MARMO (lat. marmor; cfr. gr. μαρμαίρω "brillo", fr. marbre; sp. marmol; ted. Marmor; ingl. marble)
Gli antichi chiamavano marmi tutte le rocce levigate che luccicassero. Presentemente i tecnici dànno tale denominazione ai calcari granulari e compatti suscettibili di politura e utilizzabili perciò come pietre da decorazione. I geologi e i petrografi, con un'ulteriore limitazione, dicono "marmi" solamente i calcari cristallini metamorfici con struttura granulare, saccaroidi derivati per metamorfismo regionale, o dinamometamorfismo e per metamorfismo di contatto da calcari amorfi, o anche da soluzione acquosa e successiva separazione del calcare allo stato cristallino: separazione favorita dalla temperatura molto elevata e dalla pressione.
In sezione sottile il marmo appare formato da un aggregato cristallino di piccoli individui di calcite a contorni indistinti e uniti senza alcuna orientazione e senza spazî vuoti, i quali mostrano nettamente la geminazione polisintetica secondo un romboedro inverso ottuso, dovuta alla compressione (fig. 1). Di rado, per un intenso dinamometamorfismo, un'imperfetta struttura parallela, e ancor meno frequentemente tracce di fossili. Contiene spesso minerali accessorî autigeni, formati cioè per ricristallizzazione nella massa di impurezze del deposito originario; nei metamorfici di contatto più frequenti sono granati, vesuvianite, scapolite, feldspati, titanite, spinello, magnetite in quelli formati per metamorfismo regionale, quarzo, orneblenda, miche, talco, clorite, ematite, rutilo, grafite, ecc. Se i componenti accessorî diventano molto abbondanti, si passa al calcefiro, mentre si dice cipollino il marmo attraversato da liste di mica.
La grandezza dei granuli, che dipende dalla composizione chimica e dalla genesi del marmo, oscilla tra 0,2 e 5 mm., di rado maggiore; e sono, o press'a poco di eguale grandezza in tutta la massa, come nei marmi di Carrara e dell'isola di Paros, o più grandi, contenuti in una pasta fondamentale più finemente granulare come nel pentelico.
I marmi, in specie bianchi, sono translucidi: secondo Lepsius la luce attraversa una sezione di 15 mm. nel pentelico, di 25 mm. nello statuario di Carrara e di 35 mm. nel marmo pario delle grotte delle Ninfe.
Se essenzialmente costituiti da carbonato di calcio con carbonato di magnesio in quantità variabile, sono bianchi; per altre impurezze la cui presenza è rilevata dall'analisi, assumono colorazioni diverse. Le sostanze carboniose, grafite, carbone, bitume, determinano una colorazione grigia, azzurrastra, nerastra; rossa l'ossido di ferro; giallo bruna l'idrossido; macchie brune, nere o gialle, specialmente dopo l'alterazione, i carbonati di ferro e manganese e la pirite. La silice è spesso presente, mentre di rado si rinvengono fosfati, nitrati e, nel marmo di Carrara, tracce di terre rare.
La resistenza alla compressione del materiale scelto dei giacimenti apuani oscilla intorno ai 1000 kg. per cmq., toccando talora anche i 1300, il peso specifico varia tra 2,701 e 2,707.
Il marmo si trova in filoni della potenza di pochi centimetri fino a mille metri in micascisti, gneiss, filladi e simili rocce, appartenenti all'Arcaico o interpretati come più recenti, triassici, giurassici o cretacei.
Giacimenti italiani. - Data la grande diffusione dei marmi, sono ricordati solamente i giacimenti di qualche importanza tecnica.
Alpi Apuane. - È il più importante in Italia e, attualmente, nel mondo. Comprende i centri marmiferi del Carrarese (Lucido, Sagro ed Equi), del Massese (Corchia), della Versilia (Seravezza) e della Garfagnana (alta valle del Serchio). Esso fornisce ancor oggi, dopo secoli di sfruttamento, al mercato mondiale, la maggior parte degli "statuarî" detti moderni, in opposizione agli antichi provenienti dalla Grecia.
L'inizio dell'utilizzazione del giacimento nelle adiacenze dell'antica Luni, onde il nome di marmo lunense, risale a due secoli a. C. e il commercio con Roma a 70 anni prima dell'era volgare. La maggior prosperità del commercio, che continuò attivo fino al sec. II e III d. C., risale agli anni compresi tra il 98 e il 180 d. C., cioè da Traiano a Marco Aurelio, in cui più attivamente furono lavorate le cave di Poggio Domizio, Fantiscritti e Polvaccio, che fornì il marmo per la colonna Traiana e per l'Apollo del Belvedere.
Nel Medioevo si ebbe un abbandono completo delle cave e solamente nella prima metà del 1500 tornò a fiorire l'industria marmifera per il grande numero d'artisti insigni viventi nell'epoca e in special modo per opera di Michelangelo, al quale spetta il merito di avere riaperto le stesse cave che per secoli erano state pressoché abbandonate. Egli, inoltre, mise in valore le cave di Seravezza; utilizzò il marmo del M. Altissimo per il mausoleo di papa Giulio II in Roma.
Dopo un altro periodo di decadenza nel 1600, si ebbe una breve ripresa, alla metà del 1700, interrotta però immediatamente per la rivoluzione francese e per tutte le altre vicende politiche fino al 1830. Dal 1830 al 1914 lo sviluppo dell'industria marmifera apuana segnò un continuo crescendo interrotto bruscamente dalla guerra mondiale. Essa subì, come tutte le industrie, la grave crisi bellica e postbellica e solamente con il migliorare delle condizioni tecniche per l'estrazione e la lavorazione del marmo, la produzione ha avuto dal 1927 una nuova ripresa.
La grande formazione marmifera delle Apuane, originata da un esteso metamorfismo, corrisponde al Triassico. La base di essa è costituita dagli scisti permici, sopra i quali posano degli strati calcarei dolomitici del triassico medio chiamati localmente grezzoni e contenenti come fossili caratteristici specialmente Encrinus liliiformis e sopra essi ancora i banchi di marmo saccaroide bianco o colorato. L'estensione superficiale di essa supera i 6000 ettari. Nelle sole valli di Carrara l'area occupata dalla massa principale raggiunge i 1000 ettari e, a un livello più alto, la lente degli statuarî rappresenta un'area di quasi 200 ettari.
Tenendo conto dello spessore massimo di questa lente che supera i 250 m. e calcolando con deduzioni stratigrafiche a più di 1000 metri quello della lente principale, si può ritenere che la massa marmorea del Carrarese affiori per una superficie di circa 1000 ettari, con uno spessore massimo di 1300 m. Essa costituisce una massa imponente, in vicinanza del mare e con facilità di accesso, di marmo bianco di qualità pregevolissima superiore a tutte le altre del mondo per saldezza, docilità allo scalpello, possibilità di perfetta lucidatura e giusto sviluppo della grana. Ciò spiega come in ogni tempo la regione carrararese sia stato il centro principale dell'industria dei marmi e come tale primato possa esserle assicurato per qualche migliaio di anni con la produzione attuale. Nel marmo apuano sono stati spesso trovati i seguenti minerali: quarzo, ortoclasio, plagioclasio, muscovite, biotite, orneblenda, clorite, epidoto, klinozoisite, tormalina, scapolite, titanite, apatite, rutilo, pirite, ematite, magnetite, dolomite, e molti altri più rari.
Le varietà, a seconda del colore e della struttura si distinguono in: Bianco chiaro ordinario, costituito da carbonato di calcio quasi puro 97-98% a grana fina e colore leggermente azzurrognolo; talora attraversato da macchie azzurro-cineree, indicato per decorazione e rivestimenti. Statuario, a struttura saccȧroide, di fondo bianco puro tendente al giallognolo, o venato (v. tav. LXIX), particolarmente adatto per la statuaria. Bianco P., caratteristicamente bianco. Bardiglio, di colore azzurro-cinereo, dovuto a inclusioni di origine organica. Bardiglio fiorito, varietà pregevole di colorazione azzurro-cinerea con intensa ramificazione grigio-scura; e ancora bardiglio cappella e bardiglio tigrato (v. tav. LXX). Paonazzo apuano, ha fondo di color bianco giallognolo o carnicino con macchie e venature nere, verdastre, gialle e brune dovute a infiltrazione di oligisto, che sfumano e s'intrecciano tra loro. Fior di pesco, per il suo colore che tende al fior di pesco con gradazioni al bianco o al violetto per materia ferrifera; varietà nota agli antichi che la traevano dall'Epiro e l'indicavano col nome di marmor molossium. Cipollino apuano (v. fig. 5) di colorazione verdastra simile al cipollino vero, ma dovuto a materiale eterogeneo convertitosi in scisti sericitici e cloritici. Tra i marmi eterogenei: breccia violetta (fig. 4), skyros d'Italia, a fondo bianco chiaro alternato con noduli e venuzze disposte senza alcuna simmetria, prevalentemente di color viola o verde-grigio: si rinviene a Stazzema ed è perciò anche detta mischio di Stazzema (fig. 3); breccia medicea, a elementi saccaroidi di colore arancione a vari toni con cemento violetto scuro; arabescato dell'Alta Versilia con fondo grigio molto chiaro attraversato da venature grigie più intense ramificate così da somigliare a un arabesco. Da notare anche il calacata bianco con chiazze giallognole, il rosso antico e il viola antico, di color rosso cupo.
