CRESPI, Mario
Nato a Nembro (prov. di Bergamo) il 3 sett. 1879 da Benigno e da Giulia Morbio, a diciotto anni iniziò a collaborare col padre nella gestione della azienda di filatura Crespi e C. situata a Nembro.
Alla morte del padre, nel 1910, il C. ed i fratelli Aldo (Milano 22 febbr. 1885 - ivi 19 giugno 1978) e Vittorio (Milano 30 apr. 1895 - ivi 17 luglio 1963) ereditarono le tre imprese della famiglia: il cotonificio, l'azienda elettrica, e il Corriere della sera.
Della filatura sì occupò soprattutto il C.; formatasi una buona esperienza in campo cotoniero (dal 1913 ricoprì anche diversi incarichi all'interno dell'Associazione di categoria), si impegnò a fondo e con successo nella ricerca di sbocchi esteri ai filati di sua produzione. Questa tendenza all'esportazione non si arrestò nel corso della prima guerra mondiale, e ciò procurò ai Crespi qualche -astidio poiché vendettero partite di filati a paesi in contatto commerciale con gli Imperi centrali. Nel 1923 la Crespi e C. esportava notevoli quantitativi di merce in Turchia, Bulgaria e Romania. L'azienda conobbe anche un certo ampliamento degli impianti - nel 1931 dava lavoro a 1.000 operai ed aveva in funzione circa 54.000 fusi, quando all'inizio del '900 i fusi erano poco più di 30.000 e gli operai 480 - ma, nonostante l'apporto di valenti procuratori, tra i quali va ricordato l'esperto A. Trezzi, fu caratterizzata per lungo tempo da un forte grado di staticità, sia riguardo alla forma giuridica assunta dall'impresa sia riguardo alla varietà degli articoli prodotti. Infatti il cotonificio, trasformato in accomandita semplice solo nei primi anni '50 (in precedenza era una società di fatto), possedeva nel 1953 ancora lo stesso numero di fusi - ai quali però erano stati aggiunti dei fusi di ritorcitura - dei 1931, e continuava a produrre, come settant'anni prima, filati dal numero basso. La situazione cambiò radicalmente alla fine del 1950, e nel 1963 i fusi, pur calati a 39.548 (ma probabilmente di più moderna concezione), producevano una vasta gamma di filati che arrivavano fino al n. 100. Nel 1972 lo stabilimento, i cui fusi si erano ridotti a 36.236, faceva largo uso di fibre sintetiche; era stata poi introdotta la cardatura, la pettinatura, la gasatura e la torsione da maglieria per i filati, preparati in numerose confezioni secondo i vari impieghi industriali. Qualche anno dopo tuttavia la fabbrica fu ceduta alla Manifattura di Legnano. Per gli operai del cotonificio i Crespi avevano costruito nel corso del '900 un villaggio operaio dotato di servizi sociali, mentre nel recinto dello stabilimento e circondata da un parco si trovava la villa padronale, nella quale, tra l'altro, il C. era nato.
