CHIROMONO (Chironomo, Chiromonio, Chironio, Chirimon), Matteo
Nacque da un Domenico a Gragnara di Brisighella, in Val di Lamone, nel pressi di Faenza (Valgimigli); l'anno della nascita, non noto, si deve inscrivere nel primo terzo del sec. XV.
Il C. era chiamato Mancino ("magister Mateus, Mancinus nuncupatus s), appellativo che, o appartenesse alla sua famiglia o alludesse a una menomazione personale, egli stesso, con gusto umanistico, amò grecizzare in Chiromono, ("che ha una sola mano").
Negli anni dal 1453 al 1455 il C. è citato, come maestro di grammatica, tra i lettori dello Studio bolognese (Dallari, pp. 38, 40). In seguito passò ad insegnare a Faenza, dove ebbe tra i suoi discepoli gli stèssi figli di Astorgio II Manfredi, signore della città; a Faenza era sicuramente nel 1461. Dopo questa data si trasferì a Ravenna - probabilmente per un nuovo incarico di insegnamento - con i suoi due figli, Lucilio e Pompilio.
A Ravenna il C. morì nel settembre del 1482. Il notaio che rogò l'atto di morte (Arch. di Stato di Ravenna, Notaio Montini, 19 sett. 1482, E 100) lo dice "bonarum litterarum preceptor et vir egregius".
Le ragioni della notorietà del C. fra i contemporanei sono probabilmente altre da quelle per cui oggi viene ricordato: a giudicare dalle tappe della sua professione, fu apprezzato in vita soprattutto come grammatico; ma dovette anche godere di una certa notorietà per le sue qualità di scrittore. Angelo Lapi, il più noto umanista faentino del secondo Quattrocento, in una elegia tuttora inedita indirizzata al C. ("ad Mattheum Brasichellatem"), dopo aver tessuto gli elogi del destinatario, lo invita a cantare in versi le glorie militari della Valle di Lamone (Faenza, Bibl. com.., ms. 41 cc. 28-29). Di questa produzione, oggi interamente perduta, resta soltanto l'eco di un giudizio abbastanza lusinghiero del Tiraboschi, che vide e definì colti ed eleganti i versi di un poemetto composto dal C. per il passaggio dell'imperatore Federico III da Ravenna. Non è improbabile che, nell'ambito degli interessi culturali del C., la pratica di commentatore dantesco, per la quale il suo nome è stato ed è quasi unicamente citato, fosse solo il frutto di una esperienza circoscritta. Se devono tuttavia farsi supposizioni sulle modalità dell'incontro dei C. con l'esegesi della Commedia, più che a una matrice faentina (Faenza per la sua impronta guelfa restò almeno in un primo tempo piuttosto sorda al culto di Dante), sarà il caso di riferirsi al suo soggiorno bolognese. A Bologna, città ricca di tradizioni dantesche fin dalla prima parte del XIV secolo (si pensi al commento del bolognese Iacopo della Lana), aveva fatto intorno al 1370 le sue prime esperienze di lettore della Commedia l'altro romagnolo Benvenuto -da Imola, successivamente autore del celebre commento; nella capitale emiliana H culto dantesco era poi vissuto ininterrottamente nell'insegnamento di Giovanni da Spoleto e Paolo dell'Aquila. In ambiente romagnolo, invece, vedranno la luce nel 1416-17 la traduzione latina e le chiose alla Commedia di frate Giovanni Bertoldi da Serravalle.
Il commento latino, interlineare e marginale, alla Commedia (fino al V del Paradiso), di cui il C. è autore (la sottoscrizione che chiude la prima cantica reca: "... per me Mattheum Chiromonum civem faventinuni die VI septembris MCCCCLXI"), commento trasmessosi quasi sicuramente in redazione autografa in un codice ora custodito presso la Bibl. Estense di Modena (ms. γ 0 1.15) ed edito tuttora solo in estratti molto parziali (da Beltrani, Rivalta e Campana, Ilsepolcro...), inserisce dunque la figura dei grammatico faentino nella fioritura di studi danteschi che caratterizzò la cultura emiliano-romagnola del Tre e Quattrocento. In questo quadro le chiose del C. si affiliano direttamente, come già per Bertoldi da Serravalle, a quelle di Benvenuto, che non poche volte il C. riprende e trascrive quasi alla lettera. Tuttavia il lavoro del C. non è privo di spunti originali, soprattutto in relazione a fatti e personaggi che hanno pertinenza con la sua città, come a proposito della notizia della tomba di Ugolino Fantolini (Purgatorio, XIV, 121), su cui ha richiamato l'attenzione A. Campana. Il commento del C. fu studiato e ripreso ripetutamente nella cerchia degli eruditi faentini e romagnoli del XVII e XVIII secolo; nel sec. XVII ne fu redatta una copia parziale, fino al canto XXVI, v. 63, del Purgatorio (ms. Barb. lat. 4113 della Bibl. Apost. Vaticana).
Fonti e Bibl.: Faenza, Bibl. comunale, ms. 62/1: G. M. Valgimigli, Mem. stor. di Faenza, XI, ff. 178 s.; I Rotuli dei lettori, legisti e artisti dello Studio, bolognese..., a cura di U. Dallari, Bologna 1888, pp. 38, 40; P. Mittarelli, De literatura Faventinorum, Venetiis 1775, p. 57; G. Tiraboschi, St. della letter. ital., III, Milano 1833, p. 201; P. Beltrani, Maghinardo Pagani da Susinana, Faenza 1908, pp. 82-105; P. Zama, Le istituz. scolastiche faentine nel Medioevo, Milano 1920, pp. 58, 62 s.; E. Ciuffolotti, Faenza nel Rinascimento: la vita privata con appendice di docum. inediti, Bagnacavallo 1922, p. 66; C. Rivalta, Relazione al Comitato dantesco faentino, Faenza 1922, pp. 14 s., 17, 65-70; A. Cavalli, Un dantista brisighellese dei sec. XV, in IIICentenario della Madonna del Monticino, II(1922), p. 67; A. Campana, Il sepolcro di Ugolino, in Valdilamone, XIII(1933), 2, pp. 29 s.; Id., Civiltà umanistica faentina, in Il Liceo "Torricelli" nel primo centenario della sua fondazione, Faenza 1963, pp. 318, 343; Enc. dantesca, I, p. 975.