GIOBBE, Mario
Nacque a Napoli il 13 ott. 1863 da Raffaele, maestro sarto, e da Pasqua Prota e fu denunciato all'anagrafe con il nome di Gennaro. Dotato di un ingegno eccezionale, aveva solo 18 anni allorché, dopo aver compiuto gli studi classici, si laureò in giurisprudenza presso l'ateneo napoletano. Alla carriera forense, però, il G. preferì quella giornalistica, esordendo a vent'anni nel quotidiano Napoli; in seguito collaborò come corrispondente con le testate più importanti della città: Giornale, Piccolo e Corriere di Napoli.
Notevoli furono i suoi interventi sulle questioni del momento, sia sociali sia politiche, attestati da centinaia di articoli composti nel corso di un decennio. Al di là dei temi trattati, la lettura di questi scritti evidenziava la cura esasperata posta dal G. nell'uso della lingua. L'attenzione alla forma letteraria si sviluppò ancor più nelle opere successive, così da indurre un critico contemporaneo a dire di lui: "Chi ha avuto sott'occhio gli articoli sparsi pel Corriere di Napoli ha creduto leggere brani di autore del Cinquecento, perché quella prosa reclamata dal giornale, a la giornata, è stata la esplicazione di una cultura umanistica, mirabile a' tempi nostri. Chi disse il Giobbe un quattrocentista errante intorno a' cancelli sbarrati degli orti oricellari, non errò" (Fusco, p. XXII).
Abbandonato il giornalismo militante, il G. spostò i propri interessi sulla poesia, cominciando a tradurre prima i classici greci, poi i grandi della letteratura contemporanea. L'esercizio gli serviva a maturare una vocazione che egli espresse già nel 1889 quando, edito dal Corriere di Napoli, apparve un breve volume dal titolo I primi versi, con sottotitolo e leggenda di A. de Musset: "Mes premiers vers sont d'un enfant". Oltre che per il dichiarato richiamo demussettiano, le poesie colpivano per una visibile imitazione di L. Stecchetti e di G. D'Annunzio, a riprova del fatto che, non possedendo ancora uno stile del tutto originale, il G. era portato a oscillare tra i suoi poeti preferiti. L'argomento amoroso vi veniva tratteggiato con delicatezza: nel giovane poeta si alternavano stati d'animo contrastanti, dall'esaltazione dell'amata allo sdegno contro se stesso per la futilità di sentimenti che, come quello amoroso, lo distraevano dagli studi e dal lavoro.
Due anni dopo, nel 1891, con la pubblicazione di un'altra raccolta di versi dal titolo Gli amori (Napoli), prefati da R. Bracco, il G. fu consacrato "vero poeta, colto e geniale, signore del verso e della rima" (Rovito). Rispetto ai versi del 1889 queste composizioni denotavano una maggiore uniformità stilistica e davano il senso di una ormai compiuta personalità poetica.
Seguì un periodo di stasi creativa dal quale il G. uscì riprendendo la traduzione dei classici e specializzandosi nelle versioni di testi drammatici, in particolare di quelli di E. Rostand, del quale apparvero, dopo il Cirano di Bergerac, nel 1898, in rapida successione tra il 1902 e il 1903 le versioni de La samaritana, L'Aiglon, I romanzeschi, pubblicate tutte dall'editore Pierro di Napoli. Nel 1904 uscì a Torino la sua traduzione della Fedra di J. Racine; sempre a Torino, nel 1905, dava alle stampe una versione in terzine dell'Edipo re di Sofocle, sicuramente la più notevole tra le traduzioni del G., quella che R. Bracco, in un articolo apparso sul Marzocco del 28 ott. 1906, definì "il monumento innalzato in onore del classicismo con la forza di un cervello sapiente che penetrava i più reconditi segreti e comprendeva tutte le bellezze di un'arte imperitura".
Il G. si cimentò nella assai laboriosa stesura di un dramma originale in cinque atti in versi martelliani, Mefistofele ("dal primo Faust di W. Goethe e dalla tragica storia del dottor Faust di Cristofaro Marlowe", con prefaz. di B. Croce, Napoli 1902): rifacendosi ai modelli più celebri, di Marlowe e Goethe, il G. se ne distaccò sensibilmente per alcune modifiche e varianti apportate, in particolare nel III e nel IV atto. Nella prefazione Croce giudicava tale rimaneggiamento del tutto consono alla possibilità del poeta di scegliere tra i vari elementi storici e sostituirli, quando lo ritenga più opportuno, con la sua fantasia, senza con questo togliere nulla all'esposizione, dal momento che non elabora verità propriamente storiche.
Il 4 luglio 1900 il G. aveva sposato Rosa Gervasi, figlia del giornalista Valentino, già suo collega. Nonostante l'intenso affetto nutrito nei confronti della donna, la malattia nervosa, già da tempo manifestatasi in lui con lunghi e travagliati periodi di depressione, andò progressivamente acuendosi. I suoi rapporti con la realtà divennero sempre più incerti e svogliati al punto da prospettargli la morte come unica possibilità per porre fine alle sofferenze. L'ultima violenta crisi fu scatenata dalla morte della madre avvenuta pochi giorni dopo la sua dimissione dalla casa di cura che lo ospitava.
A Napoli, la mattina del 12 ott. 1906, il G. si tolse la vita, lasciando incompiuti un dramma, Don Giovanni, e un poema eroicomico, Il pretore.
Fonti e Bibl.: Necr. in Il Giorno e Il Mattino, 13 ott. 1906; Il Marzocco, 28 ott. 1906 (R. Bracco); E.M. Fusco, La nevrastenia di un poeta [M. G.] e la nostra, Parma 1907; T. Rovito, Letterati e giornalisti italiani contemporanei, Napoli 1922, pp. 196 s.; G. Mazzoni, L'Ottocento, in Storia letteraria d'Italia, II, Milano 1934, p. 1366; A. De Gubernatis, Piccolo diz. dei contemporanei italiani, ad nomen; G. Casati, Diz. degli scrittori d'Italia, III, ad nomen.