CARACCIOLO, Marino Ascanio
Come Marino Ascanio è citato negli atti concistoriali utilizzati dall'Eubel, mentre in quasi tutte le altre fonti è usato soltanto il primo prenome: è possibile che si aggiungesse il secondo in omaggio al suo primo protettore, Ascanio Sforza. Nacque a Napoli nel 1469 da Domizio, signore di Ruodi, che ricoprì varie importanti cariche nell'amministrazione aragonese, tra le quali quella di governatore di Calabria, e da Martuscella di Lippo Caracciolo, appartenente ad un ramo collaterale della famiglia paterna. Nel 1482 entrò in qualità di paggio al servizio del protonotario apostolico Ascanio Sforza, quando l'eminente prelato milanese, in seguito ai contrasti politici intervenuti con Ludovico il Moro, era confinato a Napoli, ospite della sorella Ippolita, moglie di Alfonso d'Aragona. Nel 1484, creato lo Sforza cardinale, il C. seguì il suo protettore alla corte romana, assistendolo in qualità di segretario durante la rapida ascesa politica che ne fece uno dei principali personaggi dei pontificati di Innocenzo VIII e di Alessandro VI.
Fu questa una grande esperienza per il C., che a fianco del suo protettore poté seguire sempre da vicino l'evolversi della aggressiva politica di papa Cybo verso il Regno di Napoli e poi le vicende tanto più drammatiche del pontificato borgiano: una scuola di abilità e di spregiudicatezza senza confronti nel panorama pur tanto mosso e ricco della politica rinascimentale; su questa esperienza - e sulla sicura conoscenza acquisita a partire da questo periodo delle vicende e degli orientamenti delle varie corti italiane ed europee - il C. costruì le sue future fortune di diplomatico.
Durante la prima crisi dei rapporti tra Ascanio Sforza ed Alessandro VI, nel giugno del 1494, il C. lasciò Roma con il cardinale, per farvi ritorno nel dicembre, quando lo Sforza tentò di indurre il papa ad uscire dalla sua ambigua posizione di neutralità per favorire apertamente l'impresa di Carlo VIII, ed Alessandro VI replicò facendo imprigionare il potente porporato. Rimasto presso lo Sforza, liberato dal trionfale ingresso in Roma del re di Francia, nel gennaio del 1495, il C. assistette al vano tentativo del cardinale di convincere Carlo VIII a ritornare al suo vecchio proposito di convocare un concilio per la riforma della Chiesa e - cosa che tanto di più premeva al cardinale - per deporre il Borgia. Con il rifiuto del re e la susseguente alleanza franco-pontificia, i rapporti ormai precari di Carlo VIII con lo Sforza divenivano di esplicita rottura ed il C. dovette abbandonare Roma insieme con il suo protettore, ritirandosi a Napoli.
Una sua lettera dalla città natale al marchese di Mantova Francesco II Gonzaga, successiva all'occupazione di Napoli da parte dei Francesi, è il primo documento dei legami che ormai il C. andava personalmente allacciando con le corti italiane; essa testimonia anche, per la prima volta, un atteggiamento che si ripeterà poi nella finale esperienza di governo del C. e ne sarà anzi un carattere tipico e singolare, nel dominante cinismo dei tempi: l'appassionata partecipazione alle sofferenze delle popolazioni angariate dalle soldatesche e la deprecazione per l'incapacità dei capi militari a porre un freno alle violenze (A. Segre, Lodovico Sforza detto il Moro e la Repubblica di Venezia dall'autunno 1494 alla primavera 1495, pubblicato in Archivio storico lombardo, XXX [1903], 2, Appendice, p. 364).Il C. tornò a Roma di lì a poco, quando l'adesione dello Stato ecclesiastico alla lega stretta dai signori italiani contro Carlo VIII rese possibile un riavvicinamento tra il papa e il cardinale Ascanio. È probabile che il C. divenisse in questo periodo cavaliere dell'Ordine gerosolimitano, titolo di cui si fregiava alcuni anni più tardi. Rotti nuovamente i rapporti tra il papa ed Ascanio Sforza nel 1499, a causa del sostegno dato da Alessandro VI alla politica italiana di Luigi XII, il C. seguì il cardinale a Milano e quindi, allorché la città fu direttamente minacciata dall'esercito francese di Gian Giacomo Trivulzio, la abbandonò con lui, seguendolo nelle sue peregrinazioni alla corte imperiale e poi presso gli Svizzeri, alla ricerca di aiuti militari per una restaurazione sforzesca nel ducato milanese. A Milano il C. tornò con Ascanio Sforza il 3 febbr. 1500, quando la rivolta del partito ghibellino e la notizia dell'arrivo di Ludovico il Moro con il suo esercito di Svizzeri costrinsero i Francesi ad abbandonare la città.