Piemonte. - L'industria dei marmo in Piemonte ebbe splendori dal 300 al 400; fu poi abbandonata e solamente in tempi recentissimi si è iniziata l'apertura di parecchie cave. Le varietà principali sono: marmo bianco di Pont, Valdieri, Crevola d'Ossola. Quello di Candoglia nella bassa Val d'Ossola a grana cristallina piuttosto grossa, di un delicato colore rosa carnicino, è notissimo perché usato nella costruzione del duomo di Milano. Marmo nero venato di Muroglio perfettamente lucidabile e la cui colorazione è dovuta a ossidi di ferro. Marmi verdi di Susa, Cesana, Rocca Pietra (donde proveniva il famoso verde antico di Varallo). Marmi rossi di Crevola d'Ossola e marmi viola di Pamparato e Mondovì con colorazione dovuta a sesquiossido di ferro. Marmi bardigli a Valdieri (Cuneo) e il famoso cipollino dorato a Valdieri, Frabosa e Acceglio.
Lombardia. - Le provincie di Como, Bergamo e Brescia sono ricche di marmi o calcari compatti suscettibili di levigazione. Botticino, calcare del periodo liassico che si estrae dalle cave di Botticino e Mazzano presso Brescia. Ha colore bianco giallognolo, grana fina, omogenea di grande saldezza: col tempo si ricopre di una patina travertinosa giallo bruna, assumendo delle intonazioni che si ammirano nei vecchi monumenti bresciani, con resistenza alla pressione di 1200-1500 kg. per cmq. Fu impiegato fra l'altro, per il monumento a Vittorio Emanuele e per il rivestimento del Palazzo di giustizia in Roma. Breccia Aurora, con sfumature giallastre, verdi e rosso-scure. Nero d'Iseo o nero di Riva di Solto (in provincia di Bergamo), marmo del periodo retico quasi nero a venuzze sovrapposte più intense. Ancora in provincia di Bergamo il marmo cristallino liassico di Zandobbio e l'arabescato rosso antico della Valle Brembana. Importanti, di uso crescente sono il nero di Varenna, e il bianco di Musso in provincia di Como.
Veneto, Venezia Giulia e Venezia Tridentina. - I marmi colorati si trovano nelle provincie di Verona, di Vicenza e nella Carnia. Sono calcari più o meno intensamente colorati in rosso e in giallo, altri quasi bianchi o leggermente bruni, carnicini e rossi. Quasi tutti questi marmi sono ricchi di fossili, raramente presentano venature regolari, più spesso hanno struttura brecciforme a elementi più o meno grandi. Marmo di S. Vitale, del liassico, a fondo bruno violaceo con venature sovrapposte. Lumachella (tav. LXIX), conglomerato conchigliare della stessa formazione geologica, giallastro con parti bruno-scure. Broccatello, a fondo giallo-rosso. Questi marmi si trovano nel Giurassico medio superiore con colorazioni giallo, rosso chiaro e rosso vivo, ricchissimi di ammoniti: conosciuti in commercio con il nome di marmi di Verona. Si presentano in banchi di spessore variabile non superiori ai trenta metri. Se il materiale è brecciato o spezzato in frammenti angolosi ricementati si ha il mandorlato. In provincia di Vicenza: il rosso e giallo d'Asiago, il nembro di Chiampo e il Chiampo mandorlato (fig. 2).
Sono da ricordare: i diversi rosso-porfirei con punteggiatura bianca della Carnia con il 91,91% di CaCO3 e il resto di silice, ossidi di ferro, a cui devono la colorazione, e ossido di alluminio; la pietra aurisina che si estrae ad Aurisina e altre località del Carso, con il nero del Carso, il repen e lo stalattitico-scuro.
Nella Venezia Tridentina si trovano marmi bianchi in Val Venosta tra Lasa (Laas) e Silandro (Schlanders) in forma di lenti nelle filladi con interposti scisti micacei e presso Vipiteno (Sterzing) nella valle di Racines (Ratschinges) negli scisti micacei accompagnati da anfiboliti, eclogiti, scisti verdi e attraversati da filoni di pegmatiti. Si ritengono gli uni e gli altri formati per metamorfismo di contatto da calcari sedimentari di età incerta: i primi più finemente granulari con granuli al massimo di 1 mm. di grandezza, che nei secondi raggiungono i 5 mm.
Liguria. - I marmi più noti della Liguria sono il portoro, verde di Polcevera, rosso di Levanto. Il portoro ha color nero con vene e macchie giallo oro (d'onde il nome). Geologicamente appartiene alla formazione dei calcari dolomitici infraliassici che costituiscono il promontorio occidentale e le isole del golfo della Spezia. Si presenta in banchi di 6-7 metri di spessore. Vi sono qualità a macchia larga e a macchia fine. Le migliori cave dànno una produzione di circa 1200 metri cubi, pari a circa 4000 tonnellate. Il verde Polcevera - oficalce - costituente un termine intermedio fra i calcari e le serpentine, viene scavato a Pietra Lavezzara vicino a Pontedecimo. Il rosso di Levanto è anch'esso un oficalce con tinta prevalentemente rossastra dovuta ad alterazione della serpentina, frammisto con noduli verde scuro e venuzze che fra loro s'intersecano irregolarmente.
Toscana. - Oltre i marmi della regione apuana più sopra ricordati per la loro grande importanza, sono degni di menzione i seguenti: marmo di portasanta, che si scava presso Caldana nel comune di Gavorrano (Grosseto). È un calcare a chiazze irregolari bianche e rosa con venuzze grigio-scure, che si trova al contatto fra calcari bianchi del Liassico inferiore e rossi del Liassico medio. La produzione annua è di circa 300 tonnellate. Con lo stesso nome di portasanta si designa anche il marmo che gli antichi traevano dall'isola di Jaso presso la costa caria e che è indicato anche col nome di cario: è di colore molto vario. Marmo rosso a Montierí (Grosseto) e Avana (Pisa). Giallo di Siena, a Casale d'Elsa e Chiusdino, appartiene al Triassico: è di grana molto fine e compatta ed è racchiuso in banchi o lenti tra grezzoni al letto e scisti ardesiaci al tetto. È di colore giallo misto o giallo venato, e noto da tempo antico, specialmente in Toscana. La produzione annua è di circa 3000 tonnellate. Serpentina verde di Prato: è una serpentina verde scura, suscettibile di un bel pulimento e di un'ottima lucidatura. La maggior produzione serve per elementi decorativi.
Altre regioni. - Nell'Umbria si estraggono il mandorlato, il nero di Lucugnano, il paonazzo di Lucugnano e di Cottanello. Quest'ultimo fu adoperato per le colonne nelle navate laterali di S. Pietro a Roma. In Sicilia i marmi colorati e rossi di Trapani e Palermo, e in Sardegna i colorati e brecciati del monte Doglia.
Giacimenti esteri. - Grecia. - Nei tempi passati i giacimenti greci occuparono il primo posto nel mondo; oggi la loro produzione è ridotta a 2000 mc. per anno.
Si trovano principalmente nel lato orientale della regione e nelle isole Cicladi e sono ritenuti in parte appartenenti al periodo cretacico, in parte all'arcaico. Marmo pario (greco duro), detto anticamente lichnites (ted. Lampenstein) dell'isola di Paro nel mare Egeo. Di color bianco neve, o debolmente azzurro, il più translucido dei marmi, con inclusioni di bitume. Fu il più usato per la scultura. Marmo pentelico (greco fino): si trova negli scisti micacei del Pentelico, a NE. di Atene; di color bianco giallastro spesso con scagliette di mica che, decomposte, conferiscono al materiale una patina bruna oro. Ha struttura granulare saccaroide con granuli di diversa grandezza: di esso sono fatte le colonne del Partenone e varî edifici dell'Acropoli. Marmo cipollino antico, o marmor Carystium, proviene da Caristo nell'Eubea, di color bianco o grigio chiaro, verdiccio o gialliccio con venature spesso ondulate e tortuose di mica; se ne ricava ancor oggi. Marmo imettico dall'Imetto presso Atene, di color grigio o grigio blu per inclusione di particelle carboniose e con lamelle di mica. Marmo di Nasso, dall'isola di Nasso, di color grigio chiaro, con striature e macchie più scure. E meno universalmente noti i marmi di Laurio, Taso e Chio, e il verde antico della Tessaglia. Da Chio proveniva un marmo a macchie di varî colori con zone scure, conosciuto col nome di africano. Dal promontorio Tenaro nella Laconia proveniva il marmo nero detto anche tenario: è quello del lapis niger al Foro Romano. Dalla Laconia proveniva anche il rosso antico detto di Grecia.
