremo delle nazioni («Tutti i regni devono desiderare la pace in cui i popoli progrediscono, e in cui è custodito il bene delle popolazioni. Questa infatti è la nobile madre delle buone arti») e prosegue con una citazione dal Libro di Giobbe («Stai in pace e ne avrai i frutti migliori») e con una fitta serie di passi tratti dai Vangeli sullo stesso tema: «Gloria a Dio e pace in terra agli uomini di buona volontà», «Gesù venne, si sedette in mezzo ai discepoli e disse: “Pace a voi”», «State in pace tra voi» (D.p., I, I, 1, pp. 2-5). Due osservazioni si possono fare a proposito di questo prologo: anzitutto il richiamo a Cassiodoro ha un notevole valore simbolico, in quanto induce fra le righe a stabilire una corrispondenza fra l’autorevole scrittore cristiano (uno dei ‘maestri’ del Medioevo, ministro del re ostrogoto Teodorico e dei suoi successori), e il magister Marsilio, pure lui italico e che a sua volta intende proporsi come consigliere presso il bavaro Ludovico, cui si rivolgerà con grande enfasi nel successivo paragrafo 6. In secondo luogo l’insistenza nel rifarsi ai Vangeli è un primo segno della preferenza che nella II dictio il Padovano mostrerà nei confronti del Nuovo Testamento, mentre i sostenitori delle dottrine teocratiche erano soliti richiamarsi all’Antico Testamento, ricco di esempi sul legame fra sacerdozio e regalità.
L’elevato e rarefatto tono spirituale di questo primo paragrafo si dissolve però ben presto e muta di registro, poiché nel paragrafo successivo Marsilio muove da un principio aristotelico («I contrari producono i contrari», Politica, V, 8, 1307b 29-30) per rilevare che «dalla discordia, che è il contrario della pace, derivano frutti dannosissimi per le comunità politiche». Ciò è testimoniato dalle tristi condizioni in cui versa il «regnum ytalicum», «lacerato, quasi distrutto, dalla discordia» e sottoposto alla «dura schiavitù della tirannide», ossia delle ingerenze del legato papale, il quale faceva leva sulle città di parte guelfa. Dopo questo quadro dipinto a tinte fosche, tale da suscitare l’attenzione del lettore, Marsilio imprime al suo discorso un andamento ‘scientifico’, quale si addice a un magister, ossia a un addetto ai lavori. Per gli scolastici la scientia era, aristotelicamente, conoscenza delle cause (scire per causas) e tale metodo viene applicato da Marsilio in modo consequenziale al problema della discordia civile: Aristotele, «philosophorum eximius», ha già analizzato nel libro V della Politica le diverse cause che di solito portano le città e i regni alla rovina; rimane però da esaminare una certa causa «singularis et occulta valde» e «vehementer contagiosa», che né lo Stagirita né gli altri filosofi greci ebbero modo di studiare, poiché comparve in epoca a essi posteriore. Essa consiste (la traduzione è nostra) in
una certa supposizione (frutto di uno stravolgimento) che verrà spiegata più avanti e che fu addotta – presentandosi l’occasione – facendola derivare dall’effetto miracoloso [= l’incarnazione di Cristo] prodotto dalla causa suprema parecchio tempo dopo Aristotele, ben oltre la possibilità insita nella natura inferiore e la consueta azione delle cause nelle cose (Est enim hec et fuit opinio perversa quedam in posteris explicanda nobis, occasionaliter autem sumpta, ex effectu mirabili post Aristotelis tempora dudum a suprema causa producto, preter inferioris nature possibilitatem et causarum solitam accionem in rebus).
Abbiamo preferito ritradurre un po’ più liberamente questo passo marsiliano, giacché la versione molto letterale diretta da Mariateresa Fumagalli Beonio Brocchieri (che ricalca quella a cura di Cesare Vasoli, 19752, pp. 109-10, e che qui riportiamo: «Infatti essa consiste ed è consistita in un’opinione pericolosissima, che noi spiegheremo più avanti, che cominciò ad essere considerata occasionalmente come un effetto miracoloso prodotto dalla causa suprema molto tempo dopo Aristotele, e ben al di là del potere della natura inferiore e della solita azione delle cause delle cose»; D.p., I, I, 3, pp. 6-9) induce a identificare con l’erronea dottrina teocratica, anziché con l’incarnazione del Verbo, l’«effetto miracoloso prodotto dalla causa suprema», il che è l’opposto di ciò che intendeva dire Marsilio. Anche la traduzione di «opinio perversa» con «opinione pericolosissima» (il Vasoli traduce in questo caso «opinione pervertita») suona inadeguata, in quanto Marsilio non si riferisce qui agli effetti malvagi della dottrina teocratica (ai quali per altro accennerà subito dopo), bensì allo stravolgimento dottrinale che è all’origine di tali effetti.
