MONICELLI, Mario
– Nato il 16 maggio 1915 da Tomaso, giornalista impegnato con spiccati interessi letterari e teatrali, e da Maria Carreri, donna acuta e intelligente sebbene di pochi studi, il M. ereditò dalla famiglia quell’esuberanza che lo accompagnerà per tutta la vita, unita a un forte senso dell’impegno politico e civile.
Esiste il fondato sospetto di una beffa attorno al luogo della sua nascita: tutte le biografie indicano infatti Viareggio come suo luogo natale, ma in più occasioni il M. ha affermato di non essere nato in quella che ha comunque considerato sua città d’origine bensì a Roma, nel quartiere Prati. Ad avvalorare la tesi anche altri elementi: il padre (redattore del quotidiano Avanti!, di altri periodici di area socialista e de il Resto del Carlino, nonché futuro creatore di Penombra, la prima rivista italiana di cinema) abitava a Roma, e a Roma il M. frequentò le scuole elementari.
Nella sua giovinezza il M. cambiò spesso città: dopo Roma, risiedette a Viareggio, a Milano e poi di nuovo in Toscana, dove si laureò all'Università di Pisa. Questi spostamenti gli diedero modo di frequentare molti intellettuali e uomini di spettacolo. Con un gruppo di amici, del quale facevano parte i futuri registi Riccardo Freda e Alberto Lattuada e il cugino Alberto Mondadori (Arnoldo aveva sposato la sorella del padre, Andreina), il M. collaborò attivamente alla rivista di critica letteraria e cinematografica Camminare…, per la quale curava severe recensioni cinematografiche. La rivista, caduta in disgrazia perché accusata di essere antifascista, sospese le pubblicazioni nel 1935. Inclini al giornalismo si mostreranno anche il fratellastro Giorgio (nato da una precedente relazione del padre con l’attrice Elisa Severi), futuro direttore della rivista Urania, e il fratello minore Mino, specializzato in inchieste di grande impatto giornalistico.
Durante la collaborazione alla rivista Camminare… il M. maturò un sempre più profondo interesse per il cinema. Nel 1934 diresse un cortometraggio, Il cuore rivelatore, tratto da un racconto di Edgar Allan Poe, e l’anno seguente, assieme al cugino Alberto Mondadori, I ragazzi della via Paal, lungometraggio a passo ridotto presentato alla Mostra internazionale del cinema di Venezia del 1935 e meritevole di un premio per i due giovani registi.
Questo esito fu decisivo per la carriera del M. e per i suoi gusti cinematografici. Il premio alla Mostra del cinema gli valse un contratto di aiuto regista in Ballerine, film di Gustav Machatý, regista ungherese all’epoca considerato dalla critica come autore tra i più importanti. La lavorazione si svolse a Tirrenia, negli stabilimenti di Pisorno, ma il M. fu molto deluso dal modo di lavorare del famoso regista, per lo più assente e privo di personalità. Impressione molto diversa trasse dal secondo regista con il quale collaborò, Augusto Genina, che lo chiamò sul set del film Lo squadrone bianco. Genina, reputato dai critici un mestierante, si rivelò invece attento e capace di dare un’impronta personale a una storia ricca di emozioni e di avventura. Da quel momento il M. entrò definitivamente nel mondo del cinema: abbandonando ogni altra attività, lavorò prima come aiuto regista e poi come sceneggiatore. Del periodo precedente la guerra, durante il quale fu molto attivo, ricorderà in modo particolare la collaborazione con un altro regista di film popolari, Giacomo Gentilomo.
Nel 1940 il M. si arruolò nella cavalleria, riuscendo a evitare di essere inviato in Africa e in Russia; dopo l'armistizio (8 sett. 1943) rimase nascosto a Roma fino all’estate 1944, quando gli Alleati entrarono nella capitale. Superata questa stagione, riprese la sua attività cinematografica soprattutto in coppia con Stefano Vanzina, noto come Steno, pseudonimo usato per la sua collaborazione ad alcuni giornali come vignettista. In breve tempo la coppia si affermò come una fra le più ricercate per sceneggiare film comici, avventurosi, melodrammatici. La loro rapidità e professionalità furono da subito considerate garanzie assolute di successo.
