CARAFA, Mario
Nacque, in data imprecisabile, da Federico, primo marchese di San Lucido e da Giovanna Gallerano. Nel 1557 fu al seguito del suo congiunto cardinale Carlo Carafa alla corte di Filippo II a Bruxelles. Fino alla vigilia della sua entrata nella vita ecclesiastica, nel 1565, condusse vita da cavaliere, per cui il passaggio alle pesanti responsabilità di governo di una importante diocesi fu alquanto brusco e non mancò di lasciare tracce nel tono e nei modi del suo episcopato. Designato arcivescovo di Napoli da Pio IV il 26 ott. 1565, tale nomina aveva incontrato qualche difficoltà, a causa degli avvenimenti per cui, durante il pontificato di Paolo IV, i Carafa suoi familiari erano caduti in disgrazia. Ma in suo favore fu decisivo l'intervento presso il pontefice del viceré duca d'Alcalá, dell'eletto del popolo, degli altri Carafa e di molti esponenti dell'opinione pubblica napoletana. Il C. prese possesso della sua sede il 6 dic. 1565 per mezzo del fratello Ferrante, ma giunse a Napoli da Roma, dove si trovava, solo il 17 marzo 1566. Al momento della nomina il C. era, d'altronde, ancora suddiacono e perciò dovette prima farsi ordinare sacerdote e quindi ricevere la consacrazione episcopale.
L'attività pastorale del C. si configura, fin dall'inizio, come quella di un riformatore, deciso a seguire la strada indicata dal concilio di Trento ed a perseverare nella azione del predecessore Alfonso Carafa.
In ciò fu aiutato da alcuni valenti collaboratori: il vescovo d'Ischia, Fabio Polverino, che il C. nominò, prima ancora di giungere a Napoli, suo vicario generale; il teatino Girolamo Ferro, di cui il C. si servì per sei anni, in particolar modo nella riforma dei monasteri femminili ed in quella del clero; il gesuita Bonocore. Importanti per l'azione riformatrice del C. furono anche i suoi legami con i teatini, fra i quali fu suo amico s. Andrea Avellino, e con i gesuiti. Per quanto riguarda questi ultimi, i rapporti del C. con alcuni importanti esponenti della Compagnia risalivano a tempi anteriori alla sua nomina ad arcivescovo: infatti i suoi rapporti col Salmeron datavano dal viaggio di entrambi a Bruxelles, al seguito di Carlo Carafa. Dei gesuiti il C. si servì per l'insegnamento del catechismo al popolo nelle chiese parrocchiali e per istruire i parroci ed il clero secolare.
Riforma dei monasteri femminili, riforma del clero e istituzione del seminario diocesano costituiranno i punti essenziali dell'attività episcopale del Carafa. Ne sarebbero scaturite, tra l'altro, non lievi tensioni con l'autorità civile.
Già nel 1566, pochi mesi dopo la sua entrata in Napoli, il C. diede inizio alla visita pastorale della diocesi. Alla fine dello stesso anno celebrò il suo unico sinodo diocesano, i cui decreti si limitano ad integrare quelli del sinodo tenuto da Alfonso Carafa, dei quali lo stesso C. curò la pubblicazione.
Anche nella riforma dei monasteri femminili il C. proseguì l'opera iniziata da Alfonso, intimando, nel 1566, secondo i termini delle costituzioni tridentine, la clausura e la professione dei voti ai monasteri femminili. Le resistenze opposte da alcuni di questi resero necessario il ricorso alla Curia romana.
L'istituzione del seminario diocesano fu certo il maggiore impegno del C., che dovette superare non pochi ostacoli. I problemi che in prima istanza gli si ponevano erano essenzialmente tre: quello dei fondi necessari alla fondazione e alla vita dell'istituto, quello degli uomini per governarlo e quello della sede.
Per i fondi, la prima difficoltà era lo scarso reddito della mensa arcivescovile, le cui entrate, essendo state date in affitto negli anni precedenti alla nomina del C., si riducevano a 500 ducati. Le maggiori contribuzioni per il seminario dovettero ricadere perciò sul capitolo metropolitano, sul clero diocesano e su quello regolare, al che si opposero soprattutto i ricchi conventi (certosini di S. Alartino e olivetani) e i titolari dei benefici di giuspatronato e di quelli tenuti da alte personalità ecclesiastiche. Un ulteriore intralcio era, infine, costituito dalle interferenze statali per la salvaguardia della giurisdizione regia che si temeva particolarmente minacciata dalla applicazione dei decreti del concilio di Trento. Nonostante tutti questi ostacoli, il C. riuscì a raccogliere entro il 1567 i fondi necessari per aprire il seminario. Si poneva ora il problema della scelta degli uomini cui affidarne la direzione. Il C. non poté disporre, però, per tale incarico di un gesuita, stante la decisione della Compagnia di non accettare simili incombenze.
