GRIMANI, Marino
Nacque a Venezia intorno al 1488 da Girolamo e da Elena Priuli. La sua formazione fu affidata a importanti umanisti come Gregorio Amaseo, M. Masuro, Girolamo Aleandro. Nel 1504 il G. fu condotto dallo zio, il cardinale Domenico, a Roma, dove fu istruito da Scipione Forteguerri, un amico di Aldo Manuzio; rimase invece senza successo il tentativo di ottenere che si impiegasse in questi compiti Erasmo da Rotterdam.
Il G. condusse con profitto gli studi e intraprese assai precocemente la carriera ecclesiastica: il 16 ag. 1508 fu eletto vescovo di Ceneda (l'attuale Vittorio Veneto), diocesi di cui il cardinale Domenico si riservava l'amministrazione e la metà delle rendite. Nello stesso anno il G. fu creato abate commendatario di S. Pietro in Colle (oggi Colle Umberto, in provincia di Treviso), ma trascorse gli anni seguenti tra Venezia e Roma, dove, fra il 1513 e il 1517, prese parte al concilio Lateranense; nel corso dell'ultima sessione, il 16 marzo 1517, lesse la costituzione apostolica Constituti iuxta verbum prophetae con la quale erano ratificati i decreti del concilio e se ne sanciva la chiusura, rallegrandosi della ristabilita pace e della fine dello scisma gallicano.
Nel gennaio precedente, il G. aveva permutato il vescovado di Ceneda (per il quale aveva dimostrato interessi limitati quasi solo agli edifici di culto) con la prestigiosa sede di Aquileia, tenuta dal cardinale Domenico Grimani: nel maggio 1517 fu a Venezia per ricevere dal Senato formale autorizzazione a prendere possesso del patriarcato. Nemmeno in quella occasione egli assunse particolari oneri di cure spirituali: del resto, solo nel dicembre 1519 presi gli ordini sacri, celebrò messa a Roma, nella cappella papale. Sembrava maggiormente occupato dalla gestione dei benefici ecclesiastici tradizionalmente in possesso dei Grimani, vigilando particolarmente su quelli nelle mani dello zio.
Il suo ruolo nella corte di Roma, nel contempo, andava crescendo: nel 1523 accompagnò l'ingresso degli oratori veneti inviati a prestare obbedienza ad Adriano VI e si distinse nelle manifestazioni in onore di questo. Nel 1524, ottenuto da Clemente VII un breve con ampie facoltà, compì una prima visita a Udine e ad Aquileia.
Il G. entrò solennemente in Udine il 31 ottobre e il giorno successivo celebrò un'affollata messa in piazza. Quindi, nella prima metà di novembre visitò Aquileia, dove ebbe modo di decretare e far pubblicare a stampa le Constitutiones ad cleri vitam reformandam.
Nel testo, del quale era prescritta affissione nelle chiese, erano contenuti diversi capitoli di riforma per il clero del patriarcato: si ordinava la residenza per chi avesse benefici di cura d'anime, si davano disposizioni per il culto, si annunciavano provvedimenti per la difesa delle proprietà ecclesiastiche. Inoltre si scoraggiavano le forme più eclettiche e ambigue di predicazione, si condannava la lettura delle opere di Martin Lutero e si obbligava chi avesse notizia della diffusione di dottrine eretiche a darne avviso al vicario del patriarca. La stessa visita, alla fine dell'autunno 1524, diede occasione al G. di sollecitare diversi lavori in monasteri femminili di Udine, di dichiarare la città metropoli della provincia ecclesiastica, di compiere un ingresso solenne anche a Cividale. Quindi trascorse in Udine il successivo carnevale, dove, secondo il cronista locale G.B. di Cergneu "fece costui fare di molti bagordi e diversi piaceri nella terra di Udine, e perciò era gratissimo a tutti" (Paschini, 1960, p. 23).