La prima affermazione fu Aquila Nera, diretto da Riccardo Freda e campione di incassi nel 1946, stesso anno della morte del padre. Avventure mozzafiato, intrighi, grandi scene di battaglia realizzate da Freda con l’abituale maestria si giovarono dei dialoghi scritti dal duo con il concorso di Federico Fellini. Subito dopo, Steno e M. lavorarono con i comici Erminio Macario e Carlo Campanini e per molti film d’avventura: La figlia del capitano di Mario Camerini, I Miserabili e Il cavaliere misterioso per Freda. Nel 1949 fu loro proposto di curare la regia per il film Totò cerca casa, continuando il proprio lavoro di sceneggiatori. Quasi per caso, i due iniziarono quindi il loro lavoro dietro la macchina da presa.
Totò cerca casa fu un film importante. Fino a quel momento di Totò (Antonio De Curtis) erano noti soprattutto la maschera surreale e il repertorio proveniente dall’avanspettacolo. Con questo film (ispirato a una serie di vignette di Attalo, La famiglia Sfollatini), Totò viene invece calato nell’Italia del dopoguerra, distrutta dai bombardamenti e percorsa dal conflitto civile, nella quale il problema dell’abitazione assillava milioni di cittadini. Il successo aprì la strada a una nuova dimensione della carriera di Totò, che continuerà con il suo repertorio classico ma che proprio con il M. girò nel 1951 Guardie e ladri, firmato anche da Steno, e vincitore del premio per la migliore sceneggiatura al festival di Cannes. Pur in un contesto di comicità scoppiettante, nel film Totò (in coppia con Aldo Fabrizi) sottolinea ancora di più gli aspetti neorealisti e sociali del proprio personaggio.
Tra gli anni Quaranta e gli anni Cinquanta il M. scrisse ancora, assieme a Steno, numerose sceneggiature per commedie, melodrammi, film d’avventura. Sempre in coppia con Steno, il M. firmò in quel periodo altre commedie e il melodramma Le infedeli (1953), l’ultimo a doppia firma anche se interamente realizzato dal M., dopo il quale la coppia decise di dividersi.
Il M. continuò a lavorare con Totò. Totò e Carolina (1955) incontrò svariati problemi di censura, perché raccontava la storia di un carabiniere dal cuore d’oro che si occupava di una ragazza accusata di immoralità. Fu solo il primo dei film del M. a incorrere negli strali dei benpensanti. Nel 1957 diresse due film che, secondo consuetudine dell’epoca, radunavano un gran numero di attori noti: Padri e figli fu presentato al festival di Berlino nello stesso anno (facendo ottenere al M. il suo primo Orso d’argento); Il medico e lo stregone costituì un film fondamentale per la comprensione dei cambiamenti dell’Italia agli inizi del boom economico (si racconta di un paese dell'Italia centrale dove convivono e si scontrano un guaritore popolare rassicurante, incarnato da Vittorio De Sica, e un giovane dottore nemico di ogni forma di superstizione, interpretato da Marcello Mastroianni). Si trattò di esperimenti innovativi che portarono il M. a dirigere I soliti ignoti, il film che nelle storie del cinema è universalmente citato come primo esempio di commedia all’italiana e grande successo internazionale.
I soliti ignoti (1958) metteva in scena la storia di un gruppo di scalcinati rapinatori impegnati a progettare un colpo destinato, nelle loro intenzioni, a cambiare la propria vita. L’idea di un insieme di persone che si cimenta in un’impresa irraggiungibile sarà tema ricorrente del Monicelli. Lo squarcio d’Italia raccontato da I soliti ignoti era quello del dopoguerra, dove fame e miseria si aggiravano come uno spettro nella vita quotidiana e, per la prima volta, un personaggio moriva tragicamente (seppure in modo paradossale) in una commedia. Il film, inoltre, segnava il passaggio di Vittorio Gassman dai ruoli drammatici, ricoperti fino ad allora, a quelli – che lo renderanno famoso – della commedia. Tutti elementi che contribuirono al grande successo del film, che uscì un po’ in tutto il mondo e godette di vari remakes in Francia e negli Stati Uniti. Da quel momento il nome del M. fu definitivamente abbinato alla commedia, dolceamara e di successo, capace di raccontare l’evoluzione del costume in Italia.