Il 1º genn. 1568 il nuovo seminario veniva inaugurato nella sede dell'antico episcopio, acquistato dal C. per 6.000 ducati tratti dal suo patrimonio personale. Il problema delle entrate del seminario continuò ad essere, anche dopo l'apertura, una spina nel fianco del Carafa. Per dotare l'istituto di redditi più sicuri e consistenti l'arcivescovo decise di tassare gli ospedali, che immediatamente ricorsero a Roma, avendone partita vinta. Nel 1569 il C. definiva, allora, la contribuzione del clero, chiedendo che venisse attribuito al seminario l'equivalente della franchigia della gabella del grano a rotolo, di cui il clero napoletano godeva. Non essendo ciò ancora sufficiente, attribuì, infine, al seminario i redditi di alcuni benefici.
L'interesse del C. per la cultura gli permise di evitare che il seminario assumesse il carattere di un istituto di devozioni, tanto che ai contemporanei esso apparve come un'accademia. Per merito dell'arcivescovo ebbe, fin dai suoi primi anni, gli insegnamenti di filosofia e teologia che mancarono per decenni ad altri seminari.
Il seminario del C. - benché apprezzato dal papa e dal cardinale Santoro - incontrò scarsa simpatia presso il clero, e ciò a causa della progressiva accentuazione dello spirito autoritario e accentratore dell'arcivescovo, che, esautorando il capitolo metropolitano, si poneva, però, al di fuori dei decreti tridentini, il che gli costò, nel 1575, una sorta di requisitoria da parte della Congregazione del Concilio.
Le difficoltà di rapporti con il capitolo ebbero inizio fin dai primi tempi del governo episcopale del C., deciso ad avviarne il processo di riforma secondo i decreti tridentini. La tensione si acuì quando, nel 1569, decise di imporre le contribuzioni per il seminario anche ai canonici non prebendati.
Se il principale interesse del C. fu il seminario, per il quale non ebbe timore di affrontare tanti contrasti, non va dimenticata l'attenzione che egli portò al clero diocesano. Fin dalle prime esperienze compiute con la visita pastorale si rese conto della necessità di operare una riforma dei suoi costumi, per cui, già nel gennaio 1567, emanava la Costitutio de vita et honestate clericorum. Successivamente si preoccupò di migliorare la preparazione del clero e richiese perciò ai gesuiti, nel 1571, due padri che ne curassero l'istruzione in morale e teologia. Le lezioni cominciarono a tenersi nel duomo quello stesso anno e spesso anche C. vi prendeva parte.
Il C. dimostrò interesse anche per la evangelizzazione degli infedeli. Partecipò attivamente ai lavori della commissione diocesana per le cause di ebraismo. Si andò, però, orientando verso un sistema catechistico piuttosto che inquisitoriale indirizzato al recupero dei non cristiani al cattolicesimo. La fondazione della Compagnia della dottrina cristiana e dei catecumeni, nel 1573, ne è un segno.
Sotto il profilo della pietà il C. favorì il culto eucaristico, fondando la Confraternita dei neri nel duomo che, per regola, era tenuta alla comunione settimanale. Per incarico del C., Giovan Battista da Napoli scrisse la Dichiaratione dei misteri (Napoli 1570), dedicata allo stesso arcivescovo, in cui un'ampia parte era riservata alla trattazione dei benefici della frequente comunione.
Già nei primi tempi del suo governo episcopale i rapporti del C. con il viceré duca d'Alcalá non furono dei migliori. Nel 1567 questi aveva fatto giungere a Roma dure lagnanze nei confronti dell'arcivescovo. I rapporti tra le due autorità peggiorarono sensibilmente quando all'Alcalá successe il cardinale di Granvelle.