Belgio. - I marmi del Belgio si dividono in tre categorie: rossi, neri, fra i quali il nero e il nero filettato bianco corrispondono al grande antico del Nord, e petits granits. Sono situati lungo la frontiera francese.
Francia. - Produce un discreto quantitativo di buoni marmi colorati. La regione dei Pirenei è la più ricca di marmi, fra i quali il più noto è quello di Saint-Béat nell'alta Garonna, appartenente al Liassico. Si ricordano ancora i verdi di Lez, il Grand Antique, detto anche Drap mortuaire, e il rosso di Francia. Ai confini con l'Italia si trovano marmi rossi e gialli uniti, venati o brecciati, nei dipartimenti del Var, Bocche del Rodano e nelle Alpi Marittime; a N., presso la frontiera belga, vi sono marmi del tipo di quelli del Belgio ma di minor pregio. La produzione di questi ultimi anni è stata di circa 25.000 tonn.
Germania. - Si trovano marmi in Baviera, nel Württemberg, nella Vestfalia, nella Renania, nella Turingia, nella Slesia. Di color rosso vario in Baviera, tra i quali il Rupoldinger-hell che si avvicina al rosso di Verona. I più noti si trovano a Oberscheibe e Altemberg nell'Erzgebirge, inclusi nei micascisti a Gross-Kunzendorf in Slesia, bianchi fino a grigi, e nelle filladi a Wunsiedel nel Fichtelgebirge. Ad Auerbach nell'Odenwald assiano si trova marmo formato per metamorfismo di contatto fra il cosiddetto granito di Hochstädten e un granito a orneblenda, a grana fina o anche grossa, a colore variabile dal bianco puro al nero grigio. Inoltre i due Hohlstein a macchie bianche in fondo grigio della Vestfalia, il Forelle di fondo grigio, con macchie che sembrano fiamme, della Turingia e il cosiddetto onice tedesco di color giallo avorio e rosso acceso con bande gialiognolo-rossicce, nel Württemberg. Se ne scavano annualmente 7500 mc.
Austria. - Si trovano marmi nella Carinzia settentrionale dalla Drava ai confini della Stiria in scisti micacei e filladi; quelli di Gummern presso Villacco, di St. Gertraud nella valle di Frass e del Wörthersee sono usati per materiali da decorazioni, quelli degli altri centri per l'industria chimica. Il giacimento, simile a quelli della Val Venosta, è anche qui attraversato da filoni di pegmatiti, apliti, graniti, rocce di specie dioritica, lamprofiri, in cui i marmi talvolta fortemente magnesiaci hanno minor pregio. Presentano interposti strati di mica e come minerali accessorî frequenti zoisite, epidoto, orneblenda, quarzo, augite, titanite, mentre mancano completamente i tipici minerali di contatto.
Spagna. - Nella provincia di Alicante esistono in corso di lavorazione alcune cave di marmo di differente qualità e colore, dalle quali furonc estratti, nel 1930, 3500 mc. circa. Se ne trovano anche nei Pirenei, nella Sierra Morena, in provincia di Almeria. Nell'antichità proveniva dalla Spagna, e particolarmente vicino a Tortosa, il broccatello, di color giallo dorato con macchie di giallo più scuro o di violetto.
Norvegia. - Nel distretto di Nordland si trovano marmi probabilmente cambrici, inclusi negli scisti micacei e accompagnati da mica cromifera e rutilo, passanti per l'alto contenuto di MgCO3 in marmi dolomitici. Di color bianco, grigio, azzurro-grigio, giallo, rosa, finemente granulare. I giacimenti più importanti sono a Fauske, centro anche della giovane industria, a Velfjord, a Vefsnafjord, Rauen, ecc,
Stati Uniti d'America. - Si trovano giacimenti di calcari marmiferi nella regione di Stevens e Washington, filoni marmiferi più importanti in California, ove si trovano anche gli onici. Nel Colorado un marmo bianco. o nero o giallo. Importanti sono le cave nel Tennessee e nello stato di Vermont.
Uruguay. - È tra gli Stati dell'America latina il maggiore produttore di marmi. A Nuova Carrara, presso Montevideo, esistono moderne escavazioni di marmi brecciati e rosso orientali. Altre cave nel distretto di Minas Verdun producenti marmi varî e brecce colorate.
Africa. - Nell'Africa occidentale, già tedesca, è stato rinvenuto negli gneiss un marmo bianco o variamente colorato con tremolite, vollastonite e scapolite: i centri di estrazione sono a Swakopmund, Kubas, Habis, Novachab, Karibib.
Molto usati nell'antichità erano il marmo di Simitthu o numidico di color giallo (giallo antico), anche venato di rosso, il marmo del Djebel Felfela vicino a Bona, bianco a gmna fina, usato per la statuaria, infine il rosso antico d'Egitto.
Asia. - Dall'Asia provenivano nell'antichità il marmo di Sinnada nella Frigia chiamato pavonazzetto, di color bianco con vene violacee o rosa, e molto usato dai Romani; il marmo di Proconneso (Marmara), bianco candido, venato di nero, molto adoperato negli edifici dell'Asia Minore, e che ancora oggi fornisce il maggior quantitativo di marmo alla Turchia. Il marmo fengite che si estraeva nella Cappadocia bianco e suscettibile di pulitura fino a essere reso speculare.
Produzione ed esportazione italiana. - Secondo la relazione annuale del servizio minerario, nel 1931 erano in esercizio, in Italia, 758 cave di marmo, di cui 746 a cielo aperto. Lavoravano in queste cave in complesso 10.555 operai, ed eranò in esercizio 695 motori, prevalentemente elettrici, con una potenzialità di 11.665 cavalli vapore. La produzione in quell'anno raggiunse un valore totale di circa 103 milioni, e un quantitativo di 404.432 tonn., quantitativo molto scarso se comparato a quello degli anni precedenti fino al 1926, in cui si ebbe una grande espansione, e al periodo stesso d'immediato anteguerra.
Circa la distribuzione geografica della produzione, va notato che la regione delle Alpi Apuane, comprendente la provincia di Massa Carrara, la Versilia e la Garfagnana nella provincia di Lucca, fornisce la massima parte della produzione di marmo bianco: nel 1931, tonn. 307.896 circa (v. più oltre). Seguono a grande distanza nella produzione di questo marmo, la provincia di Brescia con 12.980 tonn. nel 1931, la prov. di Bolzano, con 5448 tonn., e Como, Bergamo e Roma per alc me centinaia di tonnellate. Le provincie di Verona con 15.000 tonn., Vicenza con 7200, La Spezia con 5250, Benevento, Novara e Siena con 1900 tonn. ciascuna, Torino, Cuneo, Foggia, Bari, Brescia, Genova con 1000-1500 tonn. ciascuna forniscono la massima parte della produzione di marmi colorati. La rovincia di Verona, infine, fornisce, oltre i suoi marmi, anche i rottami per granulati ricavandoli dai rifiuti delle proprie cave.
L'esportazione è alimentata in prevalenza dalla regione apuana. Negli ultimi anni essa ha avuto un andamento alquanto irregolare in ragione delle variabili condizioni economiche dei mercati di assorbimento.
I principali mercati di assorbimento dei marmi italiani sono la Gran Bretagna (nel 1931: tonn. 9578 di greggio e 31.709 di lavorato), la Francia (tonn. 19.208 di greggio e 1655 di lavorato), la Germania (tonn. 16.456 di greggio e 2142 di lavorato), gli Stati Uniti (tonn. 12.916 di greggio e 3093 di lavorato), il Belgio (tonn. 8125 di greggio e 1213 di lavorato), l'Argentina (tonn. 3162 di greggio e 5854 di lavorato), ecc.
Il marmo di Carrara.
Stratificazione e fenditure del marmo. - Considerando (fig. 6) un parallelepipedo di marmo con la faccia ACDV parallela alla stratificazione, si chiama verso la direzione AV della stratificazione stessa, secondo verso la AS, contro la AC, normale alle prime due.
Nelle buone cave, il marmo si trova in banchi di grande spessore e la cui direzione presenta una notevole continuità. In essi esistono delle fenditure, dette peli, che i cavatori utilizzano per l'estrazione. Si distinguono tre peli principali: il pelo del verso, il pelo del secondo, il pelo del contro.
Metodi di abbattimento. - Lo scavo s'inizia con la ripulitura del monte da tutto il materiale smosso e dal materiale minuto inutilizzabile, fino a mettere allo scoperto i banchi che presentano la richiesta saldezza.
I Romani fendevano i banchi praticando con lo scalpello, in corrispondenza di fenditure naturali, dei solchi profondi con sezione a V (formella o tagliata) entro cui forzavano dei cunei di ferro (fig. 7). Aperta in tal modo, o allargata, una fenditura e staccato un blocco dal resto del banco, lo facevano scorrere su sfere di ferro. Questo antico metodo è ancora seguito in qualche caso.