L'Azienda elettrica Crespi e C. fu invece oggetto delle attenzioni di Aldo che, laureatosi in legge, dovette comunque avvalersi della competenza tecnica del direttore generale E. Cattaneo, sotto la cui guida (1919-21) fu ampliata la centrale di Gromo e vennero realizzate quelle di Aviasco e Gandellino. Tra il 1924 e il 1929 furono costruite cinque grandi dighe di ritenuta sull'alto Goglio, destinate a rifornire in particolare la centrale di Aviasco alla confluenza del Goglio con il Serio (e per la prima volta al mondo il salto d'acqua delle condotte forzate superò i 1.000 m). Cosicché nel 1931 l'impresa disponeva di tre centrali idroelettriche per complessivi 20.500 HP installati, nonché a Boccaleone di una centrale termoelettrica di riserva, ingrandita quest'ultima dopo la seconda guerra mondiale. Nel 1942-43 furono creati due nuovi impianti a Villa d'Ogna. Nel dopoguerra vennero ristrutturate le centrali di Gandellino e di Aviasco, finché nel 1960-61 fu costruita la modernissima centrale termoelettrica di Villa di Serio. L'azienda, dotata di sette centrali primarie, giunse così a immettere in rete circa 114 milioni di Kwh all'anno (nel 1951 erano 54 milioni; si tenga però presente che nel 1962 quasi il 34%, dell'energia era acquistata da terzi) e a servire cinquantaquattro comuni con 27.000 utenze (nel 1931 erano 8.900). Nel frattempo l'impresa aveva progressivamente assorbito altre ditte della zona - come la Società Albinese, gli Impianti Suardi, il Consorzio Scalvino - e si presentava perciò come uno dei più importanti e moderni complessi elettrici del Bergamasco. Nel 1963, con la nazionalizzazione dell'industria elettrica, l'azienda passò sotto il controllo dell'ente statale (E.N.E.L.).
Dei tre fratelli, Vittorio fu quello che dimostrò minori interessi imprenditoriali, o per lo meno industriali. Appassionato di caccia e di pesca, seguì l'andamento delle vaste tenute agricole della madre e dedicò la maggior parte del suo tempo all'allevamento - iniziato dal C. - dei pregiati cavalli da corsa della razza del Soldo. Egli era particolarmente legato al fratello primogenito, al quale si affidò anche per la gestione della più prestigiosa - e, fino agli anni '60, una delle più remunerative - tra le imprese di cui deteneva la comproprietà, la società editoriale del Corriere della sera.
Dopo la morte del padre i giovani Crespi mostrarono subito di propendere per un atteggiamento diverso da lui, che era stato sempre rispettoso della libertà del giornale: infatti già nel 1912 il C. compì - senza successo - un pesante intervento su Albertini perché modificasse la sua linea di opposizione alle pretese protezionistiche degli industriali zuccherieri. In realtà il direttore non solo riuscì a scoraggiare i tentativi di interferenza da parte dei Crespi, ma accrebbe grandemente il proprio potere all'interno della società editoriale, soprattutto a partire dal 1920, quando (dopo il ritiro di Pirelli, Beltrami e Frua) acquisì il controllo di 22 carature rispetto alle 35 dei Crespi. In seguito all'avvento del fascismo, però, i fratelli trovarono inopportuna e pericolosa la coerente posizione liberale assunta da Albertini e nel 1923 cercarono inutilmente di rilevare la sua quota. Sebbene le vendite del quotidiano raggiungessero in quel periodo punte eccezionali (nel 1924 fu toccata la tiratura giornaliera di 800.000 copie), i tre fratelli erano preoccupati della crescente ostilità del regime, tanto più che il 2 luglio 1925 il prefetto di Milano minacciò la soppressione del Corriere. Incalzati anche dalle violente polemiche di Farinacci, che li accusava di aspettare troppo a dimostrarsi convinti fascisti, i Crespi riuscirono a escogitare un cavillo legale (il fatto che l'accordo societario del 1920 non era stato ufficialmente registrato) che permise loro di estromettere finalmente Albertini. Questi, costretto a cedere la sua quota per la cifra invero cospicua di 72 milioni, si ritirò e il 27 nov. 1925 venne fondata una nuova società in accomandita (di cui socia accomandante era la madre Giulia Morbio) con il capitale di 180.000 lire equamente diviso tra i fratelli. Da allora in poi il Corriere si allineò disciplinatamente al nuovo corso fascista, mentre soprattutto il C. - che nel 1934 ricevette la nomina a senatore - manteneva frequenti contatti con Mussolini e non mancava di dare prove di fedeltà al regime.