Il compito specifico che egli si attribuisce non è di deplorare moralisticamente questi effetti, ma di denunciarne la causa, dimostrando l’insostenibilità dottrinale della posizione teocratica, indebitamente dedotta dall’evento dell’incarnazione, che in quanto tale si colloca oltre le leggi fisiche che regolano il mondo sublunare. In linea con il suo approccio rigoroso il Padovano impiega una terminologia tecnica (effectus mirabilis, suprema causa, natura inferior) che rischia di complicare il senso di un messaggio che in realtà è molto semplice: i sostenitori della plenitudo potestatis – ossia della dottrina teocratica, che attribuiva al pontefice la ‘pienezza di potere’ in campo sia spirituale sia politico – hanno perversamente sfruttato la venuta di Cristo, evento miracoloso per eccellenza, diffondendo una dottrina ‘sofistica’ che sotto la falsa apparenza della rispettabilità e del giovamento è causa di rovina per la società. Tuttavia Marsilio accennerà esplicitamente alla tesi teocratica solo alla fine della I dictio, ossia dopo aver completato una trattazione che intende proporsi con tutti i crismi dell’oggettività e del rigore scientifico. Si tratta di un’abile scelta strategica, che garantisce all’accesa polemica antipapale della II dictio un fondamento teorico che ha tutta l’aria d’essere inoppugnabile.
Nel passo sopra citato il richiamo all’ordine naturale delle cose e alla distinzione fra causa suprema e cause seconde potrebbe essere motivato anche dall’esigenza di tenersi fuori dall’impostazione teologica che gli scrittori curialisti erano soliti dare al tema della plenitudo potestatis. Di qui il senso dell’atteggiamento ‘scientifico’ di Marsilio e dell’impianto medico-naturalistico (frutto degli studi padovani e del possibile magistero di Pietro d’Abano) che egli conferisce alla sua trattazione. È significativo, per es., che poche righe prima del passo in oggetto Marsilio presenti la discordia come «una cattiva disposizione dei governi civili, così come la malattia lo è per gli animali», e che più avanti la pretesa papale di esercitare la plenitudo potestatis sia definita una «perniciosa pestis», che minaccia di contaminare tutti i regni della cristianità (D.p., I, I, 3, pp. 6-7 e XIX, 13, p. 278). Al riguardo si potrebbe stabilire un parallelo: come l’Aponense mirava a curare le malattie del corpo umano, così il Padovano intende rimuovere la causa che pregiudica il corretto funzionamento dell’organismo civile, finalizzando la politica alla ‘conservazione’ della «civitas seu regnum», benché si debba tener presente che la metafora organologica è usata pure in chiave religiosa, con riferimento alla Chiesa come corpo mistico (D.p., II, XXIV, 12, p. 937).
A questi spunti di sapore naturalistico si può accostare una serie di passi da cui traspare una netta distinzione fra il piano della ragione e quello della fede. Nel presentare la causa finale della civitas, il «bene vivere», (in cui si realizza la «sufficiencia vite», ossia l’aristotelica autarcheia), Marsilio dichiara che esso «conviene agli uomini in due modi: uno è chiamato temporale o terreno (mundanum), l’altro eterno o celeste»; egli fa quindi presente che
la comunità dei filosofi non è stata in grado di dimostrarci in modo convincente (non potuit philosophorum universitas per demonstracionem convincere) questo secondo modo di vivere, ovvero l’eterno, né questo era un principio evidente (nec fuit de rebus manifestis per se); per questo motivo i filosofi non si sono curati di esporre i mezzi che sono necessari per raggiungerlo. Ma i filosofi famosi hanno dimostrato quasi completamente il vivere e il vivere una vita degna dell’essere umano secondo il primo modo, terreno, e tutto ciò che è necessario per ottenerlo. Quindi, per raggiungere questo fine, gli stessi filosofi hanno dedotto la necessità della comunità civile, senza la quale non si può conseguire questa vita degna dell’essere umano (D.p., I, IV, 3, pp. 34-35).
Ecco dunque riproposto il tema aristotelico della naturalità e necessità del vivere associato, anche se Marsilio nell’accennare alla «civilis felicitas» non dà alcun rilievo all’esercizio delle virtù dianoetiche, che per lo Stagirita è possibile solo grazie alla polis e che costituisce la realizzazione più alta dell’umana felicità. Sottolineiamo per inciso l’espressione «philosophorum universitas», che pur nella sua trasversalità storica (la ‘corporazione dei filosofi’ è in realtà formata da membri vissuti in epoche diverse e che quindi non avevano rapporti fra loro) richiama le note formule marsiliane «universitas civium» e «universitas fidelium», quasi a costituire idealmente un autonomo ceto di intellettuali la cui autorevolezza va ben oltre le competenze dei «sapientes et doctos» (D.p., I, XIII, 1, p. 144) ai quali è tradizionalmente demandata la stesura delle leggi. È come se Marsilio tentasse di opporre un forte corrispettivo, sul piano della «civilis felicitas», a quel ceto ecclesiastico (la «pars sacerdotalis») che esercita il potere spirituale finalizzato al raggiungimento della felicità celeste. Ma chi sono i «philosophi gloriosi» che hanno studiato a fondo il «bene vivere mundanum»? Aristotele, naturalmente, ma – stando alle rade citazioni presenti nel Defensor pacis – anche Cicerone e, tramite quest’ultimo, Platone e gli stoici, e forse pure Sallustio, che è menzionato da Marsilio in due riprese (D.p., I, I, 2, p. 7; I, I, 4, p. 9; I, XIV, 3, p. 165; I, XVI, 7 e 21, pp. 203 e 227; I, XIX, 13, p. 279; II, XXVI, 13, pp. 1013 e 1017). Quanto ad Averroè, egli viene citato esplicitamente una sola volta, a proposito del suo commento ad Aristotele, Metafisica II, 1, 993b 15, ove si sottolinea la necessità del reciproco aiuto per far progredire tutte le arti e le discipline (D.p., I, XI, 3, pp. 114-17).