Con l'introduzione della polvere pirica, vennero in uso le mine (v.), delle quali si andò accrescendo la forza, fino a quelle grandissime, per le quali si apriva una grande camera di scoppio versando nel fondo del foro praticato col palo da mina dell'acido cloridrico, che scioglie il calcare. Le mine presentano, però, gravissimi inconvenienti: oltre ad aprire nel monte fenditure dannose, fratturano il marmo in modo che solo una parte di quello abbattuto può essere utilizzata e si hanno grandissime quantità di detriti non commerciabili, che ingombrano le cave. Tuttavia, esse sono sempre usate dove è facile l'eliminazione dei detriti (spurgo) e per il lavoro di scoprimento del marmo di buona qualità, coperto da altra roccia o da marmo scadente. In certi casi si usa il metodo per varata, che consiste nel brillamento simultaneo di una serie di mine, che staccano dal monte un forte volume di materiale (fig. 8). Per frenare la caduta dei blocchi utilizzabili staccati con le mine si prepara nella cava un letto di detriti per evitare che si frantumino.
Ormai è d'uso generale il taglio col filo elicoidale - introdotto nelle cave apuane nel 1895 - e cioè con una fune del diametro di 4-7 mm., formata da tre fili d'acciaio avvolti a elica, la quale scorre sulla roccia con una certa pressione e con la velocità di 4-6 m. al secondo, trascinando fra le sue spire una miscela di sabbia silicea e di acqua, che cade in pioggia continua su di essa. La sabbia abrade la roccia, scavandovi un solco largo 8-10 mm. Il filo forma un circuito chiuso, al quale si dà uno sviluppo di 300-400 m. per evitare un logoramento troppo rapido. Esso è mosso da una puleggia - mossa alla sua volta da un motore - ed è guidato da due pulegge direttrici, collocate alle estremità del taglio, che scorrono in montanti e si abbassano (con un semplicissimo meccanismo) man mano che il taglio avanza; dalle pulegge direttrici passa su altre pulegge folli, portate da montanti ancorati al terreno; poi su una puleggia montata su un carrello tenditore e sollecitata da un contrappeso, che esercita una tensione costante sul filo (fig. 9). Col filo elicoidale si eseguono tagli della lunghezza di 15 -20 m. e della profondità di 5 ÷ 6 m. L'avanzamento del taglio su tali lunghezze può essere di 2 ÷ 3 cm. l'ora (può anche essere di 8 ÷ 15 cm. l'ora, ma in questo caso occorre che la lunghezza del taglio non superi i 5 m.). Si possono tagliare dal monte anche massi di 3000-4000 mc. e si fanno senza difficoltà dei tagli inclinati.
Quando si eseguono tagli direttamente sulla roccia, per evitare la necessità di aprire pozzi di 1,00-1,50 m. di diametro per collocarvi e manovrare gli ordinarî montanti, si usa la puleggia penetrante, inventata da A. Monticolo. È una puleggia folle, a gola, del diametro di 50 cm., spessore 7-8 mm., portata da una forcella; nella gola della puleggia si adatta il filo elicoidale, che ne sporge per metà della sua sezione (fig. 11). E poiché per tagliare nella roccia con la puleggia penetrante è necessario prima praticare nella roccia stessa un foro di 8 cm. necessario al passaggio del tubo che la regge, lo stesso apparecchio che servirà di guida alla puleggia penetrante, si fa agire (fig. 12) da perforatore innestandovi al posto della puleggia la cosiddetta corona diamantata (un cilindro d'acciaio nel quale sono incastrati i diamanti).
Per estrarre un grosso masso col filo elicoidale, dapprima si aprono - coi martelli pneumatici - due piccole gallerie AA (fig. 10) che penetrano fino al piano verticale GH; poi si isola il masso D, eseguendo due tagli - inclinati rispetto all'orizzontale - a partire dalle linee TZ e BC fino al piano GH e un terzo taglio, congiungente i due primi, su quest'ultimo piano; si spezza il masso D e se ne estraggono i pezzi con l'aiuto di piccole mine e di argani, lasciando solo alcuni pezzi per sostegno del masso principale M. Sempre col filo elicoidale e utilizzando, possibilmente, delle fenditure naturali, si praticano due tagli lungo i piani TEG e ZFH. Poi si fanno crollare con mine i pezzi del masso D che ancora sostengono il masso principale M, sicché questo resta in sbalzo, attaccato al monte soltanto lungo il piano GH. Se il suo stesso peso non provoca una fenditura lungo GH. la si apre con una fila di piccole mine; in un modo o nell'altro il masso si stacca dal monte e si adagia sopra un letto di detriti precedentemente preparato.
In seguito alla diffusione degli utensili ad aria compressa, essi sono stati usati anche nelle cave di marmo per tagli di rocce al monte. Il taglio verticale si esegue preparando, con un comune martello perforatore montato su guide scorrenti su barre da cava, da 10 a 15 fori per mm. di taglio e abbattendo poi i diaframmi fra questi fori con tagliatrici pneumatiche, pure montate su guide a barre da cava, che azionano speciali utensili tagliatori. Il taglio orizzontale si esegue preparando i fori e battendo cunei in scanalature ricavate allargando l'imbocco di essi, dopo avere isolato il masso con tagli verticali. A questo metodo si rimprovera la poca profondità del taglio (2,50-2,75 m.), che non consente di staccare grossi massi, ma e la pratica impossibilità di eseguire tagli con forti angoli rispetto alla verticale o all'orizzontale, sicché è difficile seguire le anomalie del monte e ottenere blocchi omogenei; inconvenienti tutti che non si verificano col filo elicoidale.
Quando i massi sono staccati dal monte e ridotti a dimensioni normali, si portano sul piazzale della cava, coi vecchi martini a manovella se si tratta di piccoli spostamenti, con argani (generalmente elettrici) per percorsi più lunghi, specialmente se in salita; poi si riquadrano con lo scalpello pneumatico oppure a mano - con lo scalpello e con la mazza - tenendo conto della grana, della stratificazione e delle macchie del marmo, per ottenere i blocchi più grandi possibili, però di colore, disegno e saldezza uniformi, e perdendo la minore quantità di materiale. Se il blocco ha delle fenditure o altri difetti, si cerca di riquadrarlo in modo che riescano paralleli a una delle facce del parallelepipedo sicché, anche a volerlo poi tagliare in lastre, solo una o due riescano difettose.
I detriti si portano con ferrovie decauville, in luoghi di spurgo o ravaneti. In certi casi si usano lunghi canali di lamiera, nei quali rotolano le scaglie.
Trasporto dei blocchi dalla cava ai posti di carico. - Lizzatura. - Anticamente i blocchi erano semplicemente fatti rotolare dalla cava a valle. Ormai resta solo il nome di questo metodo (abbrivio), che portava a grandi perdite di materiale.
A esso si sostituì la lizzatura, che consiste nel far discendere i blocchi lungo la via di lizza sopra una specie di grossolana slitta, frenata da funi solidamente assicurate al suolo (tavola LXXIII). La via di lizza è semplicemente tracciata sulla roccia o sul terreno; in molti casi vi sono disposti scaglioni di marmo che formano un selciato molto grossolano; ha forti pendenze (talvolta superiori al 45%). La carica è formata da un solo, grande blocco, oppure da parecchi (fino a 15) piccoli blocchi, legati insieme con grosse funi e disposti su due robuste travi (lizza) dalle estremità ricurve verso l'alto e saldamente unite con traverse di legno e bulloni. Il peso totale della carica ordinariamente varia fra 12 e 40-50 tonn. Le travi scorrono su travicelli (parati) spalmati di sapone, che vengono disposti trasversalmente alla via di lizza e calettati con scaglie perché rimangano in posizione orizzontale. La lizza posa sopra tre o quattro di questi parati che, appena essa è passata, vengono tolti e disposti nuovamente davanti ad essa. Secondo il peso della carica e l'inclinazione della via di lizza, la carica è sostenuta da 3, 5 0 6 funi, tutte solidali con quelle che legano i blocchi della carica e avvolte su robuste colonne di legno (più) saldamente incastrate nei massi lungo la via di lizza. Le funi sono lunghe 60-80 m. e possono essere di canapa o di iuta, con diametro di 30-40 mm.; ormai, però, si preferiscono i cavi di acciaio. Ciascuna fune è manovrata da un operaio. Per fare avanzare la carica, si fanno scorrere le funi sui piri, mollandole leggermente e tutte contemporaneamente, in modo che restino tutte egualmente in tensione e si evitino abbrivi e urti che potrebbero essere fatali. Quando una fune è completamente mollata, la si avvolge su un'altro piro. Il lavoro di lizzatura è molto pericoloso per i lizzatori perché la carica può rovesciarsi per lo strappamento di una fune o anche per disuguaglianze o cedimenti della via, o per essere stati mal disposti i parati. I lizzatori normalmente sono riuniti in compagnie di lizza, di 13 uomini ciascuna. Eccezionalmente, e con speciali accorgimenti, si sono lizzati blocchi di peso molto superiore a quelli sopra indicati: così il monolito del Foro Mussolini di Roma, di più di 300 tonnellate, che dall'altitudine di 800 m. fu trascinato a Marina di Carrara per vie con pendenze anche del 60%.