Per quanto - secondo G. Licata - i Crespi fossero divenuti fascisti "per convenienza e per convinzione", dopo l'8 sett. 1943 essi compresero che la Repubblica sociale italiana - di cui peraltro temevano la velleità socializzatrici - non avrebbe resistito a lungo. Decisero così, accanto alla formale ubbidienza alle direttive dei nazi-fascisti, di allacciare contatti anche con le forze della Resistenza, alle quali concessero ingenti finanziamenti e promisero persino - ma l'impegno non fu poi mantenuto - di versare dopo la caduta del fascismo gli utili realizzati dal giornale nel periodo repubblichino. Di questa "fronda" ebbe sentore il regime, che nel 1944 assoggettò il C. a un breve arresto domiciliare.
Dopo la Liberazione, ed esattamente dal 25 apr. 1945 al giugno 1946, il Corriere fu posto sotto regime commissariale e i Crespi si astennero dal frequentare il giornale. Questa assenza non impedì che la moglie di Aldo, Giuseppina Fossati Bellani, tentasse ripetutamente di convincere il direttore M. Borsa ad abbandonare la sua linea dichiaratamente filo-repubblicana. Superato brillantemente un processo di epurazione (sembra infatti che fossero scomparsi i documenti più compromettenti: Licata, p. 413), i Crespi tornarono al Corriere e poco dopo imposero le dimissioni a Borsa, riportando il giornale su una linea di prudente moderatismo.
Nel giugno del 1951 il capitale della società, rimasto invariato dal 1925, fu portato a 90 milioni, di cui 87 formalmente attribuiti alla moglie di Vittorio, Maria Teresa Bernasconi, e un milione a ciascuno dei tre Crespi. Già allora comunque i rapporti tra i fratelli tendevano a incrinarsi, a causa della personalità della seconda moglie del C., Fosca Leonardi, che aspirava a svolgere un ruolo di protagonista nelle vicende del giornale. Si vennero così a creare tre distinti centri di influenza, anche se, come abbiamo già ricordato, Vittorio preferiva rimettersi alle decisioni del primogenito. Accanto tuttavia al potere degli editori, si delineava quello non trascurabile dei giornalisti più anziani e più noti del Corriere. Furono principalmente costoro che nel 1961 si opposero alla candidatura di G. Spadolini avanzata dai Crespi in sostituzione del direttore M. Missiroli (i fratelli allora dovettero ripiegare su A. Russo).
Il 22 giugno 1962 moriva a Milano il C. che, non avendo avuto figli neppure dalla prima moglie Ellade Colombo, lasciò per testamento ai figli di primo letto di Fosca Leonardi, Antonino ed Elvira, la proprietà della sua quota. Poiché l'anno seguente moriva anche Vittorio (che aveva avuto un figlio maschio, Mario), proprietari del Corriere rimasero, oltre all'ormai anziano Aldo, i giovani Antonino e Elvira Leonardi con la loro madre, il citato Mario (che aveva aggiunto al proprio il cognome della nonna Morbio) e la figlia unica di Aldo, Giulia Maria. A questo cambiamento generazionale si accompagnò la chiara volontà, espressa soprattutto da Giulia Maria, di superare il tradizionale conservatorismo del quotidiano milanese.
A spiegare il "progressismo" di Giulia Maria, G. Licata ha avanzato l'ipotesi che ella si ritenesse "depositaria dell'eredità spirituale lasciatale dal consorte Marco Paravicini - da lei sposato nel 1953 e perito in un incidente stradale nel 1957 - "che era un democratico, un idealista ed aveva combattuto in formazioni partigiane", cosicché Giulia Maria "rimasta vedova, adottò anche il dinamismo del marito". Va tuttavia osservato che, come vedremo più avanti, i sentimenti democratici della Crespi si manifestarono spesso, nei confronti del giornale, in una forma non meno impositiva di quella che era stata propria dei genitori e degli zii. L'atteggiamento rispettoso della libertà del giornale del nonno Benigno una visione strettamente "industrialista" e non politica dell'impresa editoriale -, non risorse nemmeno nella terza generazione dei Crespi del Corriere.