Fino al 1527 il G. rimase per lo più a Venezia, dove la sua abitazione (la casa Trevisan alla Giudecca, in affitto) fu più volte sede di sontuosi banchetti, feste e rappresentazioni teatrali (come la commedia di Ruzzante nel Carnevale 1526). Egli doveva apparire altresì coinvolto nella vita culturale: Niccolò Liburnio, che nel 1524 gli aveva dedicato il suo De copia et varietate facundiae Latinae, nel 1526 gli indirizzò Le tre fontane sopra la grammatica, et eloquenza di Dante, Petrarcha, et Boccaccio (stampate a Venezia). Il G. era nel contempo occupato dal disegno di imparentare l'unica figlia di suo fratello Marco con un membro di casa Ridolfi consanguineo di papa Medici: le trattative furono però lunghe e alla fine inconcludenti.
Piuttosto disattesi, in questo contesto, rimanevano i doveri del governo spirituale: mentre in quei mesi il G. era molto occupato in una contesa per il controllo di San Vito, signoria feudale del patriarcato di Aquileia, solo alla fine dell'estate 1525 le notizie di infiltrazioni luterane in Friuli lo obbligarono a una visita a Cividale e a Gemona, dove, fra gli altri provvedimenti, nominò il domenicano Alberto Pasquali teologo addetto alla quotidiana illustrazione della dottrina cattolica.
Furono i drammatici esiti dell'antagonismo tra papa e imperatore a guadagnare alla carriera ecclesiastica del G. un nuovo avanzamento: entrate nello Stato della Chiesa le truppe di Carlo V e minacciata la Sede apostolica, Clemente VII si decise, il 3 maggio 1527, a una creazione cardinalizia in pectore, nella quale fu compreso il Grimani. Cospicui esborsi alle casse papali erano stati promessi dai candidati alla berretta rossa e il G. affidò le procedure per onorare il debito al fratello Marco, che da qualche settimana si trovava a Roma. A causa del sacco del 6 maggio 1527 questi perse 14.000 ducati, ma riuscì comunque a renderne disponibili per Clemente VII altri 10.000, che furono defalcati dai 30.000 richiesti nel gennaio 1528. La differenza fu prontamente versata nelle casse del papa in Orvieto, dove si era da poche settimane rifugiato. Altrettanto sollecitamente giunse a Venezia il breve che creava il G. cardinale, con il titolo di S. Vitale: il 19 febbr. 1528 egli ne ringraziò con lettera il pontefice. La cerimonia ufficiale per la consegna della berretta rossa al G. si tenne a Venezia l'8 marzo 1528, in S. Marco. Per l'occasione furono indirizzati al G. diversi componimenti letterari da Michel de l'Hospital, Aurelio e Pietro Paolo Vergerio; più tardi (nel 1529) gli fu dedicata l'opera di Agostino Steuco Recognitio veteris Testamenti ad Hebraicam veritatem. Ma la creazione cardinalizia fu festeggiata anche con diversi banchetti, dati dal fratello del G., Marco: si distinse particolarmente "un festino con dieci donne de le belle di la terra" (Paschini, 1960, p. 36), che sollevò critiche per lo sfarzo esibito in una difficile congiuntura economica e politica.
Il G. non dimostrò premura di lasciare la città: sin dall'aprile 1528 chiese sussidi finanziari al capitolo di Aquileia per andare a Roma, ma il trasferimento non avvenne che alla fine dello stesso anno, quando prese residenza in una casa del Borgo vaticano. Subito dimostrò interesse per il contesto politico internazionale e nel febbraio 1529 sconsigliò l'ambasciatore di Carlo V a Roma di tentare una pace separata con il papa e Venezia, ma senza la Francia: ciò infatti, a suo giudizio, avrebbe presto provocato un'altra guerra.
Nel 1530 assistette all'incoronazione di Carlo V a Bologna e prese parte agli incontri con la delegazione imperiale. Negli stessi mesi, egli aveva ricevuto nuove responsabilità nel governo ecclesiastico, come quella di protettore dell'Ordine di S. Girolamo di Fiesole.
Erano soprattutto ancora le materie beneficiarie, però, a interessare il Grimani. Resignato nell'aprile 1529 il patriarcato di Aquileia al fratello Marco, nel gennaio 1530 egli ricevette da Clemente VII l'autorizzazione a possedere in comune con il cardinale Francesco Corner entrate ecclesiastiche fino alla somma di 5000 ducati (concessione ratificata con breve del 22 giugno 1531): si configurava una forma pressoché inedita di consorzio, che sembrava puntare al controllo delle rendite di natura spirituale dello Stato veneto. Si comprende dunque come il G. torni ad assumere di nuovo, nel dicembre 1531, la carica di amministratore del vescovado di Ceneda, per rinuncia del fratello Giovanni, sospettato peraltro di simpatie per la Riforma, lasciando a vicari la conduzione delle visite pastorali (come quelle del 1533 e del 1536).