La distinzione fra il piano razionale e il piano della rivelazione ricompare nettamente quando Marsilio intraprende a esaminare «le cause e le azioni da cui, nella maggior parte dei casi, deve essere stabilito il governo (pars principans)». Invertendo la linea strategica degli scrittori curialisti, che erano soliti richiamarsi al modello teocratico-mosaico dell’Antico Testamento e all’unione di rex et sacerdos impersonata da Melchisedech, il Padovano distingue con cura fra l’istituzione del governo per diretto intervento divino e «un altro modo di istituire i governi che deriva direttamente dalla mente umana, anche se come causa ultima (remota) deriva da Dio che concede ogni governo terreno». Del primo modo, attestato dalle vicende dell’antico Israele, non è possibile avere «una comprensione certa per via dimostrativa (per demonstracionem)», ma esso va accettato «per fede senza spiegazione razionale (sed simplici credulitate absque racione tenemus)». Il secondo modo d’istituzione dei governi, che Dio stesso ha affidato alla volontà (arbitrium) delle menti umane, può invece essere definito «con umana certezza (per humanam certitudinem) basandosi su ciò che è meglio o peggio per la politia» (D.p., I, IX, 2, pp. 82-85).
Queste dichiarazioni, che evocano un impianto razionalistico, si possono raccogliere sotto la formula dell’‘aristotelismo radicale’, che ben si adatta all’orientamento filosofico di Marsilio. Al pari delle altre realtà terrestri anche l’organismo politico-sociale, con la sua articolazione in partes, va infatti studiato mediante la dottrina aristotelica delle cause, che consente di eliminare interferenze e deviazioni grazie a un approccio assai rigoroso. «Un sogno aristotelico attraversato dall’incubo della teocrazia papale»: così, all’inizio del Novecento, venne efficacemente definito il Defensor pacis (F. Atger, Essai sur l’histoire des doctrines du contrat social, 1906, p. 71). Ed è significativo che, su tutt’altro versante, contro gli «Aristotelica somnia» indebitamente applicati alla struttura della Chiesa si fosse già espresso nel primo Cinquecento il teologo Albert Pigghe, cui si deve la suggestiva immagine di un Marsilio «homo Aristotelicus magis quam Christianus», in quanto si sforzò di trarre dal filosofo greco (più che dagli insegnamenti di Cristo) una «novam ecclesiasticae hierarchiae formam» (Piaia 1977, pp. 296-98).
Aristotelismo radicale, dunque. Vi è però un filone degli studi novecenteschi che ha interpretato il retroterra filosofico di Marsilio in termini nettamente averroistici, sino a coniare una formula (‘averroismo politico’) che ha goduto di notevole fortuna. Valga per tutti il giudizio su Marsilio espresso da Étienne Gilson (1884-1978): il Defensor pacis «è il più perfetto esempio di averroismo politico che si possa immaginare», in quanto distingue nettamente fra la vita temporale, regolata dagli insegnamenti della filosofia, e la vita eterna, di cui è guida la rivelazione (La philosophie au moyen âge, 1922, 19442; trad. it. 1973, p. 829).
In realtà, la generica separazione fra il potere spirituale e quello temporale potrebbe di per sé essere ricondotta ad altri orientamenti dottrinali del tempo di Marsilio, come il nominalismo o il volontarismo; e in ogni caso nel Padovano non di separazione si tratta, bensì di sottomissione della Chiesa ai governanti civili per quanto riguarda tutti i suoi atti esteriori. Agli occhi del Gilson e di altri studiosi dovettero risultare decisivi alcuni dati biografici (la stretta amicizia fra Marsilio e Giovanni di Jandun, che dal Padovano aveva ricevuto una copia della traduzione latina dei Problemata dello pseudo Aristotele, compiuta da Pietro d’Abano) dai quali si poteva ‘dedurre’ una comunanza di prospettiva teoretica oltre che politica fra i due magistri parigini, insieme poi riparati alla corte di Ludovico il Bavaro. A ciò va aggiunta l’idea di una quasi necessaria corrispondenza fra posizioni speculative e visioni politiche: ma questo schema assai ‘logico’ pecca di astratto apriorismo, dal momento che le scelte politiche sono frutto di un intreccio complesso e talvolta contorto di motivazioni, non sempre riconducibili a un rapporto coerente e univoco con un determinato orizzonte filosofico.
