BRANCACCIO, Marino
Appartenente a un'antica e nobile famiglia napoletana del sedile di Nido, nacque in data imprecisata nella prima metà del secolo XV da Francesco, detto il Fosco, signore di Laviano e di Trentola e da Roberta Brancaccio. Abbracciato il mestiere delle armi, fu tra i più fedeli servitori della corte aragonese di Napoli, entrando presto nella più intima cerchia dei gentiluomini al seguito del primogenito di re Ferdinando. Alfonso duca di Calabria. La prima notizia su di lui risale al 1463 quando il B., che ricopriva la carica di corte di ripostiere del re, fece le sue prime prove di uomo d'armi, partecipando all'assedio di Mondragone. Dopo questa data si perdono le sue tracce e il suo nome ricompare nelle fonti solo nel 1480, in occasione dello sbarco turco a Otranto che richiese l'intervento immediato delle forze napoletane. Fra i primi ad accorrere fu proprio il B., che ebbe il comando di duecento cavalli nella spedizione guidata da Alfonso duca, di Calabria. Il 5 settembre partecipò ad uno scontro presso Campi e mise in fuga gli avversari. Nel 1481, dopo la cacciata dei Turchi, fortificò Gallipoli che però cadde tre anni dopo nelle mani dei Veneziani. Il B. fu inviato allora, nel corso di questa campagna, in aiuto al marchese di Bitonto Andrea Matteo Acquaviva che difendeva Lecce. Fu incaricato di tenere Otranto e poco dopo gli riuscì di scacciare i Veneziani da Ugento. Nello stesso 1484 ebbe l'incarico, insieme al duca d'Amalfi Antonio Piccolomini, di consegnare in nome del re a Virginio Orsini la contea d'Albe e Tagliacozzo già in possesso di Fabrizio Colonna.
La sua fedeltà agli Aragonesi resistette alla dura prova della congiura dei baroni che sconvolse la vita del Regno nel 1485.
Il B. restò del tutto estraneo alla congiura e sostenne al contrario la causa del re: nel novembre del 1485, di concerto con Mosca di Rinaldo, catturò in Carinola con uno stratagemma uno dei baroni ribelli, Francesco Petrucci. Successivamente, nel dicembre, fu inviato in Puglia per assoldare balestrieri a cavallo del re. Quindi si recò da Virginio Orsini con il compito di intavolare trattative di pace con il papa. Nello stesso anno 1486 seguì il principe di Capua, Ferrandino d'Aragona, all'assedio di San Severino, roccaforte di uno dei più eminenti baroni ribelli, il principe di Salerno. Comandava la cavalleria insieme a Camillo Pandone, ma una malattia del principe di Capua fece ricadere su di lui la direzione dell'assedio del castello, che cadde il 16 luglio dopo cinquantasei giorni. Con il volgere dell'anno le forze dei ribelli si potevano considerare sgominate, cosicché anche il principe di Salerno preferì venire a patti: fu il B. che lo prese in consegna per accompagnarlo il 26 nov. 1486 nel campo del duca di Calabria. A lui il principe di Salerno doveva consegnare tutte le fortezze ancora sotto il suo controllo, ma nel corso del viaggio prese la fuga e si asserragliò nel suo castello di Salerno. Quivi lo raggiunse subito dopo il B. che lo proclamò ribelle al re, intimando ai suoi vassalli di negargli ubbidienza. Il 18 dicembre arrivò il duca di Calabria e la sua presenza indusse il principe di Salerno a ritornare all'osservanza dei patti.
Una nuova missione lo condusse ancora una volta in Puglia nella primavera del 1488 con il compito di prendere in consegna in nome del re il principato di Taranto, che il principe Federico abbandonava, con l'occasione del matrimonio con la figlia del principe di Altamura. Ritornò in Terra d'Otranto nel 1492 alla testa di trecento uomini d'armi per difendere quella regione da un nuovo temuto attacco turco, che poi però non ebbe luogo a dispetto delle informazioni giunte alla corte di Napoli.
Nel 1493 l'orizzonte diplomatico italiano si era oscurato per la conclusione di una lega antiaragonese gravida di minacciose conseguenze per il Regno di Napoli: era il preludio diplomatico della discesa italiana di Carlo VIII re di Francia. Una delle prime mosse del re di Napoli fu il tentativo di staccare il papa dalla lega e a tal fine non esitò a sacrificargli il fido alleato Virginio Orsini, in aspro contrasto con Alessandro VI per la questione delle due terre di Cerveteri e Anguillara acquistate di recente e contestategli dal papa. All'Orsini re Ferdinando fece sapere che doveva cedere Cerveteri al Borgia e contentarsi della sola Anguillara, in omaggio ai buoni rapporti tra Napoli e Roma, ma non ottenne il consenso sperato. Per indurlo a recedere dalla sua ostinata resistenza nel maggio del 1493 gli mandò il B.: la scelta era dettata dalla estrema delicatezza di quella missione, dalla quale dipendevano i futuri rapporti con Roma.
