GIUSTINIAN, Marino
Nacque a Venezia, presumibilmente nel 1491 - come si evince dal fatto che il 2 dic. 1511 estrasse la balla d'oro attestando di avere 20 anni compiuti -, da Sebastiano di Marino e dalla prima moglie Lucia Agostini di Antonio.
La famiglia aveva proficuamente coniugato le tradizioni mercantili con l'amministrazione della cosa pubblica: il nonno Marino, sposato a Cassandra di Pietro Gradenigo, ne era stato attivo rappresentante; il padre, nato prima del 1459 e morto nel 1543, figura di spicco della politica e della diplomazia, si distinse in prestigiosi incarichi fino all'elezione a procuratore di S. Marco de citra.
L'ambiente familiare favorì nel G. una solida istruzione di stampo umanistico e nel contempo lo preparò alla carriera politica, verso la quale si sentiva inclinato. Il padre, infatti, lo avvicinò agli affari di Stato e gli trasmise le sue esperienze, portandolo con sé nelle legazioni in Germania e Inghilterra, tra il 1515 e il 1519, per fargli apprendere "la cognitione di quelle cose che non bene si apprendono che con l'esperienza e con gli occhi propri" (Priuli). Fu un giovane G. già impratichito negli affari pubblici che debuttò nel 1519 con la nomina a savio agli Ordini - confermata nel 1520 e nel 1521 - mettendosi in luce per la competenza nelle questioni marittime. Dopo un breve intervallo, tra marzo e settembre 1520, il G. riprese il suo posto in tempo per contribuire al dibattito sulle rotte dei traffici della Serenissima: era contrario all'ipotesi di inviare le galee di Barbaria ad Alessandria anziché a Lisbona, ed era favorevole invece al viaggio "lungo" delle galee in Inghilterra. Nel settembre 1522 fu nominato auditor novo - allora vera magistratura itinerante - e tra marzo e dicembre del 1523 fu in Terraferma. Il G. operò con determinazione, denunciando abusi e "intacchi" che illustrò poi nella relazione a lui affidata, acquisendo fama di ottimo ministro. Fallite le nomine a oratore a Milano e a Londra, nel febbraio del 1526 il G. fu eletto avogador straordinario, magistratura autorevole sebbene in declino. Confermato in questa carica - che difese dai tentativi di soppressione, ritenendola indispensabile integrazione di quella ordinaria - nel 1527, 1539 e 1540, e in quella di avogador ordinario nel 1528, 1529 e 1536, il G. fu protagonista di interessanti casi giudiziari che lo impegnarono fino al 1532. Interruppe questa sua attività nel secondo semestre del 1526, quando fu occupato a riscattare il padre, sequestrato dal castellano di Mus, presso Como, e per pochi mesi, tra il 1528 e il 1529, quando fu nominato ispettore in campo presso le milizie in Terraferma.
Nei Diarii del Sanuto, cui dobbiamo gran parte delle notizie sul G., emergono le sue doti di rigore e di inflessibilità: nel novembre del 1529 il G. fece arrestare un genovese che, accusato di omicidio, si era rifugiato in convento, negandogli il diritto di asilo sulla base del diritto canonico, civile e della Sacra Scrittura, mostrando di padroneggiare assai bene la materia. Il patriarca Girolamo Querini, in opposizione alla Signoria fin dalla sua elezione, scomunicò il G. e il caso assunse il carattere di uno scontro giurisdizionale, inasprito due anni dopo dalla questione dell'abbazia di S. Cipriano, che coinvolgeva in un lungo contenzioso le famiglie patrizie dei Trevisan e dei Gradenigo. Il G. aveva fatto sequestrare le entrate dell'abate, e fu nuovamente scomunicato dal Querini, che ingaggiò con la Repubblica un duro confronto. I casi si risolsero poi con la mediazione della S. Sede e con ulteriore prestigio per il G., che l'8 genn. 1530 fu eletto savio di Terraferma. L'incarico cadeva in un momento assai delicato: la pace di Bologna aveva costretto la Serenissima a prendere coscienza dei propri limiti e a ripiegare su una politica di pace e di neutralità pur senza rinunciare al ruolo di grande potenza.