Al riguardo tre dati vanno posti in evidenza, e sono tali da rendere subito problematico il concetto di ‘averroismo politico’: a) Averroè non poté commentare la Politica, di cui non possedeva il testo, e dovette ripiegare su una parafrasi della Repubblica, pervenutaci in una versione ebraica del primo Trecento che sarebbe poi stata tradotta in latino da Elia del Medigo (Averroè, Parafrasi della “Repubblica” nella traduzione latina di Elia del Medigo, a cura di A. Coviello, P.E. Fornaciari, 1992); b) a tutt’oggi non sono stati ritrovati commentari alla Politica usciti dalla penna dei cosiddetti averroisti latini; c) gli scrittori filopapali che presero posizione contro gli ‘errori’ contenuti nel Defensor pacis non fanno alcun accenno critico all’aristotelismo di Marsilio e tantomeno al suo presunto averroismo. Non è casuale che la definizione sopra ricordata («homo Aristotelicus magis quam Christianus») sia dovuta a un teologo che visse ben due secoli dopo il conflitto fra Ludovico il Bavaro e Giovanni XXII, e che per la sua formazione platonizzante non era certo ben disposto verso il peripatetismo, laddove i contemporanei di Marsilio non furono affatto colpiti dall’imponente attrezzatura aristotelica messa in opera nella I dictio. D’altro canto, il tentativo di cogliere una specifica contiguità speculativa fra l’averroista Giovanni di Jandun e Marsilio, grazie all’attribuzione a quest’ultimo di alcune Quaestiones super Metaphysicam che si rivelano assai vicine all’omonima trattazione di Giovanni, si è di fatto arenato in quanto tale attribuzione è apparsa scarsamente attendibile (R. Lambertini, A. Tabarroni, Le “Quaestiones super Metaphysicam” attribuite a Giovanni di Jandun. Osservazioni e problemi, «Medioevo», 1984, 10, pp. 41-104).
In tale quadro l’‘averroismo politico’ si presenta come il risultato di una costruzione interpretativa alla quale hanno congiuntamente collaborato uomini di Chiesa come il padre Pierre Mandonnet (1858-1936) e studiosi dichiaratamente laici come Erminio Troilo (1874-1968; cfr. Piaia 1999, pp. 79-103); e ciò nell’intento di fornire un solido e coerente retroterra filosofico (ovviamente eterodosso) a quelle dottrine ecclesiologico-politiche che gli uni vedevano come una luminosa anticipazione del moderno Stato laico e gli altri – siamo ancora lontani dal Vaticano II – come una sentina di errori e un pericoloso preludio del moderno razionalismo. La formula ‘averroismo politico’ potrebbe al massimo sussistere per indicare l’atteggiamento integralmente aristotelico di chi – come Boezio di Dacia e lo stesso Giovanni di Jandun – poneva nella «felicità intellettuale», pienamente possibile solo nell’ambito della comunità civile, il fine ultimo del filosofo in quanto tale. Ma in Marsilio il tema della felicità intellettuale non è manifesto e sarebbe una forzatura pretendere di dedurlo da citazioni del tipo Omisso itaque modo quod per demonstrationem certificare non possumus («Omesso dunque solo ciò che non può essere oggetto di dimostrazione»; D.p., I, IX, 3, p. 84), dato che, come s’è visto, l’interesse maggiore del Padovano è rivolto non alla causa finale della civitas (com’è in Giovanni di Jandun) bensì alle cause efficienti. In Marsilio l’autonomia della civitas non appare finalizzata al raggiungimento delle virtù dianoetiche da parte di una eletta cerchia di ‘filosofi’, ma è intesa e direi quasi vissuta in termini strettamente politici, ossia in riferimento all’effettiva gestione del potere, il che ha ben poco di ‘averroistico’. Ciò che gli sta a cuore è rivendicare la piena potestas coactiva al legislator humanus (in ultima analisi all’imperatore, ma il discorso potrebbe in sé valere anche per il re di Francia o per qualsiasi altro governante secolare) quale garanzia di ordine e di pace civile. Nel fondare filosoficamente tale rivendicazione l’Aristotele ‘puro’ giuoca un ruolo essenziale, anche se alquanto strumentale: in ciò risiede, a nostro avviso, la grandezza e a un tempo il limite teorico di Marsilio. Va infine notato come il discorso sulle possibili affinità dottrinali di Marsilio con autori non appartenenti al Medioevo latino sia tutt’altro che chiuso: se Jeannine Quillet propose a suo tempo un parallelo fra le posizioni di Marsilio e quelle di al-Fārābī, di recente Vasileios Syros ha richiamato l’attenzione sul possibile rapporto con Maimonide, con riferimento al tema dell’utilità politica e sociale delle religioni (J. Quillet, L’aristotélisme de Marsile de Padoue et ses rapports avec l’avverroïsme, «Medioevo», 1979-80, 5-6, pp. 81-142; Syros 2007, pp. 107-14 e 236-37).
A fronte della complessità strutturale del Defensor pacis, che ha dato luogo a esiti interpretativi divergenti, proviamo qui a individuare e collegare insieme i punti a nostro avviso essenziali dell’elaborazione svolta da Marsilio e finalizzata alla ‘difesa della pace’.
Il compito di regolare gli atti che in questa vita terrena (pro statu presentis seculi) possono offendere i membri di una comunità politica spetta ai governanti, ossia alla «pars iudicialis seu principans et consiliativa» (D.p., I, V, 7, pp. 48-49).
Nessun governante, per quanto sia giusto e virtuoso, può governare senza le leggi. Sulla scorta di Aristotele, Marsilio proclama che «ai governanti conviene essere regolati e limitati dalla legge piuttosto che emanare sentenze civili secondo il proprio arbitrio» (D.p., I, XI, 7, p. 125).