In un dispaccio ai suoi rappresentanti diplomatici permanenti in Roma il re ne sottolineò l'importanza, rilevando "el credito che dicto Marino ha con noi et sapete che è homo experto et de digne manere, né altri de nostra casa haveriamo possuto mandare più idoneo, né che più ne havesse satisfacto". Verso la metà di maggio del 1493 il B. si recò quindi a Bracciano dove risiedeva l'Orsini e il 20 dello stesso mese poté riferire a Ferdinando sul primo colloquio, registrando un completo insuccesso. L'Orsini era rimasto del tutto insensibile alle ragioni espostegli dal B., con grande dispetto del re, che in un dispaccio del 24 maggio invitò il B. a ritornare a Bracciano per tentare ancora di ridurre l'ostinato barone alla ragione. Il B. ritornò in effetti a Bracciano, ma non riuscì a lui, che operò di concerto con l'ambasciatore fiorentino Francesco Gadi, quello che non era riuscito ai suoi predecessori. Più fortunato fu un sondaggio con Adriana del Milà sui desideri ancora incofessati del papa Borgia, che mentre trattava il matrimonio del figlio Jofré con una ricca ereditiera napoletana, aveva accennato anche alla possibilità di una buona sistemazione, sempre a spese del re Ferdinando, per l'altro figlio, Giovanni duca di Gandía. Il colloquio del B. con la Milà fu molto apprezzato dal re, ma il contenuto di esso non ci è purtroppo tramandato dai documenti. Il fallimento della missione a Bracciano non fu dovuto certamente a difetto del Brancaccio. Lo dichiarò lo stesso re in un dispaccio a Luigi de Paladinis l'11 giugno ("ultimamente per mezo de messer Marino Brancacio non havimo obmissa cosa che sia stata possebile a pensare non che ad operare, et licet da altri forsi non ce è creduto, perché non hanno cossi nota la duricia et obstinatione del signor Virginio"). Tanta ostinazione indusse Ferdinando a giocare un'ultima carta: l'invio a Bracciano del suo secondogenito, il principe Federico. Il B. restò a Roma con gli altri diplomatici napoletani per assistere il principe nel difficile negoziato, diretto più ad intimidire il papa Borgia per staccarlo dalla lega antiaragonese che a convincere l'Orsini.
Nel luglio, dopo l'arrivo di Federico a Ostia, il B. rientrò a Napoli dove non mancò di prospettare al re la gravità della situazione internazionale che maturava decisamente in direzione opposta agli interessi napoletani. Ferdinando scrisse al figlio il 10 luglio, con un ottimismo assai mal fondato, che non gli pareva "che le cose siano da tenerse per cossi desperate, como pare che messer Marino dica". L'accordo con l'Orsini fu raggiunto in effetti di lì a poco e la posizione napoletana sembrò migliorare. Restava ancora di far leva sul dissidio del papa con il cardinale Giuliano Della Rovere per arrivare a quel definitivo riavvicinamento con la corte di Roma che Ferdinando perseguiva tenacemente. Nell'ottobre del 1493 il re aveva deciso di mandare di nuovo il B. a Roma per trattare la riconciliazione del Della Rovere con il papa, ma la missione fu sospesa per l'intervento di fatti nuovi che consigliarono un nuovo viaggio del principe Federico in luogo di quello del Brancaccio.
