CARRARA, Marsilio da
Nacque a Padova intorno al 1294 da Pietro, soprannominato Perenzano, fratello di Giacomo I e da Emidia, forse della famiglia Fieschi. Svolse una parte di primo piano nel quadro della complessa situazione padovana del primo Trecento, agitata da lotte interne e travagliata, fin dal giugno del 1312, dalla guerra con Cangrande Della Scala.
Durante la breve signoria dello zio Giacomo (I) (15 luglio 1318-4 nov. 1319) e le signorie sostanzialmente nominali di Enrico di Gorizia (5 genn. 1320-5 sett. 1321) e di Enrico di Carinzia (5 sett. 1321-3 sett. 1328), vicari di Federico d'Asburgo, re dei Romani, il suo nome emerse infatti più volte legato a interventi spesso decisivi. Acerrimo nemico dei fuorusciti ghibellini, il C. ebbe la casa e le proprietà devastate dopo il loro rientro in patria in seguito alla pace con lo Scaligero firmata il 14 marzo 1318. Se ne vendicò nel novembre del 1319, quando, avvenuta la cessione di Padova ad Enrico di Gorizia, quale rappresentante del re Federico (4 novembre), provvide con Antonio da Curtarolo a far decretare il bando perpetuo dei fuorusciti aderenti a Cangrande e dei discendenti fino al terzo grado, oltre la confisca dei beni e l'atterramento delle case. Partecipò poi, segnalandosi per valore, alla battaglia del 26 ag. 1320, grazie alla quale Padova venne liberata da un ennesimo assedio delle milizie scaligere. Naturalmente il C. fu contrario alla riammissione in città dei fuorusciti, prevista dall'intesa raggiunta nel marzo del 1323 da fra' Paolino minorita tra Padovani intrinseci ed estrinseci. E proprio per impedire il loro rientro, si accordò segretamente nel maggio del 1324 con Enrico di Carinzia, convincendolo a venire a Padova: ma l'arrivo del vicario regio non fruttò che una temporanea tregua con Cangrande Della Scala (26 luglio).
Alla morte di Giacomo (I), il 22 0 23 nov. 1324, che lo istituì suo erede, il C. venne ad occupare la posizione di prestigio già avuta dallo zio nella vita politica padovana, conservando il primato in città non solo nei confronti dei vicari tedeschi, ma anche all'interno della sua stessa famiglia. Infatti, dopo esser riuscito a domare il 22 sett. 1325 la sollevazione contro i Carrara capeggiata da Paolo Dente e motivata dall'omicidio di Guglielmo, fratello di questo, commesso dal carrarese Ubertino, egli dovette far fronte alla rivolta del cugino Nicolò. Nel giugno del 1326 il C. bandì dalla città alcuni amici di questo, accusandoli di maneggi segreti con lo Scaligero; tali accuse si fecero pure contro lo stesso Nicolò, che il 2 luglio 1327 fuggì perciò a Venezia e qui, unendosi agli altri fuorusciti, si alleò con Cangrande. La minaccia dei congiurati esterni da Nicolò e occultamente capitanati sovvenuti dallo Scaligero, spinse il C. a recarsi a chiedere aiuti, ma senza alcun risultato, al duca di Carinzia, divenuto re di Boemia. Nel novembre praticamente tutto il contado padovano era nelle mani di Nicolò e della parte bandita. Passato l'inverno, la primavera del 1328 iniziava con una più accanita ripresa delle loro scorrerie e devastazioni, mentre il presidio tedesco dava prova di assoluta inefficienza. Il C. sollecitò anche l'intervento del pontefice Giovanni XXII, che nel marzo invitò Nicolò a porre fine alla rivolta. Ma nemmeno l'appello del papa sortì alcun risultato e il C., vista la gravità della situazione, preferì offrire segretamente a Cangrande il dominio di Padova e il compimento del matrimonio, già proposto da Giacomo (I) nel 1318, di Taddea da Carrara, figlia dello stesso