FANI, Mario
Primogenito di una nobile famiglia locale, nacque a Viterbo il 23 ott. 1845 dal conte Vincenzo e da Elmira Misciatelli.
Tomaso, il nonno, e Vincenzo, il padre, ripetutamente gonfalonieri della città, possono essere considerati tipici rappresentanti del ceto dei funzionari pontifici di provincia, fedeli al papa ma nello stesso tempo gelosi difensori delle autonomie municipali perennemente minacciate dall'invadenza dei delegati apostolici e dalle numerose prerogative degli ecclesiastici.
Nel 1856 il F. venne inviato a Roma a compiere gli studi presso i benedettini di S. Paolo fuori le Mura. Ma la sua carriera scolastica fu assai faticosa e scarsa di successi, "parte per mancanza di salute, parte perché il Signore non gli ha dato cinque talenti", come scriveva uno dei suoi professori. Dal periodo trascorso nell'abbazia romana egli acquisì però una fede profonda, accompagnata da un'inquietudine che lo travolgeva nel continuo bisogno di "agire", di fare qualcosa in sostegno della Chiesa sottoposta agli assalti della "rivoluzione" e del papa minacciato nella sua missione di guida spirituale e più ancora nella sua qualità di sovrano temporale. Suo primo impulso era stato quello di arruolarsi negli zuavi pontifici, ma il padre, preoccupato per la sua salute cagionevole, lo aveva distolto dal proposito.
Il F. cominciò quindi a pensare a qualche forma di "carità verso i giovani, che dalle audacie della rivoluzione si trovano impediti persino di mostrarsi cristiani, oppure vengono illusi da essa, addormentati e così poi tratti a perdizione". Questi progetti ebbero modo di precisarsi e di concretizzarsi nel corso di un soggiorno a Bologna, nella primavera del 1867, presso una zia. Frequentò casa Malvezzi Campeggi, dove si legò d'amicizia con i fratelli Alfonso e Francesco, con il loro istitutore, il gesuita Luigi Pincelli, e con Alfonso Rubbiani.
Dalle loro conversazioni nacquero l'idea e lo schema organizzativo che furono alla base della Società della Gioventù cattolica italiana (SGCI), la cui costituzione venne perfezionata nella seconda metà del 1867, quando il F. era tornato a Viterbo e si manteneva in stretto contatto epistolare con gli amici bolognesi.
Il bisogno di "agire" tipico della spiritualità del F. si riflette nel programma della SGCI, dove si enumerano le ragioni che "ne chiamano, ne invitano, ne spronano a sorgere una volta dalla agghiacciata indifferenza in cui da tanti e tanti si è dormito fin qui e slanciarsi con animo coraggioso alla difesa di noi, della famiglia, della patria, della fede". Ma egli, realisticamente lontano dal ritenere la costruzione del nuovo Stato italiano come qualcosa di effimero, non pensava affatto che l'attivismo dei cattolici dovesse indirizzarsi verso un'agitazione politica di stampo reazionario. Era stato questo l'errore che aveva fatto naufragare nel 1866 l'Associazione cattolico-italiana per la difesa della libertà della Chiesa, promossa da G. B. Casoni. Secondo il F., invece, non si doveva fornire agli avversari alcun appiglio legale contro la Società, collocandosi su un piano essenzialmente religioso-formativo, volgendosi ad una azione di educazione delle nuove generazioni che, nella sua visione, avrebbe a più lungo termine ma con certezza modificato radicalmente i dati della situazione italiana. "Preghiera, azione, sacrificio": questa triade circoscriveva gli intenti della nuova Società.
Anche il carattere giovanile costituiva una importante novità, ben comprensibile nel disegno globale del F. (pur personalmente lontano da ogni forma di giovanilismo) e dei suoi amici, ma sospetto di autonomismo e persino di ribellismo negli ambienti cattolici più tradizionali. Propriamente voluta dal F. è la qualifica di "italiana" della Società. Fu lui stesso (che, va ricordato, fu sempre suddito del papa sovrano temporale) a richiederla come segnale di non autolimitazione della SGCI entro caduchi confini politici, come ulteriore testimonianza dell'abbandono di qualunque pretesa legittimistica e, insomma, come frutto di quel suo "santo entusiasmo" che, secondo il Rubbiani (Orlandi, p. 236), si spendeva "per la gloria della Chiesa" ma anche "per la salute della sua diletta Italia".