L'atteggiamento di Carlo VIII si era scoperto nel frattempo assai minaccioso nei confronti degli Aragonesi di Napoli, né l'accordo raggiunto con Roma garantiva la necessaria sicurezza. La diplomazia napoletana s'impegnò quindi nel tentativo di stringere una lega antifrancese con le potenze italiane e in questo quadro il B. doveva recarsi a Milano alla corte di Ludovico il Moro con la scusa delle prossime nozze di Bianca Maria Sforza con Massimiliano. L'obiettivo specificamente napoletano della politica francese si era però ormai rivelato in tutta evidenza e tanto bastò per indurre i potentati italiani ad abbandonare gli Aragonesi al loro destino, nella speranza di evitare pericolose ripercussioni. Il Moro così colse l'occasione di una dichiarazione del papa, che accennò all'affanno della diplomazia napoletana per sventare la minaccia francese, per notificare alla corte reale il suo dispetto e chiedere l'annullamento della missione del Brancaccio. Egli fu fermato quindi nel corso del viaggio, a Roma, dove il 15 dicembre ricevette istruzioni di recarsi, invece che a Milano, a Firenze alla corte di Piero de' Medici. A lui doveva riferire del comportamento del Moro e chiedere consiglio e aiuto circa l'imminente discesa francese in Italia. Al ritorno dalla sua missione fiorentina il B. trovò il re già morto (25 genn. 1494). L'ascesa al trono del primogenito, Alfonso, al quale egli era legato da antica amicizia, lasciava credere al perdurare delle sue fortune, ma non fu così. Il 1º marzo il B. prestò al nuovo re il giuramento di fedeltà in rappresentanza del seggio di Nido, ma nel giugno fu dichiarato ribelle e privato delle terre di Noia e Salandra che gli furono confiscate. Le ragioni di tanta disgrazia non sono note, si sa invece che dovette ritornare presto nella grazia del re, visto che il suo nome ricorre nell'atto di abdicazione del 23 genn. 1495 e nel testamento del 27 gennaio di Alfonso II. Con il re Federico che gli successe, il B., ormai vecchio, ebbe buoni rapporti. Nel settembre del 1496 risulta infatti al suo seguito a Gaeta come capitano e consigliere. La morte lo colse di lì a poco nel 1497.
Il B. nel corso della sua lunga carriera al servizio della corte aragonese ricoprì numerose cariche: fu governatore di Terra di Bari e Terra d'Otranto nel 1481-82, 1487-88, 1490 e 1492, maestro razionale della zecca per la piazza di Nido nel 1485, 1487, 1492, 1495-96, sindaco di Napoli nel parlamento del marzo 1494. Nel 1482 prestò al re mille ducati, ottenendo la carica di governatore e castellano di Noia e Triggiano con il titolo di conte, confiscate al ribelle Angliberto Del Balzo duca di Nardò. Da Ferdinando ebbe nel 1496 le terre di Laterza e Montefredano e da Federico nel 1497 Accadia in cambio di Salandra e poi la conferma della contea di Noia, di Montefredano e di settecento ducati sui fuochi e sali della contea di Noia.
Aveva sposato Violante Tamulla signora di Nusco e di San Giorgio e figlia di Giovan Cola conte di Sant'angelo. Dopo la morte di questa, passò in seconde nozze con Ilaria di Gianvilla che gli sopravvisse. Lasciò erede la figlia Geronima e il nipote Giovanni Bernardino Azzia. Ebbe educazione cavalleresca ed amò i dotti e i letterati. Il Pontano, del quale fu amico ed estimatore, lo ricordò nel De prudentia come gran mangiatore, facondo e piacevole conversatore. Masuccio Salernitano gli dedicò la novella ventitreesima del suo Novellino.
Fonti eBibl.: G. G. Pontano, De prudentia, Neapoli s.d., l. V; G. Albini, De gestis Regum Neapolitanorum ab Aragonia... libri quattuor, in Raccolta di tutti i più rinomati scrittori dell'istoria generale..., V, Napoli 1769, pp. 53, 70; Lettere istruzioni ed altre memorie dei re Aragonesi..., ibidem, Napoli 1769, pp. 90, 102 s., 146; Codice aragonese o sia lettere regie,ordinamenti ed altri atti governativi de sovrani aragonesi in Napoli, a cura di F. Trinchera, II, Napoli 1868, ad Indicem;M. Sanuto, Diarii, I, Venezia 1879, coll. 332, 341; Lettres de Rome de Bartolomeo de Bracciano à Virginio Orsini (1489-1494), in Mélanges d'archéologie et d'histoire, XXXIII (1913), p. 326; Regis Ferdinandi Primi instructionum liber, a cura di L. Volpicella, Napoli 1916, ad Indicem;Masuccio Salernitano, Il Novellino, a cura di A. Mauro, Bari 1940, p. 198; La dinastia Aragonese di Napoli e la casa de' Medici di Firenze, a cura di E. Pontieri, in Arch. stor. per le prov. napol., LXVI (1941), p. 246; Epistolario di Bernardo Dovizi da Bibbiena, I (1490-1513), a cura di G. L. Moncallero, Firenze 1955, pp. 44, 48, 212; Una cronaca napoletana figurata del Quattrocento, a cura di R. Filangieri, Napoli 1956, pp. 35 s., 39, 46;P. Negri, Studi sulla crisi italiana alla fine del secolo XV, in Arch. stor. lomb., L (1923), pp. 82 s., 101 s.; LI (1924), pp. 91 s., 106, 109, 116, 136.