L’anno seguente fu Dino De Laurentiis a produrre il nuovo film, scritto dal M. insieme con Age (Agenore Incrocci), Furio Scarpelli e Luciano Vincenzoni. La grande guerra (1959), interpretato da Alberto Sordi e Vittorio Gassman.
Il film fu accompagnato da dure polemiche fin dall’inizio della lavorazione. La prima guerra mondiale, fino a quel momento, era stata tramandata nelle scuole e nella storiografia ufficiale come fatto bellico vittorioso, ultimo atto del Risorgimento, eroica impresa di un popolo unito in armi. Dal primo annuncio, l’idea che la guerra fosse raccontata con i toni della commedia scatenò una sorta di censura preventiva con articoli sui maggiori quotidiani italiani e una scia di polemiche che accompagnò il film sino alla presentazione alla Mostra del cinema di Venezia nello stesso anno. Ma La grande guerra vinse il primo premio (ex-aequo con Il generale Della Rovere di Roberto Rossellini, interpretato da Vittorio De Sica), e ottenne un successo commerciale enorme. Lo scandalo di aver parlato della guerra in chiave antieroica e antiretorica, come di un enorme massacro che coinvolgeva principalmente povera gente, fu superato proprio grazie agli incassi e fu la dimostrazione che l’Italia degli anni Sessanta poteva ripensare la propria storia diversamente da come era tramandata dai testi ufficiali.
Da quel momento, pur restando nell’ambito della commedia, il M. divenne un autore con la A maiuscola, capace di sperimentare percorsi diversi e di correre il rischio di insuccessi. Il film successivo fu Risate di gioia (1960), nel quale riuniva Totò e Anna Magnani costruendo su di loro la figura un po’ patetica di due vecchie glorie dell’avanspettacolo obbligate ad arrangiarsi per vivere nel frastuono dell’Italia del boom.
Tratto da due racconti di Alberto Moravia, il film passò quasi inosservato; lo stesso avvenne per A cavallo della tigre (1961), esempio di commedia autoprodotta dagli autori come accadeva per i contemporanei film della Nouvelle Vague oltre confine, diretto da Luigi Comencini e scritto dal M. con Age e Scarpelli. Nel 1963 il M. si ritrovò assieme al produttore Franco Cristaldi (con il quale aveva già lavorato nel 1955 per Un eroe dei nostri tempi) per un altro affresco nazional-popolare, I compagni.
Il periodo preso in considerazione nel film è quello della prima industrializzazione italiana, tra Otto e Novecento, con il corollario di condizioni durissime di lavoro e conseguenti agitazioni sindacali. Come già ne La grande guerra anche in questo il M. optò per una storia corale, di operai e di scioperi, al centro della quale c’è il protagonista, il professor Sinigaglia, interpretato da Mastroianni. Il successo commerciale del film fu scarso e, secondo il M., fu penalizzato dalla scelta del titolo, troppo provocatorio per l’Italia dell’epoca, e da un argomento difficile e scabroso nel quale si coglievano i primi accenni di insubordinazione operaia culminati, sei anni dopo, nell’autunno caldo.
Negli anni Sessanta il M. regolarizzò la sua posizione sentimentale con la compagna Antonella Salerni, giornalista e scrittrice, dalla quale ebbe le figlie Martina (1967) e Ottavia (1974). Dopo altri film, diretti con cadenza annuale, il M. tornò al grande successo artistico e commerciale nel 1966 con L’armata Brancaleone. Il film fu uno dei maggiori successi commerciali di tutti i tempi, giunto oltretutto insperato perché produttore e distributore non erano affatto convinti della sua riuscita.
L’argomento affrontato questa volta è l’epoca medievale, rappresentata fino ad allora al cinema come un’età di gentili fanciulle e di cavalieri senza macchia, e nel quale erano ignorati gli aspetti di superstizione, violenza, fanatismo e lotte sociali che pure l'avevano connotata. Il M., insieme con Age e Scarpelli, inventò addirittura una sorta di linguaggio latino medievale ad hoc per i protagonisti, convergenti attorno a Vittorio Gassman, scelto come attore principale.