Persa la fiducia di Giulia Maria, nel 1968 A. Russo dovette perciò dimettersi e lasciare il posto al preferito Spadolini. Dopo qualche anno tuttavia neppure Spadolini fu in grado di soddisfare l'orientamento ideologico di Giulia Maria, che sembrava privilegiare addirittura gruppi della estrema Sinistra. Il 3 marzo 1972 l'energica figlia di Aldo allontanava Spadolini dalla direzione e lo sostituiva con P. Ottone. La procedura seguita fu giudicata autoritaria e indignò tutti i giornalisti del Corriere, che al termine di un'agitazione ottennero di essere consultati dagli editori in caso di cambiamento del direttore. Lo spostamento più a sinistra della linea politica del giornale coincideva però con una fase estremamente delicata nell'andamento finanziario del gruppo editoriale, che chiuse il 1972 con un deficit di un miliardo e 800 milioni. La nuova linea politica (solo in parte condivisa dagli altri comproprietari) e il crescente sbilancio della società, indussero Mario Crespi Morbio, figlio di Vittorio, e i due Leonardi - la madre era morta nel 1967 - a ritirarsi dal Corriere: il 26 marzo 1973 essi comunicarono a Giulia Maria l'intenzione di cedere le quote di loro proprietà. Questa a sua volta rese noto il 18 maggio che il padre Aldo lasciava la presidenza onoraria della società editrice e che ella stessa assumeva la piena responsabilità della gestione; pochi giorni dopo divenne di pubblico dominio che Mario Crespi Morbio e i Leonardi avevano venduto le loro due quote (ciascuna per 14 miliardi) agli industriali G. Agnelli e A. Moratti, che lasciarono a Giulia Maria la responsabilità della gestione editoriale.
Alla fine di maggio il Corriere formulava il suo nuovo programma di lavoro, ispirato a ideologie democratiche più avanzate. Tale programma però non era condiviso da alcuni autorevoli giornalisti del quotidiano, tra i quali I. Montanelli, che - inviso a Giulia Maria e colpevole di avere rilasciato un'intervista fortemente critica nei confronti del giornale al quale ancora apparteneva - venne immediatamente allontanato dal Corriere (17 ott. 1973). Nel frattempo la crisi finanziaria si aggravava ulteriormente e al 31 dic. 1973 il passivo delle testate facenti capo al Corriere aveva raggiunto la cifra di sette miliardi e mezzo di lire. Le preoccupazioni per i proprietari non erano comunque solo di ordine economico, poiché all'interno del giornale la redazione stava conducendo un'aspra lotta rivendicativa rivolta allo scopo di accrescere la partecipazione dei giornalisti alla direzione del Corriere. Quando il 30 marzo 1974 fu siglato un accordo fra il direttore Ottone e i redattori che instaurava una sorta di governo "collegiale" del giornale, né Giulia Maria né Agnelli né Moratti apprezzarono gli elementi innovativi e persino "rivoluzionari" contenuti in quell'accordo. Agnelli anzi prese in seria considerazione la possibilità di sganciarsi definitivamente da un'impresa editoriale che stava diventando, oltre che passiva, di difficile coordinamento. Vi furono allora diversi progetti di nuove combinazioni finanziarie, ma le iniziative di Agnelli non portarono ad alcun risultato perché improvvisamente il 10 luglio - ufficialmente per motivi di salute, molto probabilmente per l'impossibilità di ottenere adeguati finanziamenti che le permettessero di rilevare le quote degli altri due comproprietari - Giulia Maria annunciò di ritirarsi dal giornale che era appartenuto per quasi novant'anni alla famiglia Crespi, e di avere ceduto la sua quota, per ventun miliardi, all'editore Andrea Rizzoli. Poco dopo Rizzoli acquistò, ad un prezzo assai minore (rispettivamente quattordici e nove miliardi), anche le quote di Moratti e di Agnelli.