Il G. non intendeva affatto recidere i legami con Venezia: vi risiedeva ordinariamente, tanto da essere raggiunto, nell'ottobre 1531, da una convocazione a Roma da parte di Clemente VII, e anche da Roma difese la Serenissima. Insieme con i cardinali Francesco Corner e Francesco Pisani, alla fine di febbraio 1532 cercò di esentare il clero veneto da una nuova imposizione fiscale ed ebbe successo, poiché Clemente VII, pur negando ogni formale esonero, non diede concreta attuazione nei domini veneziani alla bolla emanata. Nemmeno gli impegni politici di maggiore respiro lo tenevano lontano dalla laguna: alla fine del 1532, chiamato di nuovo da Clemente VII a Bologna per ricevere Carlo V (con il cardinale Alessandro Cesarini) e per partecipare ai negoziati con lo stesso, il G. (che dal 12 nov. 1532 aveva lasciato il titolo di S. Vitale e preso quello di S. Marcello) non rinunciò a passare la settimana del carnevale del 1533 a Venezia, accompagnato dal cardinale Niccolò Ridolfi, con la famiglia del quale ancora duravano trattative per allacciare legami di parentela.
Seguirono nuove operazioni per accrescere le rendite ecclesiastiche: nel 1533, ancora con il cardinale Corner, prese possesso del vescovado di Concordia, vacato per morte di Giovanni Argentino, chiedendo al governo di Venezia anche il godimento dei beni temporali. La Signoria tentò di opporsi, a causa dello straordinario cumulo di cariche ecclesiastiche dei membri della famiglia Grimani, persino preoccupante se si considerava che Aquileia, Ceneda e Concordia erano diocesi confinanti. Il cardinale Corner e il G., però, non si piegarono e quest'ultimo, anzi, nell'aprile 1534 ricevette anche la commenda del vescovado di Città di Castello, che mantenne fino al marzo 1539.
Morto Clemente VII (25 sett. 1534), il G. fu chiamato in conclave. Insieme con i cardinali A. Cesarini, Giovanni Salviati e N. Ridolfi diede vita a uno schieramento che in politica internazionale si professava neutrale; addirittura dagli osservatori e dai rappresentanti dell'imperatore Carlo V fu annoverato fra i candidati al soglio.
Il G. dovette efficacemente adoperarsi per la rapida elezione di Paolo III (avvenuta il 12 ott. 1534) poiché ricevette subito dal papa Farnese uno dei suoi ex benefici, la commenda del vescovado di Saint Pons de Tormières, più altre minori provvidenze, come metà delle rendite di un'abbazia a Spoleto e la commenda dell'abbazia dei Ss. Cosma e Damiano a Zara. Il G. assumeva, nel contempo, un ruolo politico di maggior peso. Nel novembre 1534, insieme con i cardinali Lorenzo Campeggi e A. Cesarini fu chiamato nella commissione incaricata di un'inchiesta su tutti gli ufficiali dello Stato della Chiesa. Quindi fu creato legato dell'Umbria.
Paolo III intendeva decisamente imporre il dominio di Roma su Perugia, tormentata dalle lotte di fazione e governata con fatica dai rappresentanti dell'autorità pontificia, e all'inizio di settembre 1535 vi si era recato personalmente; quindi, prima di tornare a Roma, in un concistoro aveva conferito dignità legatizia al Grimani. Questi si mostrò subito determinato a riprendere il controllo dell'ordine pubblico: si insediò, significativamente, nelle case dei Baglioni (antichi signori della città, ancora influenti), che fece occupare anche da un nutrito presidio armato e dal personale addetto all'amministrazione della giustizia. Proprio contro Braccio Baglioni e la sua fazione ebbe presto importanti risultati, che furono celebrati da Pietro Aretino in una lettera del gennaio 1536. Quindi, dando ferma attuazione ai provvedimenti fiscali imposti da Roma, espresse in più occasioni opposizione al tradizionale assetto del governo cittadino, dominato dal locale patriziato, promuovendo una revisione degli statuti, ordinando il sindacato degli atti del personale amministrativo in carica e giungendo persino allo scontro con le personalità più decise nella difesa dell'autonomia della Comunità (come Cornelio Oddi). Si interessò altresì di urbanistica, dando incarico del progetto per la piazza detta poi Grimana (nel sito di Pianello del Borgo), e di riforma degli ordini religiosi della città, soprattutto quelli femminili. Il G. è altresì ricordato per aver introdotto in Perugia le cerimonie ufficiali in occasione del Corpus Domini, con una processione dal duomo a S. Domenico e ritorno, cui prendevano parte tutti i magistrati e gli ufficiali cittadini.