Fuggito da Milano dopo la cattura del Moro a Novara, il C. fu fatto prigioniero il 10 apr. 1500, insieme ad Ascanio Sforza, dai Veneziani, seguendo poi il cardinale in Francia quando la Repubblica lo consegnò a Luigi XII. Il C. rimase fedelmente al fianco del suo protettore durante il periodo trascorso da questo in prigionia nella torre di Bourges, sino alla sua liberazione, avvenuta nel gennaio del 1502 per l'intervento del cardinale d'Amboise.
Dalla Francia il C. fece ritorno a Roma nel settembre del 1503, al seguito dei cardinali Sforza e d'Amboise che vi si recavano per prendere parte al conclave seguito alla morte di Alessandro VI, dal quale parve per un momento che lo stesso Sforza dovesse riuscire eletto. Nel 1505, poco dopo la morte di Ascanio Sforza, avvenuta nel maggio di quell'anno, il C. fu creato da Giulio II abate commendatario di S. Maria di Teneto, a Reggio Emilia: probabilmente il papa aveva conosciuto il C. durante le intense discussioni tenute con lo Sforza per una politica pontificia tendente alla esclusione dei Francesi da Milano, e intese con questo beneficio compensarlo della morte del suo potente protettore.
Per parecchi anni non si hanno più notizie del Caracciolo. Quando i documenti tornano a parlare di lui al principio del 1513, egli aveva il titolo di protonotario apostolico (erroneamente il Pastor, e sulla sua scorta altri biografi del C., ritengono che esso gli fosse attribuito da Leone X): pare quindi probabile che durante il pontificato di Giulio II il C. vivesse alla corte romana, esercitando qualche modesta carica curiale.
Fu Gerolamo Morone, la cui influenza era in crescente aumento dopo la restaurazione della dinastia sforzesca nel ducato di Milano, a trarre il C. dall'oscurità degli anni precedenti; al principio del 1511 infatti, il Morone - che forse aveva conosciuto il C. a Roma dieci anni prima, quando si era recato a rendere omaggio in nome di Milano al neoeletto Giulio II - lo propose con grandi attestazioni di stima al Senato milanese quale oratore al papa, in sostituzione dell'arcivescovo di Bari Gian Giacomo Castiglione, gravemente malato.
Compito del C. era di far presente al pontefice i timori del governo milanese per una nuova offensiva dei Francesi contro il ducato, e di chiedere pertanto che il Della Rovere si facesse promotore di energiche iniziative diplomatiche e militari per garantire l'equilibrio politico stabilitosi dopo la battaglia di Ravenna. La morte del papa, il 21 febbr. del 1513, impedì che il C. ottenesse quanto a Milano si desiderava; del resto Massimiliano Sforza provvedeva per suo conto a turbare l'equilibrio con l'occupazione giuridicamente immotivata e politicamente assai poco proficua di Parma e Piacenza. Il C. veniva pertanto incaricato dal duca di ottenere che il Collegio cardinalizio, responsabile della politica ecclesiastica durante il periodo di sede vacante, tollerasse l'improvvida iniziativa.
L'elezione di Leone X, l'11 marzo, veniva tuttavia a cambiare nuovamente il segno delle attività diplomatiche del Caracciolo. Ben presto, infatti, si rivelò del tutto fuor di luogo l'entusiasmo col quale il C. aveva salutato, in una lettera ad Isabella d'Este del 13 marzo, l'elevazione del Medici.
"Abbiamo alfine uno bono et prudente pontifice - scriveva il C. - dal quale veramente se ha da aspectare omne quiete et felicità". Ed aggiungeva che il nuovo papa appariva fermamente deciso a stabilire le cose de l'illustrissimo signor duca (A. Luzio, Isabella d'Este ne' primordi del papato di Leone X e il suo viaggio a Roma nel 1514-15, in Arch. stor. lomb., XXXIII [1906], 2, p. 108). Un giudizio, questo, che Leone X non tardò a smentire, poiché non soltanto replicò alle pressioni del C. per il riconoscimento dell'annessione di Parma e Piacenza, facendo chiaramente intendere la sua intenzione di attribuirne la signoria al fratello Giuliano de' Medici, ma soprattutto deluse le aspettative milanesi di una partecipazione ecclesiastica alla lega antifrancese, dichiarando sin dall'inizio del pontificato di non voler prendere alcuna iniziativa ostile contro Luigi XII, e smentendo così la politica del suo predecessore che sola aveva potuto garantire la restaurazione sforzesca a Milano.