Presa nel suo significato più proprio, la legge civile è tale in quanto è collegata a un «precetto coattivo per una punizione o un premio da attribuire in questa vita»; pertanto «non tutte le vere conoscenze delle cose giuste e vantaggiose per la comunità civile sono leggi, a meno che per la loro obbedienza non sia stato emanato un comando coattivo (preceptum coactivum)». Viceversa, anche «conoscenze false di ciò che è giusto e vantaggioso» possono diventare leggi (sia pure «non perfecte») se sono accompagnate dal potere coercitivo (D.p., I, X, 4-5, pp. 102-105). È il cosiddetto ‘positivismo giuridico’ di Marsilio, che rappresenta una novità rispetto ai suoi contemporanei e mira a spiazzare i sostenitori della teocrazia, i quali si richiamavano invece al diritto naturale.
Sempre rifacendosi ad Aristotele (Politica, III, 11, 1281a 39 e segg.), Marsilio proclama a chiare lettere che «il legislatore o causa efficiente prima e specifica della legge è il popolo, o l’intero corpo dei cittadini (populum seu civium universitatem), o la sua parte prevalente (aut eius valenciorem partem), [...] considerata come quantità e qualità delle persone (considerata quantitate personarum et qualitate) in quella comunità politica per la quale è stata emanata una legge» (D.p. I, XII, 3, pp. 130-31).
Analogamente, «il potere effettivo di istituire il governo (potestatem factivam institucionis principatus) o di eleggerlo spetta al legislatore o all’intero corpo dei cittadini [...]; inoltre gli spetta anche il diritto di correggere il governo e di deporlo, se sarà vantaggioso per il bene comune» (D.p., I, XV, 2, pp. 176-77).
Il clero (pars sacerdotalis) è soltanto uno dei ceti che compongono la città o il regno, e la sua ‘causa finale’ è esclusivamente spirituale e quindi proiettata nella dimensione ultraterrena: «Il fine del sacerdozio consiste nell’educazione degli uomini e nell’insegnamento di quelle cose che, secondo la legge evangelica, è necessario credere, fare e non fare per conseguire la salvezza eterna e per evitare la sventura eterna» (D.p., I, VI, 8, pp. 66-67).
Ne consegue (anche in base ai «consigli ed esempi di Cristo» racchiusi nel Vangelo e fatti oggetto di commento dai dottori della Chiesa) che «né il vescovo di Roma né qualsivoglia altro vescovo o presbitero o chierico è dotato [...] di alcuna autorità coattiva o potere di governo (nullum coactivum principatum seu iurisdiccionem contenciosam) e a maggior ragione non può rivendicare o attribuirsi la suprema autorità su tutti i chierici e i laici» (D.p., II, IV, pp. 324-25).
La dottrina teocratica della plenitudo potestatis risulta così del tutto incompatibile con questo edificio teorico, fondato su basi filosofiche e confermato dal dettato evangelico. Tuttavia ciò non significa che il clero sia escluso in assoluto dall’esercizio di qualsiasi potere che non sia quello spirituale, ovvero la potestas ligandi et solvendi. Nella società tardomedievale, in cui la Chiesa occupava ruoli e funzioni preminenti, una tale esclusione sarebbe stata rivoluzionaria e avrebbe posto Marsilio accanto ai movimenti più radicali, come quelli dei catari e dei valdesi. In realtà, a ben vedere, l’obiettivo del Padovano non è di ‘spiritualizzare’ la Chiesa, bensì di subordinare al potere civile ogni atto dell’autorità religiosa che abbia una qualche rilevanza sociale (dalla concessione della licentia docendi alla scomunica degli eretici e all’esecuzione dei deliberati conciliari) e di attribuire ai governanti i beni temporali di cui godono in abbondanza gli ecclesiastici. Infatti, «il legislatore può usare i beni temporali ecclesiastici, tutti o in parte, legittimamente e secondo la legge divina, per il bene pubblico o per l’utilità pubblica o per la difesa, una volta soddisfatte le necessità dei sacerdoti e degli altri ministri del vangelo, dei poveri impotenti e di ciò che attiene al culto di Dio» (D.p., III, II, 27, pp. 1212-13).
In tal modo lo Stato controlla anche la vita religiosa, in vista del mantenimento della pace, e i sacerdoti finiscono con il diventare delegati o funzionari dello Stato, secondo un modello che avrebbe trovato una compiuta attuazione, per es., nella politica giurisdizionalistica dell’imperatore Giuseppe II d’Asburgo (1741-1790).