Il G. ricoprì, nello stesso torno di anni, incarichi importanti fuori Perugia: a Venezia, attraverso colloqui con il doge, con membri del Collegio, con il Consiglio dei dieci, nel settembre 1537, cercò insieme con il nunzio G. Verallo di vincere la resistenza del governo della Serenissima affinché fosse radunato a Vicenza un concilio e riuscì a ottenere risposta positiva: così, l'8 ottobre, Paolo III emanò la bolla della convocazione dell'assemblea nella città veneta per il maggio seguente.
Durante questo soggiorno veneziano, il G., insieme con i fratelli, avviò anche un ambizioso progetto per decorare gli interni del palazzo di famiglia vicino a S. Maria Formosa: nell'esecuzione dei lavori si succedettero artisti di rilievo (come Federico Zuccari e Francesco Salviati). Infine, nell'autunno del 1537, il G. dimostrò anche l'intenzione di procedere a una visita della sua diocesi di Ceneda: probabilmente in questa occasione commissionò a Giovanni Antonio Sacchis da Pordenone o più probabilmente a Pomponio Amalteo un affresco raffigurante la Giustizia per il palazzo arcivescovile di Ceneda (nella loggia della sala del Consiglio).
L'amministrazione della diocesi di Concordia era stata ceduta, nell'aprile 1537, a Pietro Quirini, figlio diciottenne della sorella Paola; la legazione in Umbria si concluse nel marzo 1539. A questa data, il G. era già da alcuni mesi a Roma, dove si fermò sino all'estate; in giugno si recò in Friuli per affrontare le più stringenti questioni di governo delle sue diocesi, come i conflitti con le amministrazioni di Udine e Tolmezzo, sfociate nell'emanazione di censure ecclesiastiche: solo agli Udinesi, che senza autorizzazione avevano deciso la demolizione di una chiesa (S. Giovanni), fu data l'assoluzione. Non agevole fu pure la riforma del monastero femminile di S. Maria di Aquileia. In settembre il G. ricevette da Paolo III (che accompagnò in pellegrinaggio a Loreto) un breve che conferiva facoltà di procedere contro gli eretici nelle sue diocesi, anche con l'aiuto del braccio secolare. Solo alla fine del 1539 gli impegni di Curia lo richiamarono a Roma, dove il suo titolo cardinalizio era mutato in quello di S. Maria in Trastevere (motivo per cui programmò restauri a questa antica chiesa).
Nella sua abitazione si riuniva un circolo letterario cui prendevano parte Giovanni Brevio, il letterato romano Celso Bellino, Giorgio Cicchino da San Daniele in Friuli, che in una elegia ricorda gli incontri di tale "Transtiberina cohors" (Paschini, 1960, p. 86).
Il 1° genn. 1540 il G. celebrò messa nella cappella Sistina alla presenza di Paolo III. Il papa stava intraprendendo con maggiore decisione il disegno di riforma degli uffici della corte di Roma, per eliminare gli abusi più vistosi, che costituivano facili argomenti della propaganda protestante. Così, nell'agosto 1540, il G. entrò, insieme con i cardinali N. Ridolfi e G. Aleandro, nella commissione deputata alla revisione delle procedure della Cancelleria, incaricata della redazione e spedizione delle lettere apostoliche: furono sanate irregolarità soprattutto finanziarie.
Il G. si trattenne a Roma ancora per alcuni mesi: il 2 febbr. 1541 di nuovo cantò messa alla presenza del papa e il 13 marzo mutò ancora il suo titolo per prendere quello del vescovado suburbicario di Tuscolo. Poi si allontanò: nemmeno una formale convocazione (nel dicembre 1541) per assistere il pontefice nella questione del concilio lo fece rimanere a lungo presso la S. Sede.