Giacomo, con Mastino, nipote dello Scaligero, per escludere quello offerto da Nicolò della propria figlia Iselgarda con il detto Mastino. Stabilito l'accordo, il 1º sett. 1328 le nozze vennero celebrate di nascosto a Venezia e il 3 settembre, per acquistare l'autorità necessaria ad imporre ai Padovani la dedizione della città al nemico, il C., dopo aver introdotto molti villici armati e suoi seguaci, si fece acclamare signore e licenziò la guarnigione tedesca. Il 7 settembre giunse Mastino Della Scala con numerose truppe e il C., garantitasi così l'impossibilità di qualunque opposizione, comunicò al Maggior Consiglio la decisione di cedere la città a Cangrande, che entrò in Padova il 10 settembre e ricevette il giorno seguente la tanto agognata signoria, nominando il C. suo vicario. In tal modo il C. realizzò tre obiettivi della sua abile politica: evitò il completo assoggettamento della città, assicurandole, da parte dello Scaligero, alcune garanzie costituzionali (il Cortusi, pp. 53-54, dice infatti che il C. aveva avuto da Cangrande la promessa "cives omnes in suis iuribus conservare"); inoltre, ottenendo dal conquistatore la carica di vicario, riuscì a mantenere in gran parte l'autorità che da parecchi anni esercitava di fatto in Padova e infine, sventando i piani di Nicolò, si liberò di un pericoloso rivale.
Nel novembre il C., il cui patrimonio era divenuto ingentissimo grazie alla donazione fattagli da Cangrande dei beni confiscati a molti fuorusciti, intervenne a Verona alle feste celebrate per la conquista di Padova e vi fu, con altri, creato cavaliere. Per ordine dello Scaligero, nel giugno del 1329 accorse a Parma in soccorso dei de' Rossi, che difendevano la città dall'assedio delle truppe pontificie, bolognesi e dei da Correggio, e nel mese seguente prese parte, quale capitano dell'esercito scaligero, all'assedio di Treviso, che si arrese il 17 luglio.
Alla morte di Cangrande (22 luglio 1329), cui successero i nipoti Mastino e Alberto, il C., che non risulta continuasse a rivestire la carica di vicario in Padova poiché Alberto vi dimorò quasi sempre, fu da essi impiegato in delicate missioni. Infatti, dopo essere stato podestà di Vicenza per qualche mese, nel giugno del 1332 venne incaricato da Mastino di fomentare le discordie interne di Brescia per agevolarne la conquista e, quando questa si realizzò (4 luglio), vi fu nominato governatore. Nel 1335 anche Parma (15 giugno) e Lucca (15 novembre) caddero sotto la dominazione dei Della Scala, che si valsero del C. per indurre alla sottomissione i de' Rossi.
Ma la crescente potenza degli Scaligeri, il loro tentativo di sostituire alle autonomie locali un assolutismo signorile e soprattutto la loro politica commerciale ostile agli interessi veneziani, con l'imposizione di indebite tasse sulle vie fluviali, l'aumento dei dazi di transito sulle merci e delle decime sui possedimenti, provocarono la pronta reazione della Repubblica veneta, che, alleatasi con Firenze (21 0 22 giugno 1336), dichiarò la guerra, traendone il pretesto da un'iniziativa dei Della Scala, che nel maggio del 1336, per sottrarsi al monopolio di Venezia, avevano costruito saline presso Chioggia e un castello per difenderle. Era l'occasione che il C. attendeva: e si affrettò a coglierla aderendo segretamente alla coalizione antiscaligera. Il trattato che tanto peso doveva acquistare per le relazioni tra la Serenissima e i Carraresi, fu concluso a Venezia il 14 luglio 1337, alla presenza del doge e di ambasciatori fiorentini (Lazzarini, pp. 273-279).
