Marino Berengo
Marino Berengo è stato uno dei più autorevoli storici italiani della seconda metà del 20° secolo. Lo hanno contraddistinto il lavoro diretto e continuo sulle fonti, l’ampiezza degli interessi di ricerca, dalla città medievale e rinascimentale alla storia dell’agricoltura e dell’agronomia, dalla Venezia settecentesca alla Milano ottocentesca e all’organizzazione della cultura nell’Italia unita, l’efficacia e la capacità evocativa della scrittura. Altri tratti caratterizzanti della sua figura di uomo e di studioso sono stati la strenua dedizione all’attività didattica e il forte impegno politico e civile.
Nato a Venezia l’8 dicembre 1928 dal discendente di un’antica famiglia veneziana e da madre ebrea ferrarese (con cui condivise un periodo di isolamento per sfuggire alle persecuzioni razziali), fu colpito al termine del liceo classico da una grave forma di tubercolosi, che lo costrinse a trascorrere quasi tre anni in un sanatorio e lasciò tracce pesanti sulle sue condizioni di salute. Si iscrisse quindi alla facoltà di Lettere dell’Università di Padova, ma di qui si trasferì poi a Firenze per seguire le lezioni di Delio Cantimori. Nel penetrante profilo che ne scrisse dopo la sua scomparsa, Berengo ricorda di avergli proposto per la tesi di laurea «un piano di lavoro sul giansenismo veneto e sul Pujati», ma di essersi dovuto «agilmente spostare verso i giacobini ed il diffondersi delle idee democratiche» (La ricerca storica di Delio Cantimori, 1967, p. 930). Da questa tesi, discussa nel 1953 e successivamente rielaborata, uscirà la sua prima grande monografia, La società veneta alla fine del Settecento (1956). Nel frattempo era stato ammesso ai corsi di perfezionamento della Scuola Normale Superiore di Pisa, durante i quali ottenne una borsa di scambio per un anno di studio a Zurigo. Un altro anno Berengo trascorse a Napoli presso l’Istituto italiano di studi storici, dove ebbe come maestro Federico Chabod.
Nel 1958 Berengo entrò per concorso nella carriera direttiva degli archivi di Stato e per cinque anni si dedicò al lavoro di inventariazione dei fondi e di assistenza agli studiosi nell’Archivio di Venezia, portando avanti contemporaneamente i suoi studi che si tradussero in un’importante edizione di testi (Giornali veneziani del Settecento, 1962) e in due nuove monografie, L’agricoltura veneta dalla caduta della Repubblica all’Unità (1963) e Nobili e mercanti nella Lucca del Cinquecento (edizione provvisoria 1962). Nel 1963 venne chiamato come vincitore di concorso alla cattedra di storia moderna nella facoltà di Lettere e filosofia dell’Università di Milano. Qui fu assorbito per undici anni da un’intensissima attività didattica, complicata dal difficile problema del rapporto con il movimento studentesco, di cui godeva la stima come «docente democratico», ma di cui non condivideva le posizioni più estreme né la deriva stalinista. Al periodo milanese appartiene il grande progetto, purtroppo fallito, dell’Atlante storico italiano, cui Berengo insieme con Lucio Gambi dedicò molte energie (Problemi e ricerche per l’Atlante storico italiano dell’età moderna, a cura di M. Berengo, 1971).
Nel 1974 si trasferì all’Università di Venezia, dove trovò un ambiente più tranquillo e dove, pur essendo per oltre vent’anni «la guida e l’anima del Dipartimento di studi storici e in seguito del dottorato in Storia sociale europea» (Folin 2010, p. 11), poté tornare a dedicare maggior tempo agli studi. Riuscì così a completare l’ampia ricerca avviata a Milano (Intellettuali e librai nella Milano della Restaurazione, 1980) e mise in cantiere, a metà degli anni Settanta, un’altra grande opera destinata a impegnarlo fino alla vigilia della morte, L’Europa delle città (1999).
Eletto consigliere comunale come indipendente nelle liste del Partito comunista italiano (PCI), prestò a lungo la sua opera nel settore della cultura e delle biblioteche. Nel 1988 venne nominato accademico dei Lincei. Colpito da un ictus durante un soggiorno in Inghilterra, si spense dopo lunghe sofferenze il 3 agosto 2000.