A Viterbo il F. fondò, sul finire del 1867, il Circolo di S. Rosa, di cui fu presidente e che sarebbe stato il primo ad essere aggregato alla SGCI. Il Circolo, che ottenne l'appoggio di molti ecclesiastici e di altri autorevoli personaggi, ebbe però anche ad affrontare scetticismi e derisioni che causarono qualche defezione nelle sue fila già abbastanza sparute. Comunque il F. avviò un'attività intensa, che aveva i suoi punti focali nella raccolta dell'obolo di S. Pietro, nella partecipazione a solenni funzioni religiose, nella diffusione della "buona stampa", nella pubblicazione di una strenna intitolata La Rosa. Inoltre, molti soci erano attivi collaboratori delle scuole notturne e domenicali, fondate a Viterbo dal vescovo card. M. E. Gonella, in cui insegnavano il catechismo ai giovani delle classi popolari.
Nel momento di scegliere un presidente generale per la SGCI, il F. aveva indicato il nome del modenese conte Claudio Boschetti, che rifiutò. La scelta cadde su Giovanni Acquaderni, che era stato fino allora estraneo alla costituzione della società e che era uno sperimentato organizzatore. Il F. non ebbe mai nei suoi confronti un particolare rapporto di amicizia ed anzi fu con lui in contrasto nella scelta del periodico ufficiale della Società. L'Acquaderni aveva indicato L'Ancora, combattivo giornale da lui fondato e diretto dal Casoni. Il F., che temeva che la SGCI rimanesse prigioniera di una concezione troppo intransigente, preferiva invece Il Giovane cattolico, una pubblicazione bresciana da lui apprezzata per l'attenzione alle problematiche giovanili e che si era anche dichiarata a favore della partecipazione dei cattolici alle elezioni.
Nominato membro del consiglio superiore, il F. fu presente ai primi, solenni e confortanti incontri con Pio IX, che approvava e sosteneva con entusiasmo la SGCI.
Colpito da una improvvisa e misteriosa malattia durante una villeggiatura a Livorno, vi si spense il 4 ott. 1869.
La sua vita fu presto immersa in un'aura di leggenda, forse per meglio inculcare attraverso la sua biografia esemplare i valori fondanti della SGCL. Così si parlò di una sua notte di preghiera nella chiesa di S. Rosa, che avrebbe preceduto la fondazione del Circolo. Si favoleggiò di una sua partecipazione, armi alla mano, a una scaramuccia contro i garibaldini che nel 1867 avevano temporaneamente occupato Viterbo. Gli si attribuì, come estrema frase, la consegna: "Bisogna agire! ... Bisogna agire!". Circolò la notizia che la malattia fatale fosse stata causata da un tuffo in mare per salvare un bagnante che stava per annegare. "Preghiera, azione, sacrificio": la vita del F. veniva innalzata a paradigma ideale per i giovani cattolici italiani.
Fonti e Bibl.: Documentazione sul F. e sul Circolo di S. Rosa nella Carte Mario Fani, nel Fondo GIAC (Gioventù italiana di Azione cattolica) dell'Archivio della Presidenza nazionale dell'Azione cattolica italiana, Roma. Monografie: I. Fiorentini, M.F., Viterbo 1943; M.F., a cura della Presidenza diocesana GIAC di Viterbo, s.n.t,; A. Achille-G. Orlandi, M.F.: nascita della Gioventù cattolica, Roma 1977; S. Tramontin, in Diz. stor. del movimento cattolico in Italia. 1860-1980, II, I protagonisti, Casale Monferrato 1982, pp. 193 ss. Trattano specificamente i primi passi della SGCI G. Carollo, Storia della Gioventù cattolica italiana, I, Dalle origini della Società alla morte di Pio IX (1867-1878), Roma 1933; G.R.
Claretta, Celebrazioni per il 75º della Società della Gioventù cattolica italiana, I, Appunti intorno ai primi due anni della Società della Gioventù Cattolica italiana, Roma [1943].