Assai chiaro e netto per quanto concerne la critica alla plenitudo potestatis e l’assoggettamento del clero al potere secolare, Marsilio lo è assai meno quanto alla figura del legislator, che è la fonte di ogni giurisdizione terrena. Stando alla trattazione filosofico-politica della I dictio, infatti, il legislator coincide inequivocabilmente con il populus, ovvero la universitas civium o la sua «parte più valente», intesa – lo si è visto – in senso sia quantitativo sia qualitativo (il che dovrebbe mettere in guardia da una lettura troppo attualizzante: il richiamo alla ‘qualità’, accanto alla ‘quantità’, non si riferisce al moderno sistema democratico, in cui vale il principio ‘una testa un voto’, bensì a un sistema rappresentativo basato sul censo e in cui un ruolo di primo piano è svolto dagli ordines e dalle corporazioni, ossia da entità superindividuali). Se ci volgiamo però alla II dictio, qui il termine legislator ricompare (nella forma «legislator humanus fidelis»), ma si assiste a una equivalenza progressiva fra tale concetto e la figura del sacro romano imperatore, mentre il concetto di pars valencior viene applicato al collegio dei sette elettori, cui spettava il compito di eleggere l’imperatore (D.p., II, XXVI, 5, pp. 992-95). Di qui un divario fra la I e la II dictio, che taluni studiosi, come lo statunitense Alan Gewirth, hanno interpretato nel senso dell’aperto contrasto fra un’originaria ispirazione comunale e ‘repubblicana’, ben palese nella I dictio, e il successivo approdo a un modello assolutistico ispirato dalla Francia di Filippo il Bello e dei suoi successori (Gewirth 1951, pp. 236-56).
In realtà il concetto medievale di repraesentatio, che non corrisponde affatto al moderno concetto di rappresentanza politica, induce a eliminare quel preteso contrasto e quindi l’ipotesi di una rapida e sconcertante evoluzione (o involuzione) di Marsilio nel passaggio dalla I alla II dictio (H. Hofmann, Repräsentation. Studien zur Wort- und Begriffsgeschichte von der Antike bis ins 19. Jahrhundert, 1974). In quanto scelto dai sette elettori che ‘rappresentano’ la feudalità tedesca, il sacro romano imperatore (erede degli imperatori romani in base alla teoria della translatio imperii nella sua versione anticurialistica) ‘rappresenta’ infatti l’intero populus e incarna concretamente il legislator, il cui primato è pienamente riconosciuto sul piano teorico, ma la cui capacità operativa in quanto «populus seu universitas civium» è limitata a piccole entità politiche, come la polis aristotelica e il Comune o – meglio ancora – la Signoria dell’Italia centro-settentrionale; ed è a questi ultimi organismi che si fa riferimento nella I dictio, ove viene utilizzata l’attrezzatura concettuale di Aristotele, mentre la vasta e composita realtà dell’impero, in cui rientrano almeno nominalmente anche i Comuni e le Signorie d’Italia, esige che sia posta in primo piano la figura del principans ovvero dell’imperator, in cui il legislator trova la sua espressione giurisdizionale.
Lungi dall’apparire fra loro in contraddizione, la I e la II dictio vengono così a costituire una ben congegnata macchina da guerra, ove il discorso teorico rigorosamente fondato – e corroborato dall’esegesi della Scrittura – conferisce piena legittimazione alla prassi politica di Ludovico il Bavaro e alle sue rivendicazioni anticuriali. Da questo punto di vista la tesi tradizionale della ‘modernità’ delle teorie marsiliane va ridimensionata e liberata da certe antistoriche proiezioni in avanti: Marsilio non è l’antesignano del moderno costituzionalismo, ma è uomo del suo tempo, che oltretutto non si rifà al modello della Chiesa apostolica e primitiva (come a prima vista si sarebbe indotti a ritenere) bensì al modello della Chiesa al tempo di Costantino, quando l’imperatore esercitava un notevole potere di intromissione nella vita ecclesiale.
Assai enfatizzata in passato e poi valutata più criticamente, in tempi recenti l’immagine di Marsilio convinto promotore della sovranità popolare è stata riproposta in un famoso romanzo di Umberto Eco (Il nome della rosa, 1980, rist. 1984, pp. 209, 349, 356). In realtà appare poco verosimile che Marsilio, dietro un sostegno opportunistico al Bavaro e quindi al potere imperiale, mirasse a contrabbandare la teoria del primato del popolo, superando così la storica contrapposizione papato-impero (un po’ come il Machiavelli dei Sepolcri, il quale, a detta di Ugo Foscolo, si sarebbe soffermato sulla figura del ‘principe’ per mostrare «di che lacrime grondi e di che sangue» lo «scettro» dei «regnatori»). Anche in questo caso va poi tenuto presente che il principio dell’«assemblea del popolo», ai nostri occhi così dirompente sul piano ecclesiologico oltre che politico, non suscitò alcuna attenzione fra i censori del Defensor pacis; anzi questo principio – che, non dimentichiamolo, nelle città del «regnum ytalicum» serviva a legittimare la presa di potere da parte di un singolo personaggio e quindi la trasformazione del Comune in Signoria – venne utilizzato in quegli stessi anni da Guglielmo degli Amidani in appoggio alla teocrazia papale e per limitare il potere dell’imperatore (Piaia 1999, pp. 104-17).