Nel 1542 il G. visitò a più riprese i suoi governi spirituali in Friuli: in aprile si recò a San Vito al Tagliamento e nel settembre successivo a San Daniele. Quindi, nel gennaio 1543 fu nella commissione di cardinali incaricata di seguire i lavori di riforma della Curia e nel maggio seguente entrò anche in quella chiamata a decidere le sorti del concilio, riunito a Trento ma in stallo. Non sembrava comunque ricoprire ruoli di primo piano nei lavori di queste congregazioni: poche settimane dopo accompagnò a Busseto Paolo III, che doveva incontrarvi l'imperatore per trattare del contesto politico internazionale e per sottoporgli l'ipotesi di infeudare Milano ai Farnese. Il convegno non ebbe esiti di rilievo e non riuscì a distendere il clima di sospetto tra papa e imperatore, ma diede al G. l'occasione, il 24 giugno 1543, di indirizzare all'imperatore un discorso a nome del S. Collegio, con il quale esortava a concludere la pace con la Francia.
L'attività presso la corte pontificia del G. - dal settembre 1543 vescovo suburbicario di Porto - appariva ormai sempre più limitata a compiti di rappresentanza, come una nuova celebrazione della messa in presenza di Paolo III nella basilica Vaticana per l'Epifania del 1544. Di basso profilo, nonostante i gradi altisonanti, appaiono anche i successivi incarichi politici. Il 5 marzo 1544, infatti, il G. fu creato legatus Cispadanus, cioè rappresentante del pontefice a Parma e Piacenza, province settentrionali dello Stato della Chiesa, in sostituzione del cardinale Ugo Gambara. Tuttavia, in un momento in cui si stava realizzando il difficile disegno di Paolo III di alienare quegli stessi territori in favore dei Farnese, con la creazione dei Ducati emiliani, la presenza del G. non poteva avere un peso determinante. Così, entrato a Piacenza alla fine di aprile 1544, egli caratterizzò la sua azione soprattutto per atti di governo come il potenziamento delle fortificazioni della città o alcuni provvedimenti urbanistici, volti ad allargare la piazza del Duomo di Piacenza. Anche contenendo in tal modo i propri interventi, egli non riuscì a evitare una decisa avversione da parte della Comunità piacentina, che, trovandolo "homo superbissimo, et che haveva poco respeto a grandi, et picoli" (Poggiali, p. 113), ebbe presto modo di chiederne la rimozione.
Nell'agosto 1544 il G. lasciò Piacenza essendo stato nominato legato presso Francesco I per favorire la conclusione di un trattato di pace con Carlo V. La mediazione della diplomazia pontificia, però, fu rifiutata, e la pace di Crépy tra i due sovrani fu conclusa il 18 sett. 1544, poco prima dell'arrivo a Lione del G. e del cardinale Giovanni Morone, legato presso l'imperatore. Quando il G. tornò a Piacenza trovò compiuta, e dovette tollerare, un'iniziativa ufficiale del conte Giovanni Anguissola presso il pontefice a nome del governo municipale affinché egli fosse sostituito. Così, nei mesi successivi, mentre si concludevano a Roma gli atti per la creazione di Pier Luigi Farnese duca di Piacenza e Parma, egli prese spesso dimora in Parma, da dove si occupava di assicurare finanziamenti ai legati pontifici a Trento e incaricati di aprire il concilio.
Secondo le fonti più attendibili (ma non vi è accordo nella più antica storiografia), sembra che il G. non presenziò al passaggio delle consegne al nuovo sovrano nel settembre 1545, per il quale fu incaricato da Roma il vescovo di Casale Bernardino Castellari.
Il G. evitò di impegnarsi anche nei lavori della commissione cardinalizia super rebus concilii, formata nel novembre 1544, nella quale fu chiamato. Egli era prevalentemente occupato nella gestione dei propri cespiti beneficiari. Nel luglio 1544, alla morte di Marco Grimani, era rientrato in possesso del patriarcato di Aquileia per il diritto di regresso a suo tempo riservatosi. Quindi, nel gennaio 1545 ebbe indietro dal fratello Giovanni la diocesi di Ceneda, che gli aveva ceduto nel febbraio 1540. In cambio il G. gli passò il patriarcato di Aquileia, pur riservandosi il titolo patriarcale, la piena amministrazione nel temporale e nello spirituale, le rendite, il conferimento dei benefici ecclesiastici, il diritto di regresso. Infine, il 23 marzo 1545, il G. ricevette dal cardinale F. Pesaro il titolo di patriarca di Costantinopoli.