Dalle clausole del trattato, al di là dell'ambigua genericità dei termini, emergono chiaramente quelle durissime condizioni che asserviranno la signoria carrarese a Venezia per oltre due decenni e ne determineranno poi la rovina. Il C. infatti, pur designato a succedere ai Della Scala in Padova quale "generalis et liber dominus", dovette impegnarsi, una volta divenuto signore, ad aiutare e difendere Venezia contro qualsiasi nemico e in ogni occasione, a contribuire con denaro e truppe alla guerra contro gli Scaligeri e, ciò che più conta, ad abolire ogni forma di imposta sui possedimenti veneziani in territorio padovano e di esazione sulle merci veneziane e fiorentine, eccetto quella vigente al tempo in cui Padova si reggeva a Comune; da parte loro Venezia e Firenze si obbligarono ad aiutare il C. nel recupero di Padova e a proteggerlo per il futuro.
L'accordo ebbe pronta realizzazione. Il 3 ag. 1337 Pietro de' Rossi, capitano generale dell'esercito degli alleati, entrò a Padova attraverso la porta di Pontecorvo, lasciata aperta per ordine del C.: Alberto Della Scala venne fatto prigioniero e il C. ottenne la Signoria.
Questa elezione segnò l'effettivo costituirsi della signoria carrarese, che assunse (Cessi, L'espugnazione, pp. 115 s.)un carattere di chiara rivendicazione cittadina nei confronti della precedente dominazione forestiera degli Scaligeri. Ma essendo essa avvenuta, come si è visto, grazie all'intervento di due potenze esterne, Venezia e Firenze, il C., appena eletto, non poté esimersi dal compiere atti che esprimevano, specie nei confronti della prima, il riconoscimento di una sorta di protettorato. In questa luce si deve considerare la visita che il C. fece al doge il 12 agosto "ad reddendam… de re bene gesta gratulationem" (Vergerio, p. 408); la nomina a podestà di un nobile veneziano, Marco Cornaro, nomina che diede inizio alla lunga serie di podestà veneziani chiamati a Padova per circa 20 anni di seguito - dal 1337 al 1357-, i quali contribuirono a mantenere la grande influenza della Serenissima nella vita politica della città; infine la solenne conferma, avvenuta il 30 settembre nel palazzo del C., dei patti segreti del 14 luglio, in base ai quali venne dunque in certo qual modo sancito uno stato di subordinazione politica ed economica della signoria carrarese di fronte alla Repubblica veneta. Ne è prova il fatto che tutti i successori del C. sentiranno la necessità o di chiedere a Venezia un'esplicita conferma o rinnovo del trattato del 14 luglio 1337 o, per lo meno, di conformare la loro politica alle esigenze di una ossequiente alleanza con il governo veneziano.
Dopo aver iniziato la costruzione di un nuovo tratto di mura in Padova e posto l'assedio a Monselice, dove le milizie scaligere organizzavano l'estrema difesa, il C., gravemente ammalato, il 10 marzo 1338 fece approvare dal Consiglio quale suo successore il cugino Ubertino, "semper de beneplacito domini Ducis Venetiarum et communis Florentie" (Cortusi, p. 89), che era stato già designato a succedergli nel trattato segreto del 14 luglio 1337.
Il C. morì nella città natale il 21 marzo del 1338. Con testamento steso l'8 marzo 1338, egli, dopo aver istituito come proprio erede universale Ubertino, aveva nominato commissari i procuratori di S. Marco per l'edificazione a Venezia di un monastero con chiesa a beneficio dell'Ordine dei servi, dotandolo delle case che là possedeva e di molte proprietà nel Padovano: esso sorse nell'isola della Giudecca, e fu intitolato in un primo tempo a S. Maria Novella e successivamente a S. Giacomo.
Il C. aveva sposato in prime nozze Bartolomea di Manfredo Scrovegni, morta nel 1333, e successivamente, nel luglio del 1334, Beatrice di Guido da Correggio. Privo di figli legittimi, lasciò quattro figlie naturali ricordate nel testamento: Giacoma, Cunizza, Donella e Isabella.
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