L’istanza di una maggiore contestualizzazione storica non ha tuttavia eliminato il fascino congiunto della concettualizzazione filosofico-politica e del precorrimento della ‘modernità’. Mi riferisco in particolare alla linea interpretativa ‘anglosassone’, avviata a metà Novecento dal Gewirth con la tesi sopra ricordata del republicanism di Marsilio e alla quale non dovette essere insensibile Quentin Skinner nell’impostare la sua celebre opera sulla genesi del pensiero politico moderno (The foundations of modern political thought, 1° vol., 1978, pp. 57 e 61; trad. it. 1989). D’altro canto il vivace dibattito su communitarianism e liberalism svoltosi negli anni Ottanta dopo la comparsa di A theory of justice di John Rawls (1971; trad. it. 1982) e di After virtue di Alasdair MacIntyre (1981; trad. it. 1988) ha ridato attualità ad alcuni principi filosofico-politici presenti nella I dictio. È questo il background da cui ha preso le mosse Cary J. Nederman, che ha visto in Giovanni di Salisbury e poi in Marsilio da Padova due autori medievali che, per quanto lontani fra loro, seppero unire la libertà personale di parola e di critica con una visione «organica» e «comunitaria» (e quindi non individualistica) della politica. In questa analisi risulta centrale il concetto di communal functionalism, ossia di interdipendenza e cooperazione fra le varie parti del corpo civile in vista del suo mantenersi sano, ovvero del bene comune, garantendo la pace e la «sufficiencia vite» così care a Marsilio. Il «ponte» fra gli interessi individuali e l’interesse generale è rappresentato dal «consenso» (consent) dei cittadini, che secondo il Nederman è un concetto centrale del Defensor pacis (Nederman 1995, pp. 41-48). Ebbene, il raggiungimento del consenso presuppone la possibilità di esprimersi liberamente e di valutare criticamente le leggi proposte: la liberty of conscience diventa quindi essenziale nella prospettiva marsiliana. Essa si esplica sia a livello pubblico, nella partecipazione alle decisioni che concernono il bene comune, sia a livello privato; ed è qui che si inserisce il discorso sull’eresia e sulla conseguente scomunica, che nei suoi effetti civili non compete alla pars sacerdotalis (C.J. Nederman, Liberty, community and toleration: freedom and function in medieval political thought, in Difference & dissent. Theories of toleration in medieval and early modern Europe, ed. C.J. Nederman, J.Ch. Laursen, 1996, pp. 17-37).
Di primo acchito siffatta ricostruzione concettuale non sembra fare una grinza, ma se la caliamo nel contesto della vicenda biografica e intellettuale di Marsilio essa suscita alcune perplessità di fondo, legate anzitutto alla genesi e alla struttura del Defensor pacis e quindi alla intentio auctoris: non si può dimenticare che quest’opera nasce non come un autonomo trattato di filosofia politica, ispirato da principi elevati quali la sovranità popolare e la libertà di coscienza, bensì come un ricco e straordinario dossier di argomentazioni in favore del potere secolare (nel caso specifico rappresentato da Ludovico il Bavaro) contro le ingerenze e i soprusi dell’autorità ecclesiastica. Il ‘repubblicanesimo’ della I dictio – giova ripeterlo – va quindi ricondotto entro i suoi limiti e armonizzato con la prospettiva del Sacro romano impero che fa da sfondo alla II dictio, dato che Marsilio usa come equivalenti i termini civitas e regnum. Il Nederman costruisce invece la sua argomentazione sui principi della I dictio, colti nella loro astratta valenza concettuale, evitando di ‘fare i conti’ con la dictio II, e in effetti il communal functionalism e il consent verrebbero ad assumere ben altro significato nell’orizzonte dell’impero.
Parrebbe a questo punto che il povero Marsilio fosse da ricacciare totalmente in quel Medioevo da cui sembrava invece distinguersi con forza. Non è proprio così: vi è infatti un aspetto decisamente moderno nell’atteggiamento intellettuale del Padovano, ed è il lucido realismo con cui egli guarda alla vita della «civitas seu regnum», ossia dello Stato, per cui l’attenzione viene posta non tanto sulla prospettiva ideale (i ‘fini’ dello Stato) quanto sull’esercizio del potere in senso pieno e forte (la «potestas coactiva»). Ed è significativo che lo stesso richiamo al tema della pace, così diffuso nel Trecento, non assuma in Marsilio quella tonalità etico-religiosa che era invece preminente in altre grandi figure del tempo (si pensi a Dante Alighieri, a Francesco Petrarca o a santa Caterina da Siena). Per Marsilio la pax non è affidata a un personaggio inviato dalla provvidenza per risanare la christiana respublica (come il «veltro» dantesco o il «papa angelico» dei francescani spirituali), ma è una pax solidamente ancorata ai meccanismi di potere, i cui fondamenti vengono analizzati con metodo rigorosamente ‘scientifico’, ossia aristotelico. Ciò che sta a cuore al Padovano non è, a ben vedere, la pax universalis, bensì la pax civilis in quanto pax imperialis, che il fronte ghibellino auspicava per le travagliate città del Nord Italia quale premessa alla «civilis felicitas»: una pace ‘aggettivata’, dunque, non la pace-in-sé-e-per-sé, tant’è vero ch’essa si conciliava tranquillamente con le mire espansionistiche di un Cangrande Della Scala, signore di Verona e vicario imperiale, che puntava fra l’altro alla conquista della guelfa e grassa Padova.