Alla fine del 1545 il G. si recò nelle sue diocesi friulane. Un serio contrasto giurisdizionale con il Senato veneziano circa Ceneda, che il cardinale governava anche in temporalibus, occupò la prima metà dell'anno seguente: il G. aveva pronunciato una sentenza e la parte si era appellata non al metropolitano di Aquileia (perché era lo stesso G.), ma a Venezia. Il Senato aveva deciso di sottrarre al G. la giurisdizione temporale su Ceneda e vi aveva inviato G. Suriano come suo rappresentante. Il G., allora, rientrò a Roma per consultarsi con il pontefice e ne ottenne l'appoggio.
Trascorse la tarda estate a Orvieto, dove morì il 28 sett. 1546 e fu provvisoriamente sepolto; trasferito a Venezia, fu tumulato in un monumento funebre (perduto) a S. Francesco della Vigna.
Del G. rimangono tre ritratti su medaglia, opere di Giovanni Cavino e di Niccolò Cavallerino della Mirandola, e uno nell'affresco della sala del Trono del palazzo arcivescovile di Udine, opera di Giambattista Tiepolo (che copiò un ritratto preesistente).
Alla morte del G. si scatenò la competizione sui suoi benefici: sono testimoniate le aperte richieste del vescovo di Spalato, Marco Cornelio, per avere metà delle entrate della locale abbazia, del vescovo di Curzola Egidio Falcetta, già uditore e vicario del G., per la successione a Ceneda, del vescovo di Sora (Eliseo Teodino Arpino) circa alcuni spogli ritenuti di sua pertinenza. Forte interesse suscitò anche la sua biblioteca: la maggior parte dei codici greci e latini furono lasciati al monastero di S. Giorgio Maggiore di Venezia, gli stampati al protonotario Giulio Grimani, suo nipote; ben prima, però, il cardinale Marcello Cervini, attivo bibliofilo, volle consultare il catalogo della biblioteca del G., che conteneva diverse rarità soprattutto nel campo degli studi biblici.
Il G. lasciò un figlio di nome Marinetto, al quale aveva riservato i frutti del castello di San Vito al Tagliamento. La sua tutela fu oggetto di contenzioso fra gli avvocati della madre, "ancora […] fresca donna" (Paschini, 1960, p. 81), Paolo III, che voleva costituire come tutori i cardinali Gian Domenico De Cupis e Giovanni Salviati, e il Senato veneto. Il G. ebbe anche due figlie: Laura ed Elena, unite per via di matrimonio a prestigiosi casati veneziani come gli Zeno e i Contarini. Andò invece al fratello Giovanni, per essere collocata in palazzo Grimani a Venezia, la maggior parte della sua ricca quadreria.
Il G. ebbe solidi interessi artistici, coltivati fin dalla giovinezza, sull'esempio dello zio, il cardinale Domenico Grimani. Aveva formato una collezione di antichità, in massima parte composta da medaglie e piccoli pezzi in marmo e bronzo e aveva raccolto pregiati arazzi. Si era inoltre procurato diversi dipinti di valore, tra cui due tavole di Leonardo (e scuola), il Cristo che porta la croce di Sebastiano dal Piombo (oggi al Prado) e "uno quadro di tavolla disegno di Raphaelo, la nostra donna trasmortita in man delle marie" (Paschini, 1958, p. 83). I due quadri di Leonardo sono descritti in un inventario del 1528: "un quadro una testa con ghirlanda di man de Lunardo Vinci. Uno quadro testa di bambocio di Lunardo Vinci" (Anderson, p. 226). L'identificazione e l'attribuzione rimangono incerte, ma sono state avanzate alcune ipotesi: la "testa di bambocio" può essere quel Cristo giovanetto la cui esecuzione fu richiesta ripetutamente da Isabella d'Este a Leonardo intorno al 1504, la "testa con ghirlanda", invece, quel piccolo quadro di ignota provenienza che mostra testa e spalle di un giovane, attribuito a Leonardo (o alla bottega), conservato attualmente alla Alos Foundation, Liechtenstein. Il G. possedeva altresì un autoritratto di Giorgione come Davide con la testa di Golia, poi registrato da Giorgio Vasari nello studiolo di Giovanni Grimani (oggi identificato con l'autoritratto a Brunswick, Herzog Anton Ulrich-Museum), e una testa di ragazzo dello stesso Giorgione, di cui sono conosciute diverse versioni.
