SIMONAZZI, Mario
– Nacque a Borzano d’Albinea (Reggio Emilia) l’8 settembre 1920, da Angelo, falegname, e da Paolina Schiatti.
Dopo le elementari frequentò il collegio di S. Rocco nel centro della città, creato e diretto da don Dino Torreggiani, uno dei luoghi di formazione più importanti nelle vicende del cattolicesimo democratico a Reggio Emilia, dove anche Giuseppe Dossetti fece le sue prime esperienze di partecipazione alla formazione di giovani e di assistenza alle classi più disagiate.
Completati gli studi ginnasiali, nel corso dei quali divenne membro attivo dell’Azione cattolica cittadina, nel 1937 venne assunto dalle Officine meccaniche reggiane, inserito nel settore tecnico-amministrativo. Le ‘reggiane’ in quegli anni stavano iniziando una nuova fase della loro trentennale attività: acquistate dal gruppo Caproni avviarono la produzione di aerei da caccia, in previsione dell’ormai imminente conflitto. La militarizzazione delle ‘reggiane’ gli consentì di ritardare la chiamata alle armi , ma l’8 settembre lo sorprese militare in aeronautica a Roma.
Rientrato fortunosamente a casa, riprese per un breve periodo la sua attività in fabbrica fino all’8 gennaio 1944, quando un bombardamento aereo alleato colpì le ‘reggiane’: la fabbrica ne fu danneggiata al 75 per cento e fu costretta, per proseguire in qualche modo l’attività, a trasferire la produzione nella zona di Varese e nel Vicentino. Simonazzi non accettò il trasferimento, iniziando così mesi di clandestinità. Ma la sua attività di resistenza aveva già avuto inizio nell’autunno del 1943 quando, poco dopo il suo ritorno, aveva preso contatto con un piccolo gruppo di giovani coetanei, studenti e intellettuali reggiani, fra essi Giorgio Morelli (Il solitario), che avevano dato vita all’esperienza dei ‘fogli tricolori’, volantini antifascisti autoprodotti e diffusi con sprezzo del pericolo nelle vie e negli uffici pubblici della città, chiamando alla lotta aperta contro i tedeschi e i collaborazionisti fascisti.
Scaduti i bandi di arruolamento nell’esercito di Salò il 24 maggio, la montagna reggiana divenne luogo di rifugio per centinaia di giovani in fuga. Le formazioni partigiane si ingrossarono in poche settimane assumendo ampie dimensioni (oltre il migliaio di elementi) senza però poter contare su armamento o su organizzazione adeguati. L’arrivo dell’estate e l’avvicinarsi da sud degli eserciti alleati avevano fatto sperare una rapida conclusione del conflitto. Le illusioni caddero rapidamente alla fine del luglio del 1944 quando, con l’operazione Wallenstein III, le truppe tedesche con un’azione a vasto raggio attaccarono le zone sotto il controllo dei partigiani che, impossibilitati a tenere le proprie posizioni e ancora non addestrati a una guerra di movimento di ampie proporzioni si sbandarono, subendo perdite pesanti in uomini e materiali, mentre anche le popolazioni montanare venivano colpite con numerose uccisioni e distruzioni di borghi e patrimoni agricoli.
Simonazzi, che aveva assunto il nome di Azor e che in quel periodo aveva preso contatti con il comando unico della montagna delle brigate Garibaldi per avviare azioni militari, fu costretto a rifugiarsi nei pressi della sua zona di nascita da dove solo in agosto iniziò a radunare un gruppo di resistenti decisi ad agire nell’area collinare, un territorio nevralgico come cuscinetto tra la pianura e la montagna dove le formazioni partigiane andavano lentamente riorganizzandosi dopo la sconfitta estiva.
In questa riorganizzazione emersero anche le diverse impostazioni da dare alla lotta armata, sostenute dalle differenti componenti della Resistenza, in particolare quella cattolica, fortemente minoritaria ma animata da un comandante di grandi capacità come il sacerdote don Domenico Orlandini (Carlo) che poteva contare anche sui suoi legami con gli inglesi, presenti già da maggio sugli Appennini con una missione di collegamento per coordinare l’attività militare delle brigate garibaldine con le forze armate alleate in avanzata da sud.
All’interno di questo processo di riorganizzazione nacque la CCLXXXIV brigata Fiamme verdi guidata dallo stesso Carlo, autonoma ma sotto l’autorità del comando unico che dirigeva l’attività della XXVI e della XXVI bis (poi CXLIV) brigata Garibaldi. Per organizzare e rendere più efficace l’azione dei tanti gruppi che agivano ormai sia in collina sia in pianura furono costituite le SAP (Squadre Azione Patriottica) che organizzavano sia combattenti in piena clandestinità sia persone disposte a collaborare alle azioni condotte dai primi.
Queste SAP furono organizzate su base territoriale, suddivise in zone. Azor divenne il comandante della 4a zona SAP che comprendeva i territori che meglio conosceva fra la strada statale 63 (arteria fondamentale per i tedeschi, collegando la pianura con La Spezia) e il torrente Tresinaro. La conoscenza dei luoghi e delle comunità era l’elemento di forza delle formazioni sappiste, capaci di mettere in atto azioni di sabotaggio di linee telefoniche e telegrafiche, strutture viarie e ferroviarie, nonché assalti a depositi e piccoli comandi locali nemici.