In Marsilio questo lucido realismo si unisce a una forte passione ideologica e si traduce nella fredda determinazione di rimuovere gli ostacoli dottrinali che si frappongono all’impianto strettamente ‘civile’ che egli tenta di imporre alla christiana respublica. Si trattava cioè di fronteggiare sul piano argomentativo l’invadenza e lo strapotere dell’autorità ecclesiastica, basati su un solido apparato teorico che si avvaleva della visione dionisiana della Chiesa e dei suoi rapporti con il ‘mondo’. Di qui il ricorso all’apparato filosofico-politico aristotelico e, in particolare, al concetto di legislator seu civium universitas (ribadito sino ad affermare sul piano teorico l’infallibilità del populus), che gli consentiva di fondare in maniera autonoma il potere secolare e che poi, tramite l’equivalenza con la universitas fidelium, gli apriva la possibilità di porre la vita della Chiesa sotto la supervisione della pars principans. Al di là dell’apparato aristotelico della I dictio, quest’attenzione per la «realtà effettuale» e questo nesso stringente fra teoria e prassi fanno di Marsilio una figura più rinascimentale che tardomedievale, più vicina all’autore del Principe che agli autori degli specula principum o dei trattati De regimine principum: inevitabile qui l’accostamento di Marsilio a Machiavelli e a Francesco Guicciardini o, spingendoci più innanzi, a fra Paolo Sarpi o a Pietro Giannone, in una prospettiva che fa coincidere la dimensione ‘civile’ con quella ‘laica’.
Fin qui Marsilio e il contesto storico e culturale in cui egli visse. Ma si sa che un testo, una volta posto in circolazione, viene ad avere una sua propria storia, fatta di interpretazioni e utilizzazioni spesso contrastanti e non sempre riconducibili a un presunto sviluppo ‘logico’. Ciò vale soprattutto per un testo a un tempo filosofico-politico e teologico-politico qual è il Defensor pacis, la cui ambivalenza trova un riscontro assai significativo nell’età della Riforma. Ci limitiamo qui a due episodi particolarmente emblematici. Il primo riguarda la traduzione inglese del Defensor pacis, compiuta da William Marshall nell’ambito di una serie di iniziative editoriali dirette a sostenere sul piano dottrinale la riforma enriciana. La Defense of peace apparve nel luglio 1535 in un momento assai delicato, a pochi giorni dall’impiccagione di alcuni monaci certosini e dalla decapitazione di Thomas More e del vescovo di Rochester John Fisher, che si erano rifiutati di riconoscere la supremazia del re in campo religioso. L’opera venne sottoposta dal Marshall a parecchi tagli e aggiustamenti (le 42 conclusiones della III dictio, per es., risultano ridotte a 30), in modo da renderla funzionale alla politica di Enrico VIII: «Così purgato, il Defensor pacis diveniva un breviario dell’assolutismo» (J. Lecler, Histoire de la tolérance au siècle de la Réforme, 1° vol., 1955, trad. it. 1967, 20042, p. 365; si veda inoltre Piaia 1977, pp. 143-66).
Il secondo ci porta dall’altra parte della Manica, nelle Province Unite e quindi in ambito calvinista. Esso si riferisce alla celebre controversia teologica e politica fra arminiani (o ‘rimostranti’) e gomaristi (o ‘contro-rimostranti’), ossia fra i seguaci di Jakobus Arminius (che in tema di predestinazione si opponeva alla tesi più rigorista) e quelli di François Gomar, intransigente assertore dell’ortodossia calviniana, la cui posizione finì con il prevalere nel sinodo di Dordrecht (1618-19). Arminius s’era appellato all’autorità civile, riconoscendo solo a quest’ultima la competenza di risolvere questioni dottrinali.
In tale controversia, che ebbe risonanza europea e segnò un momento forte nella storia della tolleranza, un ruolo di primo piano fu svolto da Ugo Grozio, che nel 1613 scese in campo con l’opera Ordinum Hollandiae ac Westfrisiae pietas, nella quale rivendicò la legittimità della posizione sostenuta dai ‘rimostranti’ ed espose alcuni punti centrali dello jus circa sacra, ovvero del diritto d’intervento del potere civile in materia religiosa. In questa trattazione – ecco il punto – egli si richiama esplicitamente al Defensor pacis a proposito della convocazione del concilio e dello jus electionis pastorum, che spettano al magistrato civile, e Marsilio è menzionato come uno dei campioni della lotta contro i soprusi del clero. Grozio farà poi nuovamente ricorso al Defensor pacis in un’altra opera, il De imperio summarum potestatum circa sacra, apparsa postuma a Parigi nel 1647 e nella quale è svolta un’accurata esegesi delle tesi marsiliane, in modo da rafforzare un’interpretazione estensiva dei poteri del magistrato civile in materia religiosa. Ma v’è di più: proprio il Gomar, l’intollerante avversario degli arminiani, aveva promosso e curato nel 1592 una nuova edizione del Defensor pacis (l’editio princeps era apparsa nel 1522), che egli apprezzava per il suo potenziale antipapista e che riteneva utile ai fini della lotta di Enrico IV di Navarra per la successione sul trono di Francia (Piaia 1977, pp. 247-53 e 259-70). A questo punto viene da chiedersi: Marsilio con chi si sarebbe sentito maggiormente in sintonia? Con William Marshall (e quindi con Enrico VIII), con François Gomar o con Ugo Grozio?
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