L’estetica del film fu molto influenzata dalla cultura pop: giallo il cavallo di Brancaleone, avveniristici i vestiti di Catherine Spaak e altrettanto i colori dell’accampamento. L’armata Brancaleone ottenne un grandissimo successo: entrò come definizione nel lessico comune e il suo commento musicale, una marcetta scritta da Carlo Rustichelli, si impresse nella memoria popolare.
Anche La ragazza con la pistola (1968) riscosse un buon successo di pubblico. Nel film il M. affrontò la questione dell’emancipazione femminile in un'Italia segnata da una cultura penalizzante nei confronti delle donne e avviò definitivamente Monica Vitti (fino ad allora legata ai film «dell’incomunicabilità» interpretati sotto la regia di Michelangelo Antonioni) ai ruoli brillanti. L’attrice lavorò col M. a fianco di Enzo Iannacci anche per Il frigorifero (episodio di Le coppie, 1970), nel quale si raccontano le vicende di una giovane famiglia operaia alle prese con il consumismo. Il M. narrò il mondo operaio anche in Romanzo popolare (1974), storia dolceamara ambientata in una fabbrica attraversata dai conflitti sindacali degli anni Settanta, e destinata a un buon successo di pubblico.
Un nuovo, grande successo giunse in maniera indiscussa l’anno seguente grazie ad Amici miei, una storia tutta toscana che M. ereditò dall’amico Pietro Germi, al quale si deve il progetto iniziale interrotto per la malattia del regista, morto nel dicembre del 1974.
Nel 1975 mentre in tutto il mondo trionfava Lo squalo (Jaws, di Steven Spielberg) – film che rilanciava Hollywood dopo un decennio di crisi profonda – in Italia, in decisa controtendenza, in testa agli incassi c'era Amici miei. Si trattava ancora una volta di un film corale, con protagonisti alcuni benestanti toscani che si ritrovano periodicamente per compiere ogni tipo di scherzi, «zingarate e supercazzole», attraverso cui esorcizzano la paura di invecchiare e morire. Due anni prima il M. aveva messo in scena un’altra storia collettiva e divertente: Vogliamo i colonnelli (1973), protagonista Ugo Tognazzi, una feroce satira della destra reazionaria e golpista che in quegli anni accarezzava l’idea di istituire anche in Italia un regime autoritario simile a quello affermatosi in Grecia nel 1967 e all'epoca del film ancora in essere.
Nel 1977 il M. adattò per lo schermo Un borghese piccolo piccolo romanzo di Vincenzo Cerami, chiamando a interpretarlo Alberto Sordi. Raccontando la vicenda di un tranquillo impiegato che si trasforma in un assassino, il M. mostrò di avere chiara l’involuzione della società italiana, attraversata dalla violenza del terrorismo (argomento al quale aveva dedicato Caro Michele, 1976) e dalla sfiducia nelle istituzioni. Se questi titoli ebbero un certo successo, passò invece completamente inosservato Temporale Rosy (1980), film che il M. giudicò molto importante e riuscito ma che non incontrò i favori del pubblico nonostante la presenza di Gérard Depardieu. Temporale Rosy, ambientato nel mondo del catch femminile, divenne con gli anni una sorta di cult movie anche per la costante richiesta del M. di inserirlo nelle retrospettive e negli omaggi a lui dedicati, moltiplicatisi dagli anni Ottanta in Italia e all’estero.
Gli anni Ottanta segnarono una svolta nella carriera e nella vita privata. Sul piano personale, interrotto il rapporto con la moglie, Antonella Salerni, il M. si legò a Chiara Rapaccini, dall’unione con la quale nel 1988 nacque la figlia Rosa. La Rapaccini, una psicologa e scrittrice di libri per l’infanzia conosciuta dal M. durante la lavorazione di Amici miei, gli resterà vicina fino alla morte, nonostante la decisione del regista – a metà degli anni Novanta – di vivere da solo. Contemporaneamente, il M. intensificò le sue prese di posizione sul piano politico, abbandonando il Partito socialista italiano (PSI) dopo la svolta craxiana e avvicinandosi all’estrema sinistra. Negli anni Ottanta il M. ottenne ancora alcuni grandi successi commerciali, in modo particolare con Il marchese del Grillo (1981) e Speriamo che sia femmina (1986).