Dove le vie di lizza non erano soggette a spostamenti, sono stati, in certi casi, impiantati dei piani inclinati sui quali corrono delle funicolari (tav. LXXIV).
In tal modo si trasporta il marmo dalle cave ai posti di carico detti poggi. I principali poggi del Carrarese sono collegati a Marina di Carrara dalla Ferrovia Marmifera, inaugurata nel 1876 e completata nel 1900.
Dove è possibile, per il trasporto si utilizzano anche lizze o carri trainati da locomobili a vapore o da trattrici; vanno ormai scomparendo rapidamente i carri a buoi, un tempo molto usati.
Lavorazione del marmo. - La lavorazione industriale del marmo ha principalmente per oggetto la trasformazione dei blocchi in lastre e anche il taglio di colonne e di altri elementi architettonici di disegno semplice. Essa si compie in stabilimenti specializzati - molti dei quali di notevole grandezza - sia nei centri di produzione sia in quelli di consumo. Non si descrive qui la lavorazione a carattere artistico (per la quale v. appresso) sebbene essa faccia parte dell'attività di molti degli stabilimenti sopraccennati. Si ricorda soltanto che i grandi lavori di scultura - quelli, p. es., il cui peso supera le 50-60 tonn. - di solito sono sbozzati sul piazzale stesso della cava, oppure sul piazzale di carico, per ridurre il peso da trasportare e insieme il danno che potrebbe aversi per la scoperta di qualche difetto nel blocco di marmo.
Un tempo il marmo si lavorava a mano, con lo scalpello e col mazzuolo, si segava con lame mosse a braccia e si lucidava pure a mano, con la pietra pomice. Nella seconda metà del sec. XVIII sorsero le prime segherie del Carrarese: esse utilizzavano forza motrice idraulica e ciò costituiva un'importante innovazione. Ormai si usano quasi esclusivamente macchine speciali per la segatura, la lucidatura, la foratura e la tornitura; per altre operazioni sono largamente adoperati i martelli pneumatici.
Le macchine che tagliano i blocchi in lastre sono generalmente chiamate telai multilame (fig. 13). Hanno un movimento di va e vieni e di leggiera oscillazione, e portano molte lame da sega, parallele fra loro, che erodono il marmo trascinandovi sopra una miscela di sabbia silicea e di acqua. Il blocco da tagliare viene portato e tenuto fermo sotto il telaio da un carrello, che corre su rotaie. Il telaio oscilla su stacchi fissi e riceve il movimento sopraccennato, per mezzo di biella e manovella, da un albero la cui rotazione è resa uniforme da un volano contrappesato. Inoltre esso si abbassa, man mano che il taglio avanza, scorrendo entro colonne; quest'altro movimento è dato, per mezzo di chiocciole, da vitomi che servono pure a rialzarlo quando è finito il taglio di un blocco. La miscela di sabbia e di acqua cade in pioggia sul telaio da graticci oscillanti, oppure è distribuita da compressori. Le dimensioni del telaio arrivano a 6,00 × 2,50 m.; lo spessore delle lame è di 3 mm.; il telaio porta fino a 50, talvolta fino a 100 di queste lame, distanziate da tacchette di legno di spessore eguale a quello delle lastre da tagliare. La velocità di taglio, nelle segherie moderne, è di 1 cm. all'ora. Il telaio orizzontale fu introdotto nell'industria del marmo nei primi anni del sec. XIX; esso allora era sostenuto da quattro corde pendenti dall'alto, non aveva guida e prima di applicarvi la forza motrice doveva essere spinto a braccia finché le lame si fossero approfondite abbastanza per guidarsi da sé; tuttavia, anche in questa forma rudimentale, esso tagliava tre o quattro lastre nel tempo che prima occorreva per una sola. Attualmente si usano anche le cosiddette segatrici, nelle quali l'organo lavorante è un disco di carborundum oppure guarnito di diamanti, che ruota con velocità fino a 1000 giri al minuto. Le segatrici a carborundum possono usare dischi sino al diametro di 80 cm. e tagliare spessori sino a 30 cm.; le segatrici a disco diamantato usano dischi da cm. 80 a m. 2 di diametro e taglianti spessori di 30 - 80 cm. Le segatrici a carborundum lasciano il taglio levigato, quelle a diamante lasciano il taglio ruvido. Si hanno segatrici: a) ad asse fisso e carrello spostabile a mano, che si prestano al taglio di lastre fino a 2 cm. di spessore (fig. 14); b) ad asse spostabile (universali) che servono anche per la sagomatura e, con dischi diamantati, possono fare tagli profondi fino a 70-80 cm. (figg. 15 e 16); c) a ponte (fig. 17); d) multiple, e cioè, che hanno parecchi dischi porta mole (fig. 18). Le più importanti segherie sono fornite di grandi gru, che trasbordano i blocchi dai carrí ai piazzali di deposito e da questi alle macchine.
Molto simili alle segatrici ora accennate sono le raffilatrici (fig. 19) che servono a raffilare parallelamente i due bordi delle lastre già prepatate quasi a misura con delle mole a tazza. Portano due dischi e hanno un banco centrale scorrevole, sul quale vengono fissate le lastre.
Le lucidatrici (fig. 20) hanno come organo lavorante un disco abradente, che ruota velocemente a contatto del marmo ed è portato da un braccio mobile, che permette di portarlo in un punto qualsiasi della superficie di esso. Dell'acqua arriva attraverso l'asse del disco il quale può esser mosso da un motore, oppure da un albero di trasmissione, per mezzo di una cinghia. Manovrando una leva lo si innalza o lo si abbassa, per iniziare o interrompere il lavoro. I dischi generalmente sono di ghisa, guarniti di segmenti di carborundum e di smeriglio (applicati con gomma lacca, con pece greca o con zolfo) che hanno grana diversa, secondo il lavoro. La lucidatura brillante si ottiene usando prima un disco di feltro rivestito di una lastra di piombo cosparsa di spoltiglio finissimo, poi lo stesso feltro imbevuto di acido ossalico (nella fig. 20 in alto a destra).
Per fori di piccolo diametro si usano trapani i quali - invece di punte a elica - portano dischi che ruotano con grande velocità (fig. 21). Per grandi fori, invece (per es., per vuotare colonne che debbono essere rinforzate con ferri interni) si usano altri metodi, per es., il filo elicoidale, previa perforazione ad aria compressa.
Per sagomare e per altre operazioni si usano piallatrici simili alle limatrici dell'industria meccanica: l'organo lavorante di queste macchine è una punta d'acciaio, che si sposta lungo la superficie del marmo scavandovi un solco accanto all'altro; il marmo è fissato su un piano.
La tornitura si esegue con tornî simili ai tornî paralleli dell'industria meccanica, ma di costruzione assai diversa perché gli spostamenti degli utensili vengono sempre fatti a mano (fig. 22). A questi tornî si applicano speciali portautensili a carborundum.
Produzione ed esportazione. - Dall'unificazione nazionale, la produzione del marmo di Carrara ha avuto uno sviluppo pressoché continuo, interrottosi solo durante la guerra mondiale e nei recenti anni di crisi economica mondiale.
Alle cause generali che hanno contribuito al regresso della produzione a partire dal 1926, si sono aggiunte cause particolari, quali, ad es., la concorrenza di numerosi surrogati offerti a prezzi minori e la crescente ricerca di materiali di produzione locale da parte dei grandi paesi consumatori. Né l'ordinamento tecnico stesso dell'industria, né la gravità delle questioni relative alla proprietà fondiaria, ai cosiddetti settimi, diritti di cava, e di pedaggio, sono rimasti estranei alle crescenti difficoltà di produzione.
Nel 1931, i principali distretti marmiferi delle Alpi Apuane presentavano le caratteristiche industriali indicate dalla tabella.
L'esportazione dei marmi apuani rappresenta il 95% circa di quella totale del regno. Il suo andamento può essere rilevato dalle cifre dell'esportazione totale più sopra riportate. Nel 1931 furono esportate, in particolare, dalla regione apuana 63.329 tonnellate di greggio, 110.366 tonnellate di segato, 43.079 di lavorato, un complesso di tonnellate 216.774 su 227.681 di esportazione generale dal regno.