Il G., messo da parte l'orgoglio nutrito nel mito della Serenissima, finì per condividere la realistica politica veneziana ed entrò a far parte del gruppo dirigente della Repubblica. Tuttavia egli difese Gasparo Contarini, accusato di non aver sostenuto la neutralità veneziana rispetto alla lega voluta da Carlo V contro i Turchi e fu al suo fianco, contro il gruppo guidato da Leonardo Emo, nel favorire le trattative con Carlo V, la moderazione nei confronti del papa e la pace con i Turchi.
Il 18 luglio il G. fu eletto savio sopra le Mariegole (statuti delle arti) e supervisore dei Prezzi e dal 1° ottobre iniziò un altro semestre come savio di Terraferma, mentre si fecero più frequenti le candidature alle sedi diplomatiche più prestigiose: in occasione della visita di Alfonso duca di Ferrara, in maggio, fu affidato a lui il compito di rappresentare il governo nei colloqui politici. Il 18 apr. 1532 il G. fu eletto ambasciatore ordinario in Francia. Partito il 5 ottobre e ricevuta la commissione il 19, il giorno 25 fece tappa a Milano per assicurare al duca il sostegno di Venezia e il 27 ottobre arrivò a Torino per un rapido colloquio con i duchi di Savoia. Passato in Francia, il 10 novembre inviò da Lione il primo dispaccio rivelando di aver cercato in "segretissimi" colloqui delucidazioni sui fatti più importanti, confessando che "di questi sovrani oggi non si capisce quanto un tempo".
"Seguendo più propinquo che può" Francesco I fin dal primo incontro, il 6 dic. 1532 (il 2 dicembre aveva presentato le credenziali), reso più caloroso dal buon ricordo della precedente legazione del padre Sebastiano (1527-29), il G. si farà un dovere di penetrarne le intenzioni in densi dispacci, arricchiti da complesse analisi e dalle confidenze degli intimi del re, soprattutto della regina madre Luisa di Savoia, vera eminenza grigia della politica francese. Le stringenti necessità della politica non impedivano al G. di concedersi il piacere di divagazioni ammirate su spettacoli e feste - egli stesso era stato attivo negli anni Venti in una delle più celebri compagnie della Calza, quella degli Ortolani - o sulla scoperta di un teatro romano "più bello di quello di Verona" o di una chiesa "antichissima" che custodiva le spoglie della Laura petrarchesca. La missione, durata quaranta mesi, "consumata tutta in peregrinazioni" per seguire la corte con "incommodi danni ed eccessive spese", fu condensata dal G. nella relazione presentata agli inizi del 1536.
Alla convenzionale introduzione geografico-economico-istituzionale sul paese, con una descrizione faziosamente riduttiva di Parigi "molto ricca e tutta mercantile" ma non come Venezia ("popolata sì ma quello di Venezia è più onorevol popolo"), segue un'accurata disamina "dell'animo di questo re cristianissimo verso e contra li principi cristiani ed infedeli". "Benevolente" verso il papa, secondo il G. il re faceva professione di buon cristiano ed era "attivo" contro i luterani, che "nondimeno" si teneva amici perché nemici di Carlo V. Con Enrico VIII "ha sempre eccettuato le cose della religione" per non urtarlo; la comune inimicizia verso l'Asburgo non dissipava una certa "diffidenza" ed era pronto a lasciarlo se l'imperatore gli avesse concesso Milano. Con i Turchi Francesco I si è alleato per motivi strumentali e per tenere Carlo V "in spese" ma ne ha rimorso, vero o finto che sia. Carlo V è il vero problema di Francesco I e il possesso di Milano ne condiziona le scelte. Teme un concilio che avvicinerebbe troppo i luterani a Carlo, isolando lui. "Rispetto gran reputazione e amore" nutre per la Serenissima in ragione della sua neutralità e scenderebbe in guerra solo se avesse al suo fianco Venezia. Infine dà rapidi ma incisivi profili dei familiari: il delfino Francesco, il duca d'Orléans Enrico, "malinconico" ma più dotato del primogenito, la giovanissima nuora Caterina de' Medici, di cui dice che il re mostra di "molto amarla", con "mala sodisfazione di tutta la Francia", convinta che con quel matrimonio il papa lo avesse "gabbato".
Di nuovo a Venezia, il 12 apr. 1536 il G. fu eletto tra i Venti savi sopra leggi e statuti e in settembre di nuovo savio di Terraferma. Il 19 sett. 1537 si deliberò di inviarlo in Germania come ambasciatore straordinario presso il re dei Romani Ferdinando per ottenere da lui e dai principi tedeschi aiuti contro i Turchi.