La formazione culturale e la visione della storia di Berengo devono essere dedotte essenzialmente dalla sua concreta attività di storico, giacché pochi studiosi sono stati come lui refrattari alle discussioni di teoria, di metodo o anche di storia della storiografia. In due sole occasioni egli si lasciò indurre a cimentarsi in quest’ultimo campo, quando fu invitato a tenere una relazione, nel 1967, al primo congresso nazionale organizzato dalla Società degli storici italiani (Il Cinquecento, 1970) e quando poco dopo scrisse per una rivista americana un saggio sulla Italian historical scholarship since the fascist era (1971). In questa breve rassegna (quindici pagine in tutto) Benedetto Croce e Antonio Gramsci ottengono oltre una pagina ciascuno, e a queste due influenze si può forse ricondurre per larga parte la formazione intellettuale del giovane Berengo; ma è significativo che prevalgano nettamente le citazioni di storici nati intorno al 1900, «che cominciarono ad avere un ruolo negli anni Venti e Trenta del nostro secolo», quali Chabod, Giorgio Falco, Adolfo Omodeo, Gaetano Salvemini, lo stesso Cantimori, rispetto a quelli attivi nel secondo dopoguerra, per la maggior parte orientati in senso marxista e gramsciano e ai quali Berengo si sentiva politicamente vicino, pur restando fedele agli ideali del Partito d’azione.
Più che la questione abbastanza astratta del tasso di marxismo (o di gramscismo) presente nell’opera storiografica di Berengo, sulla quale pareri diversi ebbero a esprimere studiosi a lui vicini come Pasquale Villani e Franco Venturi, giovano a inquadrarne l’opera le considerazioni recenti di Roberto Pertici, che si ricollega a Cantimori, circa la ripresa nella storiografia italiana del dopoguerra, e specificamente in quella ‘di sinistra’, di impostazioni e orientamenti propri della cultura erudita tra Otto e Novecento:
Non è infatti difficile individuare, nell’insieme dell’opera storiografica di Berengo, un originale ricupero di metodi, procedure e atteggiamenti della storiografia del “metodo storico”, innestati in un progetto di storia sociale e istituzionale, nel quale resta sempre assai viva la lezione della scuola “economico-giuridica” e del suo marxismo aperto ed empirico, insomma di quella tradizione di studi che Antonio Anzilotti aveva chiamato di “storiografia realistica” (Pertici 2004, p. 12).
Non può sfuggire ai lettori di Berengo l’ammirazione da lui sempre manifestata per esponenti della ‘scuola storica’ nella letteratura, come Alessandro D’Ancona e Francesco Novati, o per storici del diritto come Nino Tamassia o dell’economia come Gino Luzzatto, che gli fu prodigo di incitamenti e di consigli nella sua vecchiaia, come appare dal bellissimo profilo dedicatogli dall’allievo. E merita di essere citato questo suo ricordo degli anni pisani quanto agli stimoli che si possono trarre da altre discipline:
Nei loro seminari Giorgio Pasquali, Delio Cantimori, Augusto Campana […] hanno insegnato forse ancor di più a cultori di altre discipline che non a futuri specialisti di filologia classica, di storia moderna o di paleografia (Intellettuali e centri di cultura nell’Ottocento italiano,1975, ora in Id., Cultura e istituzioni nell’Ottocento italiano, 2004, pp. 145-46).