Bibl.: E. Repetti, Sopra l'Alpe Apuana e i Marmi di Carrara, Firenze 1820; G. Bischof, Lehrbuch der elem. und phys. Geologie, Berlino 1855; A. D'Achiardi, Mineralogia della Toscana, I e II, Pisa 1872-73; G. Jervis, Tesori sotterranei d'Italia, Torino 1874; B.V. Cotta, Die Geologie der Gegenwart, Lipsias 1878; D. Zaccagna, Una escursione nella regione marmifera del Carrarese, Roma 1881; R. Lepsius, Geologie von Attika, eine Beitrag zur Lehre vom Metamorismus der Gesteine, Berlino 1893; A. Giampaoli, I Marmi di Carrara, Pisa 1897; A. Monticolo, La puleggia penetrante, in Rassegna mineraria, X (1904); G. Revere, Analisi di marmi carraresi, in Marmi, pietre, graniti, Carrara 1931; D. Zaccagna, Descrizione geologica delle Alpi Apuane, Roma 1932.
La scultura in marmo.
Nel marmo hanno preso corpo e forma le più alte concezioni artistiche. La natura non offre materia più nobile, pronta e ubbidiente, pur con tenace durezza, alle mani dell'uomo, per le sue virtù di compaaezza, di luminosità, di durata; bella, sia quando la superficie venga lasciata scabra, sia quando levigata e polita splenda di luci e di riflessi.
Ma oltre a queste ragioni connesse alla sostanza della materia, altre ragioni ideali vi sono, proprie più dello spirito quando si accinga a creare un'immagine. Altro è infatti partirsi dall'avere dinnanzi agli occhi una quantità definita, un blocco, donde trarre l'opera, altro è il dover foggiare una forma inesistente immaginata astrattamente e poi realizzata per successivi processi di forme e di fusioni che le diano vita. Questa differenza fondamentale tra la scultura diretta in marmo, pietra o legno, e quella destinata a formare la modellatura in terra, gesso o bronzo è assai ben definita da Adolf Hildebrand: "Nella modellatura in creta nessuna formata totalità di spazio preesiste al lavoro. Tutte le apparenze spaziali debbono essere create fin da principio. Di conseguenza il procedimento non muove da una generale concezione del volume, come accade nel lavoro in pietra, ma dal sorgere di un oggetto foggiato lì per lì, mediante il disporre la creta intorno a un'armatura. Ciò che invece costituisce il profondo merito della scultura direttamente in pietra è che qui la figura nasce dal blocco; di modo che il blocco, per quanto sparisca materialmente, rimane pure come unità nella nostra percezione, perché le parti prominenti della figura si combinano a formar piani esterni che rappresentano e richiamano tuttavia il semplice blocco nella sua interezza".
E ora s'intenderà meglio la profonda verità non solo tecnica, ma anche estetica, della celebre quartina di Michelangelo: "Non ha l'ottimo artista alcun concetto - Ch'un marmo solo in sé non circoscriva - Col suo soverchio, e solo a quello arriva - La man che ubbidisce all'intelletto". E s'intenderà il valore di sintesi assoluta che egli, Michelangelo, raggiunse con la definizione, non meno celebre, espressa nella lettera a Benedetto Varchi: "Io intendo scultura, quella che si fa per forza di levare; quella che si fa per via di porre è simile alla pittura". Per forza di levare, cioè cavando dal marmo; per via di porre, cioè modellando la creta.
Come poi il procedimento della scultura per forza di levare sia stato da lui praticato, si deduce da un passo del Vasari: "che se e' si pigliassi una figura di cera o d'altra materia dura, e si mettessi a diacere in una conca d'acqua, la quale acqua, essendo per sua natura nella sua sommità piana e pari, alzando la detta figura a poco a poco del pari, così vengono a scoprirsi prima le parti più rilevate, ed a nascondersi i fondi, cioè le parti più basse della figura, tanto che nella fine ella così viene scoperta tutta. Nel medesimo modo si debbono cavare con lo scarpello le figure de' marmi; prima scoprendo le parti più rilevate, e di mano in mano le più basse". E, ad esempio di questo ammaestramento, possono bene indicarsi i quattro Giganti sbozzati (ora nella Tribuna del David alla Galleria dell'Accademia fiorentina) nei quali l'opera interrotta dà immagine di figure immerse ancora nel blocco di marmo.
Anche oggi si può dire che il procedimento usuale continui a esser lo stesso. E cioè: il blocco di marmo viene liberato dal "soverchio" mettendo prima allo scoperto i rilievi più salienti della statua e man mano addentrandosi negl'incavi e negli scuri più profondi. Sarà la "sgrossatura", durante la quale vengono messi dei "punti" di riferimento mediante misurazioni prese sul modello con il compasso, o con un'apposita macchina a braccia snodate, e riportate sul marmo. Terminata questa prima operazione in cui si adopera prevalentemente un grosso ferro a punta, chiamato "subbia" che fa saltar via grosse schegge, si passa a "riunire" i piani tra punto e punto, mediante uno scalpello piatto a denti, detto "gradina". In questa fase della "sbozzatura" che incomincia ad avvicinare il marmo al modello originale, si mettono altri punti intermedî tra i più radi e fondamentali messi prima, per definire meglio e più fedelmente il movimento di piani sommarî, risultato della sgrossatura. Si passa quindi in un terzo stadio alla "finitura", che consiste nell'approssimarsi sempre di più tra punto e punto, con l'aggiunta se occorra di altri nuovi punti, a una fedele resa dell'originale, con l'uso di "unghietti" e "punte" e "raspe".
Per maggior comodità di lavoro, specie quando si tratti di statue a grandi dimensioni, l'opera viene generalmente iniziata con il blocco in posizione orizzontale, coricandolo man mano su tutti i suoi lati in modo da farne il giro completo. Nella giusta posizione verticale verrà posto solo quando la sbozzatura sia ultimata e si passi alla finitura, che anch'essa verrà condotta girando intorno alla statua, in modo da non avanzare troppo una parte rispetto alle altre. Se poi si voglia "purgare" la superficie con rena o lucidarla con piombo e acido ossalico, e patinarla, può darsi che si debba di nuovo coricare l'opera, ormai compiuta.
Come si vede, non si può dire che alcun mutamento profondo sia intervenuto con i secoli nei procedimenti della scultura. Perché se anche oggi vi sono macchinarî e ritrovati, che con l'uso dell'energia elettrica, le seghe a filo elicoidale, i martelli pneumatici e così via, hanno semplificato e accelerato moltissimo i lavori di squadratura, spianatura e lucidatura delle parti basamentali accessorie, l'opera dello scultore è rimasta immutata. Le differenze di metodo nello scolpire sono, se ne esistono, dovute più che altro alle esigenze delle varie caratteristiche del marmo, più o meno duro, di questo o quel colore, d'una grana o di un'altra, a seconda della qualità o provenienza, e a seconda anche dell'uso e destinazione: ragioni tutte che consiglieranno ferri e lavorazioni diverse. Ma in fondo si tratta di differenze esterne non sostanziali.
Altra, e questa fondamentale, è la questione della distinzione tra opera direttamente scolpita nel marmo e opera copiata da un gesso o da un altro esemplare qualunque. Distinzione che chiunque può intendere quanto sia giustificata. Nel primo caso, infatti, si avrà un originale che rispecchia l'ispirazione immediata dell'artista e il maturarsi di tale ispirazione nella materia stessa, secondo quel che essa detti con la sua costituzione e la sua forma; nel secondo invece un'opera di riporto guidata più che dall'impeto dell'ispirazione, dalla possibilità di concentrare tutta la propria perizia in un'esecuzione senza incertezze e mancamenti. Ora, si intende come a porre la questione in questi termini assoluti, n0n vi possa esser dubbio sulla superiorità e nobiltà del primo modo d'intendere la scultura in marmo. Dal che in gran parte proviene l'impressione di sincerità e di potenza che emana, malgrado talvolta la loro rozzezza e scorrettezza formale, dalle sculture arcaiche d'ogni periodo, dall'egizio al romanico, quando appunto l'opera dell'artista è guidata solo dal suo istinto e dal suo occhio. Ma la necessità di poter determinare l'immagine, sia pur sommariamente, prima di affrontare il marmo, ha cominciato a farsi sentire tanto presto in ogni rinascenza artistica, che testimonianze di "punti" ritroviamo in resti statuarî antichissimi d'ogni epoca. In questi periodi però il modello di cui lo scultore si vale è solo un bozzetto generico per determinare l'insieme del movimento. E quest'uso di un'indicazione e aiuto appena iniziali, che obblighi quasi a ricreare nel marmo l'opera, resta per lungo tempo vivo in tutti i periodi più belli di sviluppo, culminando come in Fidia o in Michelangelo in genî, padroni sovrani del marmo in tutti i suoi segreti. Fino a che le esigenze meccaniche della riproduzione prendono il sopravvento e col tempo si finisce a preparare modelli al vero in gesso tanto esatti che essi possono esser copiati da lavoranti anche senza l'intervento diretto dello scultore.