Vi rimase tre anni, testimone attento di quanto accadeva in quelle agitate contrade, mentre le questioni politiche lasciavano sempre più spazio a quelle religiose. Delle prime riferì i positivi accordi sul transito attraverso i territori austriaci di frumenti destinati a Venezia. Con crescente preoccupazione informava, invece, la Signoria sul degrado delle pratiche religiose, dai "disordini" nelle ordinazioni sacerdotali alla comunione "sotto le due specie", lanciando l'allarme sulla possibilità di una loro propagazione nei territori della Repubblica, e sulla probabile presenza in Venezia di cellule ereticali.
Il 13 genn. 1540 il G. si unì alla delegazione veneta inviata a rendere omaggio a Carlo V e alla regina Maria, che erano giunti da Ferdinando; in marzo il G. era a Gand presso Carlo V con i colleghi Antonio Cappello e Pietro Morosini; in maggio, per la riconosciuta competenza in materia di religione, fu mandato a Spira al seguito dell'imperatore per seguire i lavori di quella Dieta, da cui dedusse la possibilità di qualche compromesso tra una parte dei protestanti e dei cattolici. In settembre il G. fu raggiunto dal suo successore Francesco Sanuto e ritornò in patria in tempo per essere eletto, il giorno 28, savio di Terraferma.
Della missione al re dei Romani, dal quale aveva accettato il cavalierato dopo aver rifiutato per opportunità quello offertogli da Francesco I, è rimasto il testo di una relazione.
Il G. parlava di Ferdinando, ma nella sua relazione lo scenario è tutto occupato dalla questione religiosa: la Riforma si era politicamente organizzata e meritava la dovuta attenzione. Secondo il G. la frattura religiosa era in quel momento l'elemento politico determinante nei rapporti europei e la questione delle indulgenze costituiva un pretesto per consentire a Lutero e ai principi tedeschi di perseguire i loro propositi. Egli offriva una lettura tutta politica degli avvenimenti religiosi: il valore e le conseguenze della diffusione della Riforma erano alimentati dalla lotta politica in Germania perché i principi tedeschi temevano che Carlo V si volesse far "signore della Germania". Era chiaro per lui il legame tra la Riforma e il disordine in Germania, precedente al fatto religioso ma da questo esasperata, inevitabile era quindi lo scontro tra cattolici e protestanti ed evidente il potere espansivo dell'eresia in tutti gli strati della popolazione. Difficile, dunque, la lotta antiereticale a causa dell'unità dei protestanti. Secondo il G. era auspicabile un concilio sulla Riforma e necessarie alcune concessioni ai protestanti (per esempio sugli "abusi" e i "riti"), non sufficiente tuttavia a risolvere i problemi politici della Germania che condizionavano il dibattito religioso: era sempre presente la paura dei due Asburgo contro cui "tutti i principi fariano una confederazione".
Il 20 genn. 1541 il G. fu designato ambasciatore presso Carlo V, succedendo ancora una volta a Francesco Contarini, il quale, avutane notizia, approvò completamente la scelta, considerando il G. la persona più adatta a quel ruolo.
Il 5 ag. 1541 il Senato ordinò al G. di recarsi a Milano per unirsi agli eminenti patrizi e al Contarini, mandati a incontrare Carlo V di passaggio a Verona, e di proseguire poi da solo con l'imperatore. In ottobre il G. seguì l'imperatore sulla costa africana e fu testimone del misero fallimento dell'impresa di Algeri da lui voluta e della "turpissima et inordinata" ritirata, come scrisse, il 10 nov. 1541, ai capi dei Dieci, dalla sua galea a Bugia di Barbaria.
Agli inizi di maggio del 1542 giunsero in Senato due dispacci datati 6 e 7 marzo, nei quali il segretario del G. comunicava la morte del suo superiore, avvenuta a Bugia di Barbaria probabilmente il 4 marzo 1542.
Nel 1518 il G. aveva sposato Bianca di Bartolomeo Lippomano, che gli diede tre figli maschi - Sebastiano (1519), Giambattista (1524) e Bartolomeo (1527) - e due femmine, Cecilia e Lucrezia.
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