È abbastanza agevole enucleare dalle circa 150 pubblicazioni di Berengo, scaglionate in quarantacinque anni tra il 1954 e il 1999, alcuni filoni dominanti. Nel primo decennio di questa produzione è centrale l’interesse per la storia veneta, anche se sappiamo che fin dalla metà degli anni Cinquanta egli lavorava alla sua monografia su Lucca, della quale si dirà più avanti. Dopo l’ampio saggio del 1954 su Problemi economico-sociali della Dalmazia veneta alla fine del Settecento, il lavoro che lo impose all’attenzione del mondo accademico fu, come si è detto, la Società veneta. Manca nel libro un’analisi dall’interno della costituzione veneziana, e del patriziato che ne era il pilastro e che era il detentore esclusivo dei diritti politici (alla definizione del patriziato e alla sua distinzione dalla nobiltà saranno peraltro dedicati alcuni importanti lavori della maturità): ma il mito settecentesco (e duro a morire anche in seguito) della perfezione di quegli ordinamenti esce distrutto, più che ridimensionato, dalle sue pagine, dove a più riprese si sottolineano l’incapacità di autoriformarsi della classe dirigente veneziana e la sua estraneità sostanziale alle correnti più avanzate dell’Illuminismo, oggetto al massimo di curiosità e di intrattenimento. Lo sguardo dell’autore si rivolge di preferenza non alla Dominante, ma alle province della Terraferma: ai caratteri delle amministrazioni locali, ai ceti borghesi e popolari, ai rapporti di produzione nelle campagne e alla dura vita dei contadini, ai loro bilanci alimentari, alle «rustiche insurrezioni» che si infittiscono con il peggiorare delle condizioni economiche nel tardo Settecento, alla vita culturale e agli ambienti ecclesiastici, per soffermarsi solo alla fine sulla diffusione delle idee rivoluzionarie. È rimasto celebre il giudizio che di questa opera prima diede Cantimori, in una lettera a «Movimento operaio» dell’autunno 1956:
Il Berengo ci ha dato il lavoro che più si avvicina al mio ideale di lavoro storico, scientificamente serio, dalla tematica complessa, autonomo nell’impostazione dei problemi, dall’orizzonte ampio (storia della cultura e storia economica, questioni politiche e strutture giuridico-amministrative ecc.; e non per sentito dire, ma per documenti d’archivio letti e intesi nel quadro generale; critica della storiografia calata nel lavoro stesso, e non estrinseca e polemica ecc.), condotto per reale intelligenza storica […] E se c’è fra i trentenni uno studioso originale e indipendente, alieno da chiese e scuolette o sette e chiesuole, alienissimo da teorizzazioni, tutto calato nelle cose, come si diceva una volta, è proprio il Berengo (cit. in Ventura 2001, pp. 346 e sgg., dove il giudizio cantimoriano è opportunamente contestualizzato).
Non tutte le parti del volume hanno resistito in uguale misura all’usura del tempo: piuttosto esile, come fu rilevato già allora da Walter Binni e Venturi, e come ebbe ad ammettere l’autore stesso, è il capitolo sulla vita culturale; e come hanno osservato tra gli altri Giuseppe Del Torre e Piero Del Negro, il quadro della classe dirigente veneziana e del suo immobilismo è dipinto a tinte troppo fosche. Ma nell’insieme quel giudizio cantimoriano appare nella sostanza valido ancora oggi, a distanza di oltre mezzo secolo.
L’interesse per la storia veneta, all’origine anche dell’importante lavoro su “La via dei Grigioni” e la politica riformatrice austriaca (1958), che comportò ampie ricerche negli archivi svizzeri, valtellinesi e viennesi, rimase prevalente come si è detto fino agli inizi degli anni Sessanta, quando comparvero l’antologia sui giornali veneziani e la monografia sull’agricoltura veneta nell’età della Restaurazione. Su questi due lavori non possiamo qui soffermarci se non per dire che il primo riempie in gran parte le lacune rimaste nel capitolo sulla vita culturale de La società veneta; mentre il secondo inaugura nella produzione di Berengo un filone di storia dell’agricoltura e dell’agronomia che, pur senza sfociare in un lavoro di sintesi, darà ancora frutti cospicui nel bellissimo capitolo sul contado lucchese, nella rassegna A proposito di proprietà fondiaria (1970), nella splendida edizione critica del Ricordo d’agricoltura (1975) di Camillo Tarello, nei corposi profili degli agronomi cinquecenteschi Africo Clementi (1981) e Francesco Tommasi (1980). Siamo, con Tarello e Clementi, ancora in ambito veneto, e alla storia veneta del Quattro e del Cinquecento ci riportano anche la vivacissima ricostruzione dei contrasti in materia ecclesiastica tra Padova e Venezia alla vigilia di Lepanto (1974) e l’ampio saggio su Il governo veneziano a Ravenna (1986).
Già con il volume sull’agricoltura, e più avanti con le ricerche sulla comunità ebraica e sull’editoria a Venezia nel periodo austriaco, Berengo rendeva manifesto un altro suo interesse di lunga durata, maturato questo soprattutto durante il soggiorno milanese: ossia l’interesse per l’Italia del primo Ottocento e, in particolare, per quella che gramscianamente viene definita nel titolo stesso di un saggio del 1986 L’organizzazione della cultura nell’età della Restaurazione. Se dell’arte della stampa nella laguna egli si era occupato in un saggio del 1957 (La crisi dell’arte della stampa veneziana: fine secolo XVIII), a Milano fu attratto invece dalla rapida ascesa di questo centro, a partire dal periodo napoleonico, a capitale editoriale e culturale d’Italia. Fin dal 9 febbraio 1963, prima ancora di trasferirvisi, scriveva a Cantimori:
Appena finita Lucca, cioè spero ai primi di marzo, vorrei mettere in cantiere il lavoro che rimugino da qualche anno. L’organizzazione culturale e la politica culturale austriaca nel Lombardo-Veneto (cit. in Pertici 2004, p. 10);
ma già due anni dopo l’orizzonte si era ristretto dal Lombardo-Veneto a Milano, come risulta da un’altra lettera al suo maestro in cui il titolo del futuro libro è formulato come Autori ed editori nella Milano della Restaurazione (cit. in Pertici 2004, p. 31), chiara anticipazione del titolo definitivo che sarà Intellettuali e librai.