Ecco, in breve, il ciclo che si verifica nella storia dell'arte nei riguardi della scultura in marmo, dalle età arcaiche alle mature decadenze. Ecco Come dopo Lisippo l'arte classica s' immobilizzò nelle copie ellenistiche e romane fino alla reazione dell'arte bizantina e barbarica; ecco come dopo Canova, per quasi tutto l'Ottocento fino allo scossone delle negazioni novecentesche, la scultura in marmo languì in un manierismo sapiente e inutile. Ed ecco perché si è accentuato ora in tutti i paesi lo sforzo di tornare alla scultura diretta senza alcun modello (Bourdelle e Bernard in Francia, Gill e Dobson in Inghilterra, Barlach e Benn in Germania), creando nella pietra o nel marmo per reazione opere ove si dà più importanza alla spontaneità creativa, che alla perfezione esecutiva. Ma al disopra di queste oscillazioni del gusto e della coscienza artistica, quel procedimento della scultura in marmo che è stato descritto resta pur sempre nella sua perennità e immobilità a dimostrare come, in fondo, sia la primitività dello scolpire in marmo a far la grandezza dell'arte che con il massimo di semplicità manuale sa giungere al massimo di altezza spirituale.
I marmi statuarî sono una particolarità della Grecia e dell'Italia. Fuori di questi due paesi si può dire non se ne trovino altri, a eccezione di quelli colorati che possono talvolta venire usati per raggiungere degli effetti di policromia. Ma in tal caso si esula dalla scultura per entrare nella decorazione e nel commesso di marmo alla ricerca d'imitare i capelli, le stoffe variegate, e quant'altro riveste o accompagna la nudità del corpo. Le principali cave di marmo greco, delle quali si è detto altrove, dall'antichità in poi sono si può dire esaurite. In Italia le Alpi Apuane, e specialmente le cave di Carrara e Seravezza, sono il centro principale dal quale si ricava il marmo statuario. I marmi che ne provengono sono di varie qualità che si possono raggruppare in queste principali: lo statuario di prima, proveniente da Seravezza, che a Carrara ha il suo equivalente nel Crestola, il Bianco P e il Porracci proprî più di Seravezza e il Ravaccione, di nuovo di Carrara. Questi sono i tipi che più vengono usati dagli scultori; con preferenza per le prime qualità, naturalmente molto più costose, se si tratti di opera di maggior finezza destinata al chiuso, per le seconde se si tratti di opere più correnti e destinate all'aperto, cui i marmi meno fini offrono maggior resistenza.
Bibl.: F. Carradori, Istruzione elementare per gli studiosi della scultura, Firenze 1802; E. Gardner, Handbook of Greek sculpture, Londra 1908; V. Malamani, Canova, Milano s.a.; G. Vitaletti, Lettere e rime di Michelangelo,Torino 1925; A. Hildebrand, Il problema della forma, in La Ronda, 1923; A. Condivi, Vita di Michelangelo, a cura di A. Maraini, Firenze 1927; A. Della Seta, Il nudo nell'arte antica, Milano-Roma 1930; A. Wildt, L'arte del marmo, Milano 1931.
Il marmo in architettura.
L'uso del marmo come materiale da costruzione, usato cioè nel vivo delle strutture mediante blocchi squadrati e collegati con opportuni accorgimenti tecnici, appartiene, inizialmente, all'architettura greca dal secolo VI a. C. in poi, soprattutto in Atene, dopo le guerre persiane, e nell'età di Pericle. Parzialmente, però, esso era già prima adoperato in alcune parti degli edifici: i templi costruiti dai Pisistratidi avevano cimase e parti dell'ordine in marmo pentelico e in quello a grana più grossa di Paro e Nasso. Si trovano a Troia, nell'arte micenea e cretese, marmi colorati gialli o grigi o rossi usati come rivestimenti di pareti, o come fasce, bordure, fregi e altre decorazioni di pregio.
Nella fioritura architettonica del periodo pericleo il marmo pentelico costituisce l'ossatura organica dei templi e degli altri edifici dell'acropoli: Partenone, Eretteo, Propilei, tempietto di Atena Nike. Dello stesso marmo che ora sostituisce i calcari porosi blu-grigi o giallo-rosso bruno del Licabetto adoperati da tempo arcaico fino alle guerre persiane, che trovamo ad es. nel Partenone, sono il tempio di Giove in Olimpia, il Teseion e il Monumento di Lisicrate in Atene.
I monumenti di Tegea, di Mantinea, alcuni di Olimpia, sono invece di marmo bianco delle cave dell'Arcadia: quelli di Sparta, di un grigio bluastro della Laconia. Per i monumenti dell'Asia Minore, la Propontide e l'isola di Proconneso (Marmara) dànno marmo bianco a venature nere che troviamo nel tempio di Efeso (finito nel 416 a. C.), nel sepolcro di Mausolo ad Alicarnasso (metà del sec. IV a. C.). Altri marmi usati per opere architettoniche sono il marmo di Atrax in Tessaglia, di Caristo - il cipollino dell'Eubea - usato a preferenza nel periodo romano (fusti delle colonne della stoà di Adriano, dell'esedra di Erode Attico in Olimpia). Al principio del sec. V e nel sec. IV-III è invece usato il marmo dell'Imetto (Asclepieio, Teatro di Dioniso, stoà di Eumene e Attalo). Materiali misti, brecce, poros, pietra dell'Imetto, figurano nel tempio di Apollo in Delfi.
A Roma il marmo compare in alcune parti decorative: pavimenti, colonne, soglie, stipiti, nelle case dei raffinati, sin dal sec. III-II a. C. Sono i "pavimenta poenica" costruiti di marmi africani, gialli venati di rosso, della Numidia, delle cave di Simitthu, di Hippo Regius (Bona), del Djebel Felfela a O. di Bona, di Costantina a S. di Cirta. Sono le "crustae" - rivestimenti, incrostazioni, secondo l'uso alessandrino -, in cui entrano il nero di Lesbo o di Chio, una breccia policromata di Sciro, molto apprezzata al tempo di Nerone, il bianco bluastro di Andro, il giallo dorato di Rodi. Nella metà del sec. II il marmo è adoperato organicamente in alcune costruzioni: alla fine della repubblica, e poi nel tempo di Cesare, è usato, per colonne e rivestimenti, un marmo di Caristo, nell'Eubea. del quale si sono trovati anche grandi blocchi nell'Emporium dei marmi sulle sponde del Tevere. Nei templi di Giove e Giunone, eretti alla metà del sec. II a. C., nel portico di Metello nel Campo Marzio, si ha la struttura in marmo: similmente nel tempio rotondo presso il Tevere, che si ritiene della stessa età. A Cesare fu dedicato un monolito di giallo africano; fu costruito in marmo, su podio a concrezione, rivestito anche di marmi, il tempio a lui consacrato nel Foro. Il sepolcro di Cecilia Metella ebbe il fregio in marmo.
È il periodo di Augusto che ci dà una Roma costruita di marmi: nel Foro e nel Mausoleo d'Augusto, nel tempio di Apollo Palatino è adoperato il materiale delle cave di Luni, in questo tempo abbondantemente sfruttate per Roma (piramide d C. Cestio) e per le provincie; le colonne del portico che circonda il tempio palatino erano invece di giallo antico. Le colonne erette nella basilica Emilia del Foro sono invece di un marmo bianco a vene violacee, proveniente dalla Frigia (pavonazzetto).
È ben noto il detto di Augusto che aveva trovato la città di mattoni e l'aveva lasciata di marmo (Suet., Oct. 28); e Giovenale ricorda al suo tempo i pericoli che correva il passante nelle vie di Roma per scansare i traini di marmo (III, 257). Quando poi i marmi venivano di lontano si costruivano perfino navi apposite, che approdavano a Ostia donde il corpus traiectus marmorariorum con speciali zattere li portava a Roma, sbarcandoli o presso l'Emporium ai piedi dell'Aventino o un poco a monte dell'attuale Castel S. Angelo, sulla riva sinistra del Tevere.
Sono ancora i marmi della Grecia, le cui cave sono divenute proprietà imperiale, che forniscono Roma e le altre città della provincia delle loro ricche varietà, delle quali imprenditori e amatori - come Erode Attico - adornano le costruzioni. L'epoca dei Flavî, particolarmente distinta per esuberanza di nuovi sistemi decorativi, adopera largamente i marmi: lo splendore della casa dei Flavî sul Palatino - esaltata da Marziale - ci appare nei resti dei rivestimenti, dei pavimenti, degli ordini, nonostante lo spoglio durato fino al '700. Quivi colonne di giallo antico nella cosiddetta basilica, di pavonazzetto nell'aula regia, di portasanta nel peristilio; mentre i rivestimenti di fengite riflettevano come specchio le immagini. Nella ricostruzione domizianea, le colonne del tempio di Giove Capitolino furono di pentelico. E poi l'arco di Tito, il tempio di Vespasiano, e le opere grandiose dei regni di Traiano e, particolarmente, di Adriano, segnano il trionfo delle strutture marmoree. La basilica Ulpia era infatti rivestita di marmo lunense, le trabeazioni di pentelico, le colonne, oltre che di granito grigio, erano di giallo antico e di pavonazzetto: marmorea la colonna coclide. Adriano dona marmi e colonne per il tempio di Venere e Roma, colonne di giallo africano per i ginnasî dí Atene e di Smirne: ne adorna fantasticamente la sua villa tiburtina, e il mausoleo della sua famiglia. Si associano marmi di diversi colori nel tempio di Antonino e Faustina (bianco e cipollino), nell'arco di Costantino (bianco e giallo antico per le colonne, oltre che nelle incrostazioni che ne rivestono alcune zone).