In queste azioni nell’autunno del 1944 Azor dimostrò tutta la sua abilità, ma iniziò a scontrarsi con alcuni elementi di formazioni contigue sulle modalità della lotta da condurre; sia per formazione sia per esperienza (aveva visto da vicino lo svolgersi della strage della Bettola del 24 giugno, quando, come rappresaglia per un’azione partigiana, i nazisti avevano massacrato 32 civili), aveva elaborato una sua visione della lotta armata come azione esclusivamente militare da condurre con ponderazione, evitando qualunque rischio alla popolazione presente e con un sostanziale rispetto della vita umana, fosse anche quella del nemico.
In questo senso, pur non facendone formalmente parte, si rifaceva allo stile e modalità di lotta delle Fiamme verdi, rifiutando ogni forma di politicizzazione e riconducendo la lotta armata solo ai suoi contenuti di lotta di liberazione.
Si trattava di una posizione minoritaria in una provincia con antiche e radicate tradizioni socialiste e dove l’organizzazione comunista aveva proseguito la lotta anche durante gli anni del regime, pagando prezzi molto alti in termini di carcere e confino. Nella conduzione della lotta armata si esprimevano quindi da parte di buona parte delle brigate Garibaldi e SAP non solo aneliti di liberazione, ma anche di lotta di classe per una nuova società nella prospettiva comunista, il tutto unito al desiderio di vendetta nei confronti del nemico fascista. Tali opposte visioni si scontravano soprattutto sul piano dell’uso della violenza nella pratica della lotta armata, rifiutando Azor ogni azione diretta sul nemico che non fosse strettamente giustificata da esigenze militari.
Le SAP erano formazioni dove la disciplina e l’obbedienza erano strettamente vincolate al legame fra comandanti e partigiani organizzati e in questa situazione la posizione di Azor divenne sempre più difficile, trovandosi in posizione minoritaria nel confronto non solo dei comandanti comunisti delle zone limitrofe, ma anche di parte degli uomini organizzati nella sua. Alla fine del gennaio del 1945 il comando piazza, braccio armato del CLN provinciale, riorganizzò in brigate le SAP, giunte ormai a contare qualche migliaio di uomini: la LXXVII, a nord fra la via Emilia e il Po, e la LXXVI fra la via Emilia e la collina a ridosso dell’Appennino, intitolata ad Angelo Zanti, comandante partigiano fucilato il 13 gennaio.
Azor fu chiamato a essere il vicecomandante di quest’ultima brigata, diventando così Salardi. Questa ‘promozione’, se da un lato era un riconoscimento per le sue capacità organizzative e militari, era anche un modo per distaccare un comandante ‘scomodo’ dalla sua zona di azione, avvicendandolo con un partigiano comunista più in linea con le direttive politiche e militari ormai indirizzate a una fase di lotta più dura e decisa.
In questo modo Salardi rimase isolato, lasciati i pochi uomini fidati sotto il nuovo comando e progressivamente considerato, dagli elementi più ideologizzati, se non proprio come un sospetto, quanto meno come un ‘estraneo’ al movimento.
Il 21 marzo 1945, nel corso di un rastrellamento tedesco, Salardi scomparve. Il suo braccio destro, Montecchi, lo vide l’ultima volta parlare con un altro partigiano, ma il nemico era ormai vicino, la ritirata inevitabile, poi più nulla.
Il suo corpo venne ritrovato solo il 3 agosto seguente, sommariamente sepolto in un bosco poco distante dal luogo dell’ultimo avvistamento. Ebbe funerali solenni, ma le indagini, avviate su richiesta della famiglia, non condussero a risultati.
Fu l’amico Giorgio Morelli (Il solitario) a riaprire la questione con una serie di articoli pubblicati dal 10 novembre 1945 al 31 gennaio 1946 sul periodico cattolico La nuova penna, tutti con lo stesso titolo Chi ha ucciso Azor?. Morelli pagò un prezzo altissimo per questo suo impegno: ferito in un attentato poco prima dell’uscita dell’ultimo articolo, morì nel 1947 per i postumi delle ferite. Aveva 21 anni.
Solo nel 1951 furono arrestati, processati e condannati i presunti responsabili, due partigiani comunisti (sempre dichiaratisi innocenti), uno assolto per insufficienza di prove nel 1954 e l’altro contumace.
La vicenda di Azor cadde nel silenzio, le narrazioni storiche della Resistenza reggiana non riportarono il suo nome per decenni. Fu ricordato con un cippo commemorativo ad Albinea (Reggio Emilia), poco distante dal suo luogo di nascita. Solo agli inizi di questo secolo due saggi storici hanno riportato in luce la sua vicenda che attende ancora un completo chiarimento.
Fonti e Bibl.: D.A. Simonazzi, Azor: la Resistenza incompiuta di un comandante partigiano, Reggio Emilia 2004; M. Storchi, Sangue al bosco del Lupo. Partigiani che uccidono partigiani: la storia di Azor, Reggio Emilia 2005.