Al centro dell’indagine, la nascente industria editoriale, ricostruita con il massiccio ricorso alle fonti notarili (atti societari, contratti, testamenti) e alla documentazione relativa alla censura e agli studi, oltreché con lo spoglio capillare di carteggi editi e inediti, memorie, pubblicazioni di ogni genere. Ma accanto alle figure degli editori-librai, talune delle quali si imprimono nella memoria, come per es. Nicolò Bettoni, Anton Fortunato Stella o Vincenzo Ferrario, gli altri protagonisti del libro sono i letterati, spesso ex funzionari o anche militari napoleonici che, smobilitati dal governo austriaco dopo il 1814, sono costretti a vivere «con due soldi di penna d’oca» fornendo ai primi la mano d’opera intellettuale di cui hanno bisogno. Di questo rapporto tra «intellettuali e librai» Berengo approfondisce tutti gli aspetti: dalla stentata crescita di un mercato per quel prodotto sui generis che è il libro alla mancanza di una salvaguardia del diritto d’autore (almeno fino alla convenzione del 1840 che mise al bando la «pirateria letteraria», salvo che nel Regno di Napoli); dall’affermazione di nuovi generi come le «strenne» alla produzione di libricini devozionali, immagini religiose e almanacchi popolari smerciati dagli ambulanti e dai cosiddetti «banchettisti»; dagli affanni e dalle miserie del lavoro giornalistico alla battaglia quotidiana di stampatori e autori contro la censura.
La tesi di un’assoluta incompatibilità degli intellettuali attivi in Lombardia con il governo austriaco, estesa da Berengo all’intera penisola nel saggio del 1986 L’organizzazione della cultura (Pertici 2004, p. 49), appare meno convincente, come ha osservato Marco Meriggi (in Tra Venezia e l’Europa, 2003, pp. 135-36) alla luce del saggio su Cesare Cantù scrittore autobiografico (1970) e di altri profili dedicati a personaggi minori del mondo letterario milanese e veneziano. Intellettuali e librai rimane tuttavia un modello ineguagliato di storia sociale della cultura, che fa dell’autore «uno dei fondatori della storia del libro italiana» (Infelise 2012, p. 15), un vivacissimo spaccato delle condizioni materiali di esistenza e di lavoro di due categorie destinate a giocare un ruolo di primo piano anche dopo l’unificazione del Paese. Una vivacità e una capacità di comprensione e di evocazione che ritroviamo nei saggi dedicati da Berengo alla vita culturale postunitaria: alla genesi del «Giornale storico della letteratura italiana», alla fondazione della Scuola superiore di commercio a Venezia e alle vicende della Scuola Normale nell’età della Destra (Le origini del «Giornale storico della letteratura italiana», 1970; La fondazione della Scuola superiore di commercio di Venezia, 1989; La rifondazione della Scuola Normale nell’età della Destra, 1988, tutti ora in M. Berengo, Cultura e istituzioni nell’Ottocento italiano, 2004).
È indubbio tuttavia che gli ultimi venticinque anni dell’attività di Berengo come storico furono dominati dal tema della città tra Medio Evo e prima età moderna, già al centro della sua opera più fortunata, Nobili e mercanti nella Lucca del Cinquecento (1965). In sei densi capitoli, e attingendo a una molteplicità di fonti, tra le quali sono in primo piano gli atti notarili, Berengo dipinge un quadro sfaccettato e ricchissimo delle istituzioni, della stratificazione sociale e della vita pubblica e privata di una piccola città-Stato nell’ultimo periodo delle guerre d’Italia, tra 1520 e 1560.