Quest’ultimo, film collettivo tutto al femminile, è uno sguardo graffiante e disincantato sull’evoluzione della società italiana, sul dissolvimento del concetto tradizionale di famiglia e sul nuovo ruolo della donna nella vita quotidiana. Il M. realizzò anche lavori per la televisione e riprese alcuni suoi film di successo: nel 1982 girò Amici miei II, nel 1984 Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno e nel 1988 I picari. Al 1992 risale un'altra commedia di costume amara e cinica, Parenti serpenti. In questi anni si venne orientando sempre più verso un impegno militante che, mai in precedenza e in termini così espliciti, lo aveva caratterizzato. La partecipazione ai documentari Un altro mondo è possibile (2001), Lettere dalla Palestina (2002) e La nuova armata Brancaleone (2010) si accompagnò infatti con pubbliche dichiarazioni di voto per Rifondazione comunista e con apparizioni in manifestazioni pubbliche contro il governo Berlusconi (2001-06). Con ironia ma con fermezza il M. criticò radicalmente il modello di società, a suo dire in via di affermazione in Italia, contrapponendo al valore del successo quello della solidarietà. Nel contempo partecipò di buon grado ai mille omaggi organizzati da importanti istituzioni ma anche da piccole associazioni.
Nel 1991 fu insignito con il Leone d’oro alla carriera alla Mostra del cinema di Venezia (del quale nel 2002 presiedette la giuria). Nel 1994 fu nominato cavaliere di gran croce e nel 2000 ricevette la medaglia d’oro ai benemeriti della cultura e dell’arte.
Il suo ultimo lungometraggio fu Le rose del deserto, dal romanzo di Mario Tobino, girato nel 2006 quando il M. aveva superato i novant’anni. Una storia ambientata durante la seconda guerra mondiale, nella quale il M. faceva convergere l’amore per la commedia, l’orrore per la guerra e molti ricordi personali.
Il M. non è stato solo il regista della commedia all’italiana che nel corso di una lunghissima carriera ha diretto tutti i maggiori attori della nostra cinematografia e conseguito i maggiori successi commerciali; egli è stato un testimone ironico, attento e appassionato delle evoluzioni della società italiana e, specialmente negli ultimi anni, capace di prendere posizione sui temi politici e sociali emergenti. Il M. è stato inoltre, e fino all'ultimo, in grado di decidere della sua vita: la sera del 29 nov. 2010, mentre era ricoverato all’ospedale San Giovanni a Roma, dopo aver appreso che una malattia lo avrebbe privato di quella totale indipendenza sulla quale aveva basato la sua esistenza, scelse di suicidarsi.
La sua morte è stata vissuta con grande partecipazione, e non solo da chi lo aveva conosciuto o aveva lavorato insieme a lui. Il M. è stato percepito come una sorta di coscienza critica della società italiana per aver saputo raccontare in 76 anni di attività cinematografica innumerevoli cambiamenti, senza mai perdere la propria capacità di parlare al grande pubblico. Tutti gli organi di informazione hanno sottolineato la similitudine tra il suo suicidio e quello del padre, nel 1946. In un’intervista televisiva, aveva dichiarato che «quella era stata l’ultima occasione in cui aveva pianto»: ma c’è da credere che anche questa affermazione facesse parte del suo spirito in apparenza cinico e amante dei paradossi.
Fonti e Bibl.: Un'autobiografia del M. è in M. Monicelli, Il mestiere del cinema, a cura di S. Della Casa - F.R. Martinotti, Roma 2009; M. M. Cinquant’anni di cinema, a cura di F. Borghini, s.l. 1985; S. Della Casa, M. M., Firenze 1986; Lo sguardo eclettico. Il cinema di M. M., a cura di L. De Franceschi, Venezia 2001; S. Mondadori, La commedia umana. Conversazioni con M. M., Milano 2005; I. Delvino, I film di M. M., Roma s.d. [ma 2008].