Nel dicembre 1572 furono arrestati due canonici, uno parente del C. e l'altro fratello del cardinale Santoro. Il C. scomunicò il capitano che aveva operato l'arresto. Il Granvelle chiese il ritiro della scomunica ed ebbe parere favorevole da parte della commissione di teologi e canonisti all'uopo riunita dal C. stesso. Dopo poco tempo il C. e il Granvelle ebbero un nuovo motivo di tensione a proposito dell'entrata nel monastero di S. Patrizia di Diana Falangola, rimasta incinta per una relazione avuta con don Giovanni d'Austria. La resistenza delle monache ad accettare fra di loro la Falangola era spalleggiata dal C., che aveva sue parenti in S. Patrizia e che era sollecitato contro il viceré anche dal suo vicario Pietro Dusina. Ma la decisione del Granvelle e dello stesso nunzio, ormai inclini a ricorrere anche alla forza per convincere le monache, piegò il C. che non solo dovette far atto di persuasione presso queste ultime, ma si vide anche diffidato dalla Congregazione del Concilio a non creare nuove difficoltà. Ben presto, però, si determinò un nuovo grave episodio. Un ladro, tale Marcello Miele, dopo aver commesso un furto nel duomo, sorpreso mentre rubava nella chiesa di S. Lorenzo e consegnato alla autorità ecclesiastica, fu rinchiuso nelle carceri arcivescovili. Per circa un mese arcivescovo e vicerè discussero sulle rispettive competenze a proposito del giudizio da emettere nei confronti del reo, finché il Granvelle inviò al C. il procuratore fiscale Pansa, insieme con un nutrito numero di sbirri, per prelevare il Miele. Data la resistenza dell'arcivescovo fu necessario forzare le carceri. Il Mele fu impiccato, nonostante la difesa fattane dal C., il quale immediatamente scomunicò i responsabili. In risposta il viceré e il Collaterale arrestarono quasi tutta la corte arcivescovile, decretarono l'esilio per il vicario Dusina e sequestrarono i beni della mensa. La tensione giunse allora a un punto tale che si cominciò a temere addirittura per le sorti della lega cattolica. Intervenne, tuttavia, tra i due contendenti don Giovanni d'Austria che convinse il C. a revocare le scomuniche, se Roma glielo avesse consentito. Qualche giorno dopo, con il parere favorevole del Collaterale, il Granvelle scarcerava i funzionari della curia arcivescovile toglieva il sequestro sui beni della mensa e permetteva il ritorno dei Dusina.
Nel 1576 il C. convocò il concilio provinciale, che ebbe inizio il 13 maggio. Nelle intenzioni dell'arcivescovo esso doveva essere il tramite per estendere la riforma a tutto il territorio metropolitano, e, prima di tutto, per promuovere l'erezione dei seminari nelle diocesi suffraganee che ne erano ancora prive.
Il C. morì a Napoli l'11 sett. 1576.
Egli fu certamente uno dei più assidui riformatori tra i vescovi della seconda metà del sec. XVI. Più che per la dottrina, fu lodato per la pietà pastorale. Il suo temperamento e una certa immaturità dovuta alla improvvisa ascesa a pesanti responsabilità di governo lo indussero spesso ad atteggiamenti troppo rigidi, come, ad esempio, nei rapporti con il capitolo. La sua attività riformatrice fu, comunque, generalmente apprezzata. La sua vita fu moralmente irreprensibile, anche se non austera. Il suo stile fu quello di un gran signore abituato ad una magnificenza che superava, a volte, le sue stesse possibilità economiche.
Fonti e Bibl.: Nunziature di Napoli, I, a cura di P. Villani, Roma 1962, ad Indicem; B. Aldimari, Hist. geneal. della fam. Carafa, Napoli 1691, II, pp. 327 ss.; F. Ughelli-N. Coleti, Italia sacra, VI, Venetiis 1721, coll. 158-159; L. Parascandolo, Mem. storiche-critiche-diplom. della Chiesa di Napoli, IV, Napoli 1851, pp. 86-92; D. M. Zigarelli, Biografie dei vescovi ed arcivescovi della Chiesa di Napoli, Napoli 1861, pp. 131-134; F. Nicolini, Aspetti della vita italo-spagnola nel Cinque e nel Seicento, Napoli 1934, ad Indicem; L. von Pastor, Storia dei papi, Roma 1951, VIII, p. 270; IX, p. 250; R. De Maio, Le origini del seminario di Napoli, Napoli 1958, passim; Id., Alfonso Carafa card. di Napoli(1540-1655), Città del Vaticano 1961, ad Indicem; Id., Bonsignore Cacciaguerra,un mistico senese nella Napoli del Cinquecento, Milano-Napoli 1965, pp. 73, 125; Id., Riforme e miti nella Chiesa del Cinquecento, Napoli 1973, ad Indicem; G. Gulik-C. Eubel, Hierarchia catholica, III, Monasterii 1923, p. 225.