Fin dalle prime pagine si fa innanzi al lettore il «pacifico et populare Stato», alla cui conservazione sono diretti tutti gli sforzi del governo cittadino, e le cui componenti sono la prosperità economica assicurata dalla produzione serica e da un’estesa rete di traffici e di attività creditizie, il «governo largo» caratterizzato da una relativa apertura a diversi ceti e da una rapida rotazione delle cariche, la riconosciuta egemonia economico-sociale di poche decine di ricche famiglie mercantili (di cui sono esaminati dall’interno le strategie e gli stili di vita), un orientamento filoimperiale in politica estera, volto a contrastare le mire espansionistiche di Cosimo I duca di Firenze, il controllo del contado, diviso fra le Sei Miglia più direttamente soggette all’influenza urbana e le vicarie. Superate le tensioni determinate dal tentativo della potente schiatta dei Poggi di impadronirsi del potere (1521) e dal moto dei cosiddetti Straccioni, i tessitori colpiti dalla crisi del setificio (1531), vengono in primo piano, a partire dal 1542, le preoccupazioni suscitate dal diffondersi in città delle dottrine luterane e calviniste, a opera dei membri di alcuni ordini religiosi (agostiniani, canonici lateranensi) e di ‘eretici’ giunti dall’esterno, come Pietro Martire Vermigli e Aonio Paleario. Il ritorno alla ‘pace’ religiosa, con l’espulsione o l’esilio volontario delle persone più compromesse e l’imposizione dell’ortodossia tridentina, coincide nel tempo con l’aristocratizzazione della società lucchese (o meglio del ceto di governo, che si appropria di una ‘coscienza nobiliare’ un tempo estranea all’ethos mercantile) e con un declino economico che andrà aggravandosi nel secolo successivo. L’«immediato, continuo misurarsi con le fonti», la struttura narrativa, il gusto e «il piacere dell’evocazione», l’attenzione dedicata a tematiche che solo in seguito sarebbero divenute d’attualità nella storiografia (la famiglia, l’ideologia nobiliare, la varietà e vitalità del mondo rurale) sono le qualità che che fanno «della Lucca berenghiana un modello difficilmente ripetibile, e di fatto non più riproposto dalla storiografia sulla città fino a oggi» (Fasano Guarini 1998, pp. 10-14).
Nella relazione del 1967 sulla storiografia cinquecentesca la vicenda lucchese assurge a paradigma della crisi della libertà italiana, che si identifica per Berengo con il «declino di quella civiltà urbana in cui le forme repubblicane di governo più avevan avuto presa» (Il Cinquecento, 1970, p. 485). Pur larga di riconoscimenti nei confronti di autori di diversa ispirazione, la rassegna si chiude con una riaffermazione di questa tesi centrale:
La brusca sconfitta di quella civiltà, che non ebbe per contropartita la formazione di Stati solidi nelle loro strutture amministrative e giudiziarie, ma si espresse nel trionfante particolarismo dei corpi, nella pigra custodia di privilegi nuovi e antichi, in un’egemonia nobiliare condannata a un precoce invecchiamento dal cessare d’ogni competizione e d’ogni alternativa di ricambio, apre quella che fu la più certa e la più lunga età di decadenza nella storia dell’Italia moderna (Il Cinquecento, cit., p. 246).
Neppure in seguito, di fronte alla diffusione nella storiografia italiana degli anni Settanta e Ottanta del Novecento di orientamenti che ponevano al centro della scena i processi di statualizzazione e di disciplinamento sociale e ridimensionavano, quando non negavano in radice, l’idea stessa di decadenza, Berengo si ricrederà, come dimostra il suo intervento su Stato moderno e corpi intermedi del 1994 (ora in Città italiana e città europea, 2010, pp. 250-55). Scriveva Berengo nell’introduzione alla terza edizione di Nobili e mercanti:
Merita qui ricordare che da questo libro ne è nato un altro tuttora inedito, ma cui lavoro dall’ormai remoto 1974, sulla civiltà cittadina nell’Europa d’antico regime, dalla formazione cioè dei comuni sino alla guerra dei Trent’anni (1999, p. 3).