Peculiarità della committenza del G., inoltre, fu il rapporto con il miniaturista croato Giorgio Giulio Clovio, che era stato al servizio del cardinale Domenico Grimani sin dal secondo decennio del Cinquecento, distinguendosi in disegni copia di monete, cammei e medaglie; quindi, aveva dedicato al G. un libro delle ore (identificato con lo Stuart de Rothesay Hours del British Museum, Add. Mss., 20927) e lo aveva seguito durante la legazione perugina, realizzando nuove, importanti miniature. L'opera di maggior rilievo fu l'ornato dedicato a un commentario manoscritto alle Epistole di s. Paolo: 130 fogli di pergamena, decorati con bordature iniziali e diversi tipi di figure, tra i quali spiccavano due grandi pezzi raffiguranti uno la Conversione di s. Paolo, l'altro il titolo e l'incipit del commentario decorati con un S. Paolo in chiaroscuro su oro, un medaglione col ritratto del cardinale al centro e due figure femminili rappresentanti la Fede e la Pietà. Il codice era ancora in casa Grimani alla fine del 1738 e fu successivamente acquistato da John Soane (la collocazione odierna è presso il Sir John Soane's Museum di Londra, Mss., 143); ad esso appartenevano, secondo la critica, anche due miniature di Clovio conservate al Louvre di Parigi (RF 3977, 3978), una rappresentante la Conversione del proconsole romano Sergio Paolo, l'altra le Virtù teologali.
Gli stessi commentari alle lettere di s. Paolo sono al centro di una vicenda di estremo interesse: il manoscritto del Museo Soane, che indicava il G. come autore e dava notizia di versioni precedenti ma perdute, fu pubblicato nel marzo 1542 con l'aggiunta del commento all'Epistola ai Galati e leggere modifiche a Venezia, presso i figli d'Aldo Manuzio. La dedica era addirittura indirizzata a Paolo III. Solo pochi esemplari però, tra cui uno conservato alla Biblioteca Alessandrina di Roma (W.f.22.f2), portano il nome del G. nel frontespizio (Marini Grimani Veneti, episcopi, cardinalis et patriarchae Aquileiae in epistolas Pauli, ad Romanos, et ad Galatas commentarii, in 4°, 173 cc.); tutte le altre copie conosciute circolarono, invece, con un titolo diverso (Commentarii in Epistolas Pauli ad Romanos et ad Galatas), come anonimi. Ciò causò l'inclusione negli Indici dei libri proibiti, quelli spagnoli del 1559 e del 1583 e quello romano del 1596. Quanto al contenuto, i due esemplari appaiono del tutto identici: solo nella dedica della versione senza il nome del G. compariva un'avvertenza che imputava la scelta dell'anonimato "ut lectores de his scriptis, liberius iudicare possint".