Quando nel 1978 morì l'ultimo rappresentante della seconda generazione dei Crespi, Aldo, nessuna dunque delle tre imprese possedute da Benigno apparteneva più alla famiglia. Alla scomparsa dei Crespi come dinastia industriale non corrispondeva però una sostanziale diminuzione delle risorse finanziarie a loro disposizione, come invece era accaduto all'altro ramo della famiglia Crespi, quello di Silvio, che con la perdita del cotonificio aveva conosciuto un'effettiva decadenza. La diversa sorte riservata ai due rami della famiglia può essere spiegata dalla tempestività con la quale i discendenti di Benigno cedettero - e quindi "monetizzarono" - le loro attività produttive alle prime avvisaglie di gravi difficoltà congiunturali e settoriali (nel caso del cotonificio) o in presenza di una situazione politico-economica insostenibile (nel caso dei Corriere). D'altra parte proprio questa trasformazione pressoché indolore di imprese industriali in capitale "puro" fu resa possibile dalla diversificazione degli investimenti in vari settori produttivi effettuata in origine da Benigno e mantenuta dai figli. Una politica che non fu invece seguita da Silvio, tenacemente ed esclusivamente attaccato al suo cotonificio e destinato perciò a rimanere finanziariamente coinvolto dalla sua rovinosa caduta. Va infine sottolineato che i figli di Benigno mostrarono (salvo forse che per il Corriere) una maggiore disponibilità a delegare parte delle funzioni imprenditoriali a competenti quadri manageriali.
I tre figli di Benigno, il C., Aldo e Vittorio, oltre che per le loro attività industriali, sono noti per il costante impegno riversato nel campo assistenziale. Nei confronti dei dipendenti del Corriere essi istituirono nel 1929 ilDopolavoro, uno spaccio, colonie per i figli dei lavoratori e una biblioteca; seguendo sempre le direttive sociali del regime fascista, misero inoltre a disposizione degli appezzamenti di terreno da coltivare ad orto e nel 1936 aprirono un campo sportivo. Il loro interessamento non si limitava però ai soli dipendenti: nel 1929 i Crespidonarono cinque milioni all'Ospedale Maggiore di Milano e promossero l'istituzione del premio "Benito Mussolini", che doveva essere conferito dall'Accademia d'Italia. Nel 1938 crearono la Fondazione Crespi Morbio, che aveva l'obbiettivo di aiutare le famiglie povere numerose. In loro favore la Fondazione fece costruire una serie imponente di unità abitative che nel 1969ospitavano ancora circa 1.800persone. Per queste ed altre iniziative di beneficenza (che ebbero tutte vasta risonanza nel paese e contribuirono a consolidare il prestigio della famiglia), i Crespi ottennero pubblici riconoscimenti da parte del comune di Milano e degli stessi organi dello Stato. Va infine ricordato che in particolare il C. nutrì un vivo interesse per le arti figurative. Egli si formò infatti una pregevole collezione di quadri, tra i quali spiccavano le opere di De Nittis.
Appunto questo interesse verso l'arte (al quale parteciparono un po' tutti i membri della famiglia) e, grazie al Corriere, i frequenti contatti con i maggiori intellettuali italiani nonché con i più importanti esponenti politici, favorirono la formazione presso le abitazioni dei tre Crespi di veri e propri "salotti" culturali (e anche mondani) di grande interesse per la comprensione della vita sociale dell'Italia contemporanea e dei rapporti fra potere economico e intellettuali. Del resto lo stesso C. assunse come suo segretario particolare lo scrittore Enzo Grazzini, e si adoperò per farlo conoscere nell'ambiente letterario.