Sono qui indicati alcuni caratteri fondamentali della grande opera che stava per vedere la luce, L’Europa delle città (1999). In primo luogo, l’allargamento degli orizzonti dall’Italia del Rinascimento a cinque secoli di storia europea, già evidente nel saggio del 1974 (La città di antico regime) a cui probabilmente lo storico veneziano lega l’inizio delle sue ricerche. Altrettanto importante è l’indicazione dell’oggetto dell’indagine, «la civiltà cittadina» e non la forma urbis cara a una storiografica urbana largamente diffusa anche in Italia a partire dagli anni Settanta e legata soprattutto alle facoltà di architettura: «più una storia dei cittadini che non della città», come l’autore stesso preciserà nella Prefazione, sottraendosi una volta ancora (lo aveva già fatto nell’Intervista sulla città medievale a Roberto Lopez pubblicata nel 1984, accogliendone la formula di «città come stato d’animo») all’esigenza di una definizione della città. Da questa impostazione discende direttamente la periodizzazione adottata, giacché parte essenziale della civiltà cittadina, così come Berengo la intende, è la partecipazione alla vita della polis, il ruolo politico, in senso etimologico, che i centri urbani tendono a perdere con l’accentramento dei poteri nello Stato moderno: non per nulla sono ricordate come eventi simbolicamente periodizzanti le contemporanee insurrezioni, alla metà del 17° sec., delle tre più grandi metropoli europee, Londra, Parigi e Napoli.
Implicita in queste scelte è infine la decisione di mettere da parte la tematica della decadenza e di privilegiare un approccio strutturale e comparativo al fenomeno urbano, l’unico possibile data la vastità dell’argomento. Tuttavia
il genere di comparazione coltivato da Berengo non aveva nulla a che fare con la costruzione di modelli teorici, astratti dall’‘immediatezza’ e dalle ‘oscillazioni’ delle concrete dinamiche storiche, ma mirava soprattutto a fare l’inventario dell’‘infinita gamma’ dei modi in cui la quotidiana frequentazione degli uomini nelle città delle varie epoche e nazioni avesse prodotto diverse forme di convivenza (Folin 2010, p. 55).
Berengo ricorre spesso alla metafora del viaggiatore, del viandante che si sposta di luogo in luogo e rileva quanto di peculiare c’è da vedere in ciascuno. Così
all’apertura del paragrafo possiamo trovarci indifferentemente nella Parigi di Enrico IV o nella Firenze di Corso Donati, per essere poi fulmineamente trasportati in qualche affollata università anglicana, o in un campo trincerato di Federico Barbarossa, o nel ghetto di Venezia (Chittolini 1999, pp. 109-10; cfr. Corazzol 2006, pp. 119-22).
Tale procedimento poggia su una sterminata messe di notizie e di dati messi insieme non con il ricorso a opere generali (non sono mai citati lavori classici come quelli di Lewis Mumford, Roger Mols, Fernand Braudel, Paul Bairoch, Jan de Vries, Paul Marcel Hohenberg e Lynn Hollen Lees), ma con lo spoglio sistematico delle fonti a stampa e degli studi: questi ultimi «sono per lo più ricerche di storici locali, universitari o liberi studiosi, membri di società di storia patria, spesso archivisti: di quegli archivisti – scrive l’autore nell’introduzione testimoniando la sua non interrotta fedeltà al loro mondo – “che spesso hanno saputo trasmetterci la forza e la vita che sentivano circolare nei documenti di cui sono stati amorosi ordinatori e custodi” […]. In certo qual modo Berengo li decostruisce, per trarne le informazioni che contengono; se ne serve come di un materiale da riuso per costruire il proprio edificio» (Fasano Guarini, in «Società e storia», 2001, p. 320; cfr. Brambilla 2001, pp. 338-39).
L’elenco finale delle opere citate occupa ben 76 pagine e comprende quasi 2000 titoli, a testimonianza di un lavoro condotto per decenni senza risparmio di tempo e di energie che lo impegnò, un’estate dopo l’altra a partire dal 1973, in lunghi soggiorni nelle biblioteche di Londra, di Cambridge o di Princeton.
Nei 14 capitoli dell’opera, che si estendono per quasi 900 pagine, sfilano davanti ai nostri occhi le città capitali e le città suddite, i contadi e le strutture politiche e amministrative, le diverse classi e categorie sociali (patriziato e nobiltà, professioni dotte, artigiani riuniti nelle corporazioni e descritti al lavoro nelle loro botteghe, poveri e marginali, minoranze etniche e religiose), il clero secolare e regolare, cui è dedicata la parte finale del volume, oltre un quarto del totale. La demografia non è oggetto di una trattazione a sé stante, ma dati sulla popolazione e sulla consistenza dei diversi ceti e gruppi sono sparsi in tutta l’opera, e in genere l’approccio quantitativo, benché mai fine a se stesso, non è assente dalla prospettiva di Berengo. Così pure le forme della produzione, il funzionamento del mercato, la distribuzione e la circolazione della ricchezza sono considerati più per i loro riflessi sugli assetti politici e sociali delle città che per il loro significato nel quadro più vasto dell’economia nazionale o internazionale. L’effetto complessivo, come molti hanno notato, è quello di un grande affresco, difficile da padroneggiare in un solo sguardo e non esente da qualche squilibrio interno (va ricordato che l’autore non fece in tempo a dare l’ultima mano a quest’opera), intessuto da un numero infinito di fili che si intrecciano a formare scene e scorci sempre nuovi di vita urbana.