Oltre che strutturalmente, come nei monumenti fin qui considerati, il marmo entra nell'arte romana sotto la forma d'incrostazioni, secondo la pratica più antica, ellenistica: è questa l'opus sectile, che oggi si dice commesso (v. tarsia). Oltre a minori avanzi di periodo neroniano, che si trovano al Palatino, e altri della villa Adriana, sono ricordati per estensione i pannelli che decoravano la basilica di Giunio Basso (sec. IV), che furono rilevati da Giuliano da Sangallo. Questa tradizione ci è rappresentata dalla pratica dei periodi che vanno dal sec. IV all'VIII, nelle costruzioni cristiane, nelle latine, nelle ravennati e specialmente nelle bizantine. Incrostazioni cristiane si hanno nel cimitero di S. Callisto (cripta papale dei tempi di Sisto III), nel cubicolo detto di Tununcus nel cimitero di S. Sotere, dimostranti come la pratica romana continui in questa era. I più noti e superbi esempî sono le intarsiature di Parenzo (sec. VI) di marmi rari, di alabastri di Ravenna, in San Vitale, dove intervengono il marmo greco, il porfido, il serpentino, il giallo antico, e sono ricordate quelle della basilica Ursiana. A Roma vediamo simile procedimento in S. Sabina nella decorazione degli archi (forse dell'817-824). Si svolge parallelamente quest'arte decorativa nelle architetture bizantine, e nella Siria cristiana dove - ci è noto dalle descrizioni - edifici costantiniani erano lussuosamente decorati di marmi policromi (basilica del S. Sepolcro, chiesa dell'Ascensione sul Monte degli Olivi). I Bizantini improntano a questa arte, che aveva esempî nell'Alessandria dei Tolomei e dei Seleucidi, la decorazione dei loro palazzi e delle chiese. Tra questi monumenti sono ricordati per particolare sfarzo i propilei della "Porta d'oro" del palazzo costruito da Teodosio II, verso il 447, dove colonne di verde inquadrano spazî incrostati. La ricchezza delle intarsiature di S. Sofia è stata paragonata a un giardino; diaspri, alabastri, porfidi, verde antico, disposti a disegni, a bordure, a pannelli, a venature aperte come drappi, formano il fantastico rivestimento; che continua ancora nel sec. IX nelle sale del palazzo imperiale di Bisanzio, di Teofilo, nel crisotriclinio, nella sala del trono, nella loggia detta la Sigma, colonnata di marmo frigio, nel triclinio, detto la Perla, di marmi rosa. Dei Comneni è la decorazione della Pantocratore, della chiesa del convento di S. Luca, a marmi rossi, grigi e neri. La chiesa di S. Marco a Venezia ci rivela questi aspetti decorativi, e le incrostazioni di facciate siciliane dei primi del sec. XII, il modo di decorare le facciate, usato dai Bizantini, col formare di marmi bianchi o gialli alternati col laterizio, disegni a scacchiera, a losanghe, a croce (Dafni; il cosiddetto palazzo di Belisario o di Costantino detto Tekfur Serai). Nella cattedrale di Monreale, nella cappella Palatina, analoghe incrostazioni risentono, nel disegno, dei metodi arabeggianti. A Roma nei secoli XII-XIII i marmorarî continuano la tradizione, che ha il suo ininterrotto ciclo in Toscana. Pisa (battistero, 1153-metà secolo XIII; duomo, consacrato nel 1118; campanile, 1173), Lucca (S. Martino, S. Michele in Foro), Pistoia (S. Giovanni Fuorcivitas) ci dànno non solo l'uso delle incrostazioni, ma i monumenti nei quali il marmo è adoperato organicamente e strutturalmente. E a Firenze, il duomo, il battistero, la badia di Fiesole, S. Miniato al Monte, Ss. Apostoli; a Empoli la Collegiata, a Prato il duomo, segnano il progredire delle opere in marmo dal sec. VIII all'XI, fino al miracolo del duomo di Siena. Il Quattrocento si lega ancora a quest'arte con la fronte albertiana di S. Maria Novella, col S. Sepolcro Rucellai, cor la Madonna delle Carceri a Prato, di Giuliano di Sangallo.
Altro centro di arte dei marmi fu Venezia, nel '400. Sono le raffinate associazioni policrome della Scuola di S. Marco, di S. Giovanni e Paolo, di S. Zaccaria; sono preziosità della Chiesa dei Miracoli, dei Lombardi, continuatori e propagatori di quell'arte che a Pavia trionfa nella facciata della Certosa, col mirabile giuoco dei marmi lunensi, di Candoglia, della Valcamonica; a Bergamo nel vibrato contrapposto di marmi bianchi, neri, rosati, della cappella Colleoni, dell'Amadeo.
Col finire del Cinquecento il marmo ritorna a formare con le sue masse policrome le architetture di ambienti; a Roma da Giacomo della Porta in poi: prima si ha la cappella Chigi. Ma soprattutto lo spirito barocco predilige la policromia dei marmi che invade lussuosamente tutte le pareti a formare lo sfondo alle decorazioni plastiche. Fra gli esempî più armoniosi si ricordano S. Caterina a Magnanapoli, notevole per alabastri, S. Luigi dei Francesi, per il giuoco di diaspri teneri di Sicilia; la cappella Paolina a S. Maria Maggiore, d'intonazione cupa; S. Maria della Vittoria, ricca di alabastri fioriti bigi, di giallo di Siena venato; la Chiesa Nova dove si trova il bianco e nero di Proconneso; l'oratorio del Monte di Pietà a marmi grigi, neri, violacei di suggestiva intonazione. Tra le opere in marmo più rare e sorprendenti è la cappella dei Medici in S. Lorenzo a Firenze (1604-1743) disegnata da Giovanni de' Medici, figlio di Cosimo, coadiuvato da Matteo Nigetti: quivi marmi e pietre dure d'Elba, violetto delle Fiandre, giallo di Sicilia, corallino di Spagna, giallo antico, lapislazzuli, diaspro fiorito di Sicilia, si accordano nell'inquadratura architettonica, nel disegno delle pareti, delle nicchie, dei pavimenti, in un'armonia fredda e cupa. A Venezia, un originale dispositivo di marmi a venatura aperta si trova nell'interno del Gesù, creando la sensazione di arazzi distesi sulle pareti e sulle colonne.
Più vivacemente il barocco napoletano compone rivestimenti in San Lorenzo Maggiore, del Fanzaga, nella certosa di S. Martino, nella Trinità delle Monache, ora distrutta ma ricordata tra le più sontuose, nella cappella di S. Gennaro, nella chiesa dei Ss. Filippo e Giacomo del 1758. Del Fanzaga è l'interno della badia di Montecassino, che è tra le più sontuose policromie marmoree. A Torino sono da ricordare la Trinità del Juvara e la basilica di S. Lorenzo (1634-1687). Questi rivestimenti sono quasi sempre costituiti col sistema dell'impellicciatura, per cui strati sottili di marmi coprono le lastre di sostegno costituenti il sottofondo costruttivo.
Accenni di una ripresa di questa grandiosa tradizione italiana si hanno nell'architettura moderna: le strutture in cemento armato permettono, anzi richiedono, il rivestimento di materiali più nobili, tra cui il marmo.
V. tavv. LXIX-LXXVIII e tavole a colori.
Il marmo artificiale.
Materiale che imita più o meno bene il marmo, e col quale si fabbricano specialmente lastre per rivestimento di pareti. È fabbricato con diversi processi. D'ordinario è costituito da gesso misto ad allume, solfato di zinco, solfato ferroso, cloruro di calcio, cloruro di bario e altre sostanze, che ne aumentano la resistenza e lo rendono lavabile (v. Gesso, XVI, p. 854). Alcuni di questi marmi sono ottenuti colorando in pasta la massa, mettendola dentro forme e sottoponendola a compressione, lasciandola poi a sé perché si effettui la presa e infine levigandola e lucidandola coi metodi in uso per i marmi naturali. Altri marmi artificiali sono costituiti da lastre di cemento e amianto o di lavagna, sulle quali si applica lo strato colorato che poi si riveste e protegge con una vernice lucida a base di cellulosa.
Oltre al marmo artificiale, vi sono anche dei marmi naturali, bianchi o venati, colorati artificialmente per simulare marmi più costosi.