La tradizione del "salotto" fu continuata, quando era ancora in vita Aldo, da Giulia Maria, che peraltro ne modificò i contenuti, adeguandosi agli atteggiamenti radicali allora assunti da alcuni gruppi dell'alta borghesia milanese degli anni Sessanta aspramente criticati dai moderati. Al di là tuttavia del risentimento nutrito da questi ambienti per quella sorta di "tradimento" di classe che sarebbe stato consumato da Giulia Maria, sta di fatto che attorno ai Crespi si coagularono - e ne trassero forza e autorevolezza - correnti politico-culturali, e anche mode, particolarmente significative nella storia ideologica e comportamentale della borghesia italiana. Il peso insomma della famiglia - e non solo ai tempi di Giulia Maria - non era esclusivamente economico e relativo alle imprese da essa controllate: con il loro fitto intreccio di rapporti e di conoscenze i Crespi contribuivano a formare un costume e un'opinione, oltre che a realizzare centri informali e "privati" di decisione in campo politico ed economico.
Fonti e Bibl.: Per i rapporti fra Albertini e i Crespi si veda; Roma, Arch. centrale dello Stato, Carte Albertini (e si veda L. Albertini, Epistolario 1911-1926, a c. di O. Bariè, I-IV, Milano 1968, ad Indicem); sempre nello stesso Archivio Ufficio centrale di investigazione, è conservata la pratica relativa alle sospette esportazioni effettuato dal cotonificio Crespi durante la prima guerra mondiale; per le relazioni tra i Crespi e il fascismo. Ibid., Segreteria partic. del duce. Carteggio riservato. Presso Giulia Maria Crespi Mozzoni si trova una particolareggiata autobiografia dattiloscritta di Aldo, che tuttavia non è consultabile, come pure non lo è l'Archivio del Corriere della sera. Sono state però utilizzate le memorie inedite del cugino Benigno (conservate presso lo stesso) e la testimonianza orale di Mario Crespi Morbio. Cfr., inoltre, Associazione cotoniera italiana, Annuario dell'industria cotoniera italiana 1923, Milano s. d., p. 46; Consiglio degli istituti ospitalieri di Milano, I benefattori dell'Ospedale Maggiore di Milano nel biennio XXV marzo MCMXXIX-XXV marzo MCMXXXI, e i nuovi ritratti, a cura di S. Spinelli, Milano 1931, pp. 9-15; Guida cotone. Le aziende industr. e commerciali cotoniere. Le aziende industr. e commerciali sussidiarie accessorie e complementari dell'industria tessile in Italia 1947, Milano 1947, p. 87; Diga del Lago Nero e Dighe dei laghi Aviasco-Campelli-Cernello-Sucotto, estratti da Associazione nazionale imprese distributrici di energia elettrica; Le dighe di ritenuta degli impianti idroelettrici italiani, Milano 1952, pp. non num.; Guida cotone. Repert. dell'industria tessile cotoniera e del commercio tessile ital., I, Milano 1953, p. 92; Azienda elettrica Crespi e C. Bergamo, Bergamo 1962, pp. non num.; Guida dell'industria cotoniera ital. Cotone e fibre affini. Anno 1963, a cura di A. Lodigiani, Milano 1963, p. 53; A. Lodigiani, Contributi alla storia dell'industria cotoniera. Benigno Crespi e la sua discendenza, in Industria cotoniera. Riv. d. Associazione cotoniera ital.. IV (1969), pp. 857, 861 s., 865; O. Bariè, L. Albertini, Torino 1972, pp. 212 s.; Guida dell'industria cotoniera ital. Cotone e fibre affini, a cura di A. Lodigiani, Milano 1972, p. 19; F. Martinelli, La farmacia di fronte. Cronaca quasi vera del Corriere. Con un'app. per i non addetti ai lavori, Milano 1974, pp. 271-94; R. Rogora, I Crespi "Tengiti", in Almanacco della Famiglia bustocca per gli anni 1971-1972, Busto Arsizio 1974, pp. 120-23; G. Licata, Storia del Corriere della sera, Milano 1976, passim;M. Negri, Archeologia industriale nella Val Seriana, in Campagna e industria. Itinerari, Milano 1981, pp. 93 s.; E. Bettiza, Via Solferino, Milano 1982, passim; Encicl. Ital., Append. III, I, p. 453.