Se si volesse riassumere in una frase il senso complessivo dell’opera storiografica di Berengo, si potrebbe ricorrere all’affermazione conclusiva del già citato profilo di Luzzatto, lo storico forse più vicino al suo modo di sentire tra quanti egli riconosceva come maestri:
In questo programma, proposto agli altri ed a se stesso, si esprimeva poi quella sua fiduciosa simpatia per l’opera dell’uomo, per l’animarsi dei traffici, delle città, delle idee, delle forme del potere politico; per quella insomma che egli sentiva come l’unica storia meritevole di essere studiata (Profilo di Gino Luzzatto, cit., p. 925).
Questa passione civile, che lo rese nemico di ogni angusto specialismo e di ogni rigida partizione accademica, è stata sempre al centro così del suo lavoro scientifico come del suo insegnamento, che ha segnato in profondità quanti hanno avuto la fortuna di avervi accesso: memorabili sono rimasti i suoi seminari sulle fonti, dedicati ad anni alterni alle biblioteche e agli archivi. Pochi docenti hanno formato tanti allievi che sono rimasti a contatto con il lavoro storico nelle università, nelle scuole, nelle istituzioni culturali: sono ben trentatré, e sarebbero potuti essere assai di più, i contributi a un volume di scritti in suo onore, rigorosamente limitato agli allievi diretti (Per Marino Berengo. Studi degli allievi, 2000). Anche così Berengo ha contribuito a mantenere vivo un «senso alto del ‘mestiere’, che accomuna l’autore con altri illustri storici di un più lungo passato» (Fasano Guarini, in «Società e storia», 2001, 92, p. 326).
Problemi economico-sociali della Dalmazia veneta alla fine del ’700, «Rivista storica italiana», 1954, 66, pp. 469-510.
La società veneta alla fine del Settecento. Ricerche storiche, Firenze 1956.
La crisi dell’arte della stampa veneziana: fine secolo XVIII, in Studi in onore di Armando Sapori, 2° vol., Milano 1957, pp. 1310-38.
“La via dei Grigioni” e la politica riformatrice austriaca, in «Archivio storico lombardo», 1958, 85, pp. 5-111.
L’agricoltura veneta dalla caduta della Repubblica all’Unità, Milano 1963.
Profilo di Gino Luzzatto, «Rivista storica italiana», 1964, 76, pp. 879-923.
Nobili e mercanti nella Lucca del Cinquecento, Torino 1965, 1974, 1999 (terza ed. con Introduzione, pp. 1-8).
La ricerca storica di Delio Cantimori, «Rivista storica italiana», 1967, 79, pp. 902-43.
A proposito di proprietà fondiaria, «Rivista storica italiana», 1970, 82, pp. 121-47.
Cesare Cantù scrittore autobiografico, «Rivista storica italiana», 1970, 82, pp. 714-35.
Il Cinquecento, in La storiografia italiana degli ultimi vent’anni, Milano 1970, pp. 487-501.
Le origini del «Giornale storico della letteratura italiana», in Critica e storia letteraria. Studi offerti a Mario Fubini, Padova 1970, pp. 3-26.
Italian historical scholarship since the Fascist era, «Daedalus», 1971, 100, pp. 469-84.
Problemi e ricerche per l’Atlante storico italiano dell’età moderna, Atti del Convegno di Gargnano (27-29 settembre 1968), a cura di M. Berengo, Firenze 1971.
Gli ebrei veneti nelle inchieste austriache della Restaurazione, «Michael», 1972, 1, pp. 9-37.
La città di antico regime, «Quaderni storici», 1974, 27, pp. 661-92.
Padova e Venezia alla vigilia di Lepanto, in Tra Latino e volgare. Per Carlo Dionisotti, 1° vol., Padova 1974, pp. 27-65.
Intellettuali e centri di cultura nell’Ottocento italiano, «Rivista storica italiana», 1975, 87, pp. 132-66.
Patriziato e nobiltà: il caso veronese, «Rivista storica italiana», 1975, 87, pp. 493-557
Intellettuali e organizzazione della cultura nell’età della Restaurazione, in La restaurazione in Italia. Strutture e ideologie, Atti del XLVII Congresso di storia del Risorgimento italiano, Cosenza (15-19 settembre 1974), Roma 1976, pp. 297-307.