L'opera affrontava dunque il tema della giustificazione, centrale in quelle lettere di s. Paolo e cruciale nello scontro dottrinale tra la Chiesa cattolica e i teologi della Riforma, ripreso con forza dopo il fallimento dei colloqui di Ratisbona (1541). Nelle osservazioni sull'Epistola ai Romani si ribadiva che la grazia divina era stata trasmessa all'uomo "per fidem Iesu Christi in sanguine illius, sine qua impossibile est aliquem posse iustificari" (Commentarii, c. 33r), criticando decisamente la tesi che la salvezza possa ottenersi dall'osservanza di norme e attraverso le opere. E anche se ogni riferimento era limitato agli ebrei, poiché svalutata esplicitamente era solo la capacità salvifica della legge mosaica e in particolare delle "operae legis", cioè delle opere fatte in sua osservanza, si giungeva comunque a conclusioni equivoche, come quella secondo la quale la "lex vero fidei Christi" consiste "non in litera, non in cultu exteriori sed in spiritu, et veritate, in qua adoramus patrem" (ibid., c. 33v). Il commento alla lettera ai Galati, addirittura, sebbene insistesse sul carattere essenziale delle buone opere per la salvezza, affermava che per ottenere giustificazione e grazia al cospetto di Dio non servivano le esteriori norme del popolo ebraico, "sed sola utrique fides profutura est" (ibid., c. 162v). L'ambiguità è ulteriormente accresciuta dalla presenza nell'opera di chiare derivazioni pelagiane, appuntate espressamente dai consultori incaricati della formazione dell'Indice di Sisto V (del 1590). Tutti questi rilievi hanno fatto ritenere che autore non ne sia stato il G., né il domenicano Alberto Pasquali, indicato come responsabile dell'opera da alcune fonti contemporanee. Piuttosto, la paternità dei Commentarii sembra debba spettare al benedettino Isidoro Cucchi da Chiari, autore fortemente sospetto, incline a pratiche nicodemitiche, vicino al movimento dell'eretico Giorgio Siculo.
Fonti e Bibl.: Sommario del viaggio degli oratori veneti che andarono a Roma a dar l'obbedienza al nuovo papa Adriano VI. 1523, in Relazioni degli ambasciatori veneti al Senato, s. 2, III, a cura di E. Alberi, Venezia 1846, pp. 91, 107; Concilium Tridentinum, X, Epistularum pars prima, a cura di G. Buschbell Friburgi Brisgoviae 1916, ad ind.; P. Giovio, Lettere, a cura di G.G. Ferrero, Roma 1956-58, ad ind.; Nunziature di Venezia, a cura di F. Gaeta, I-II, Roma 1958-60, ad ind.; P. Pellini, Della historia di Perugia, III, Perugia 1970, pp. 576, 578 s., 584 s., 593 s., 613; C. Poggiali, Memorie storiche di Piacenza, IX, Piacenza 1761, pp. 111, 113 s., 116, 136, 138; P. Paschini, Il cardinale M. G. nella diocesi di Concordia. Episodi storici del secolo XVI, in Memorie storiche forogiuliesi, XXXVII (1941), pp. 71-88; Id., Il mecenatismo artistico del cardinale M. G., in Misc. in onore di Roberto Cessi, II, Roma 1958, pp. 79-88; Id., Il cardinale M. G. ed i prelati della sua famiglia, Roma 1960; L. Bonazzi, Storia di Perugia dalle origini al 1860, II, a cura di G. Innamorati, Città di Castello 1960, pp. 114-123; P. Simoncelli, Documenti interni alla congregazione dell'Indice. 1571-1590. Logica e ideologia dell'intervento censorio, in Annuario dell'Istituto storico italiano per l'età moderna e contemporanea, XXXV-XXXVI (1983-84), p. 199; Index des livres interdits, V, Index de l'Inquisition espagnole 1551, 1554, 1559, Sherbrooke 1984, p. 357; IX, Index de Rome 1590, 1593, 1596…, ibid. 1994, p. 542; W. McCuaig, Recensione a Index des livres interdits, in Riv. stor. italiana, IC (1987), pp. 824-826; M. Perry, Wealth, art and display: the Grimani cameos in Renaissance Venice, in Journal of the Warburg and Courtauld Institutes, LVI (1993), pp. 268-273; J. Anderson, Leonardo and Giorgione in the G. collection, in Achademia Leonardi da Vinci, VIII (1995), pp. 226 s.; G. Tomasi, La diocesi di Ceneda. Chiese e uomini dalle origini al 1586, Vittorio Veneto 1998, ad indices; E. Calvillo, Romanità and Grazia: Giulio Clovio's Pauline frontispieces for M. G., in Art Bulletin, LXXXII (2000), pp. 280-297; A. Prosperi, L'eresia del Libro grande, storia di Giorgio Siculo e della sua setta, Milano 2000, ad ind.; G. van Gulik - C. Eubel, Hierarchia catholica, III, Monasterii 1923, pp. 21, 127, 177, 184, 190, 295; Dict. d'hist. et de géogr. eccl., XXII, coll. 259-261; The Dictionary of art, XIII, p. 658.