Girolamo Tartarotti, in La letteratura italiana: storia e testi, 44° vol., Dal Muratori al Cesarotti , t. 5, Politici ed economisti del primo Settecento, Milano-Napoli 1978, pp. 318-90.
Intellettuali e librai nella Milano della Restaurazione, Torino 1980, Milano 2012.
Un agronomo toscano del Cinquecento. Francesco Tommasi di Colle Val d’Elsa, in Studi di storia medievale e moderna per Ernesto Sestan, Firenze 1980, pp. 495-518.
Africo Clementi agronomo padovano del Cinquecento, in Miscellanea Augusto Campana, Padova 1981, pp. 27-69.
Intervista sulla città medievale, a cura di R.S. Lopez,Roma-Bari 1984.
La capitale nell’Europa di antico regime, in Le città capitali, a cura di C. De Seta, Roma-Bari 1985, pp. 3-15.
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La rifondazione della Scuola Normale nell’età della Destra, in «Annuario della Scuola Normale Superiore di Pisa», 1988, 6, VI, pp. 33-57.
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Editoria e tipografia nella Venezia della Restaurazione. Gli esordi di Giuseppe Antonelli, in Studi politici in onore di Luigi Firpo, a cura di S. Rota Ghibaudi, F. Barcia, 3° vol., Milano 1990, pp. 357-79.
Il Veneto della Restaurazione nelle prime inchieste austriache, in L’Europa tra illuminismo e Restaurazione. Scritti in onore di Furio Diaz, a cura di P. Alatri, Roma 1993, pp. 335-50.
Stato moderno e corpi intermedi, «Annali dell’Istituto storico-italo-germanico in Trento», 1994, 20, pp. 233-37.
Appunti sulla polizia austro-veneta agli inizi della Restaurazione, in Ricerche di storia in onore di Franco Della Peruta, Milano 1996, 1° vol., pp. 136-46.
L’Europa delle città. Il volto della società urbana europea tra Medioevo ed età moderna, Torino 1999.
Cultura e istituzioni nell’Ottocento italiano, a cura di R. Pertici, Bologna 2004.
Città italiana e città europea, a cura di M. Folin, Reggio Emilia 2010.
Per i trent’anni di “Nobili e mercanti nella Lucca del Cinquecento”, Atti della Giornata di studi in onore di Marino Berengo, Lucca (21 ottobre 1995), Lucca 1998 (in partic. G. Chittolini, Il contado e la città, pp. 73-93; C. Donati, Nobiltà e coscienza nobiliare nell’Italia del Cinquecento, pp. 51-72; E. Fasano Guarini, “Nobili e mercanti nella Lucca del Cinquecento” trent’anni dopo, pp. 9-21; A.K. Isaacs, Le città repubblicane, pp. 23-40).
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A. Ventura, Marino Berengo: classi dirigenti e riforma sociale, «Contemporanea», 2001, 4, pp. 346-51.
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A. Ventura, Ricordo di Marino Berengo, «Atti dell’Istituto Veneto di scienze, lettere ed arti», 2001-2002, 160, pp. 121-33.
Tra Venezia e l’Europa. Gli itinerari di uno storico del Novecento: Marino Berengo, a cura di G. Del Torre, Atti delle Giornate di studio su Marino Berengo storico, Venezia (17-18 gennaio 2002), Padova 2003 (in partic. M. Ambrosoli, Campagne, agricoltura e agronomia negli studi di Marino Berengo, pp. 109-26; C. Capra, Marino Berengo professore: gli anni milanesi, pp. 191-99; G. Chittolini, Il tema della città, pp. 57-89; G. Del Torre, Marino Berengo e la storia veneta, pp. 169-80; Bibliografia di Marino Berengo, a cura di G. Del Torre, pp. 233-45; C. Donati, Nobiltà e patriziati nell’itinerario di ricerca di Marino Berengo, pp. 45-56; M. Meriggi, Lo storico della Restaurazione, pp. 127-39; G. Miccoli, Clero, istituzioni ecclesiastiche e vita civile nell’opera di Marino Berengo, pp. 91-108; G. Ricuperati, Marino Berengo e il Settecento, pp. 19-43; C. Salvini, Marino Berengo archivista, pp. 201-21; C. Vivanti, Gli ebrei veneti nell’età dell’emancipazione, pp. 141-53).
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