L'atteggiamento del papa fece rapidamente precipitare la situazione nel senso più sfavorevole al duca Massimiliano, accelerando le trattative tra la Repubblica di Venezia e Luigi XII per una nuova alleanza ai danni dello Stato milanese. L'invio a Roma del Morone da parte del Senato milanese, con l'incarico di affiancare il C. nel tentativo di persuadere il pontefice a capeggiare una nuova coalizione antifrancese, denunciava lo stato di estrema preoccupazione del duca, costretto a consentire che quell'estremo tentativo di salvataggio diplomatico fosse affidato proprio all'antico partigiano dei Francesi.
In proposito Massimiliano si confidava con il C., riconoscendo che nella scelta del Morone il Senato aveva, "omesso qualche rispecto, che poria haverne facto fare altra electione". Perciò raccomandava al C., nel quale evidentemente era ben maggiore la sua fiducia, di fare attenzione "alle opere et andamenti soi", senza tuttavia che il Morone potesse rendersi conto "che si habij diffidentia de luij" (Documenti che concernono la vita pubblica di Girolamo Morone, p. 27).
In realtà la missione congiunta del C. e del Morone ottenne il miglior risultato possibile: il papa, infatti, usciva dal suo tentativo di ostentata neutralità per promuovere contro Luigi XII la lega con Enrico VIII, l'imperatore Massimiliano e Ferdinando il Cattolico. Ancora una volta, del resto, più che a questo poderoso schieramento, il ducato milanese dovette la sua salvezza all'intervento degli Svizzeri: ma l'illusione che l'autonomia del ducato riposasse soprattutto sulla protezione delle grandi potenze europee avverse alla Francia continuava tenace; perciò, dopo i drammatici avvenimenti che portarono dapprima i Francesi a Milano, costringendoli poi a ritornare al di là delle Alpi per la sconfitta inflitta loro dagli Svizzeri a Novara il 5 giugno 1513, il C., tornato a Milano il Morone, riprese trattative con il papa per una lega generale dei principi italiani contro una nuova offensiva dei Francesi.
Le trattative, per le quali erano stati attribuiti al C. larghissimi poteri, si condussero al dilatato ritmo consentito dalle caratteristiche incertezze della politica di Leone X, per di più aggravate dalle pretese su Parma e Piacenza alle quali Massimiliano Sforza non si decideva a rinunziare. Le pressioni del C. sul papa ottennero quindi soddisfazione soltanto nella primavera del 1515, quando le notizie di Francia davano ormai come imminente l'inizio delle ostilità da parte del nuovo re Francesco I: un risultato tardivo e inutile, peraltro, poiché i collegati non riuscirono ad evitare la disfatta dell'esercito svizzero-sforzesco a Marignano e la nuova occupazione francese del ducato.
Ancora per qualche tempo il C. rimase al servizio del detronizzato duca Massimiliano, intervenendo in suo nome al concilio lateranense per rivendicare i diritti sforzeschi sullo Stato milanese. Entrò quindi al servizio della diplomazia pontificia. La stima di cui egli godeva ormai presso Leone X appare evidente dalla sua designazione, sin dal 27 febbr. 1517 (ma la sua partenza avvenne, a quanto pare, solo nel marzo 1518), a succedere a Lorenzo Campeggi nella carica di nunzio presso l'imperatore Massimiliano.
Suo compito principale, ereditato dal Campeggi, era di indurre l'imperatore ad una nuova iniziativa militare contro il Turco. Poiché la corrispondenza diplomatica e privata del C. di questo periodo è andata quasi completamente perduta, non è possibile stabilire nei particolari l'andamento dei suoi colloqui con Massimiliano. Del resto egli fu ben presto scavalcato dall'arrivo in Germania, nel luglio del 1519, del cardinale Tommaso de Vio - il cardinal Caetano - incaricato di trattare con i principi tedeschi, riuniti nella Dieta di Augusta. gli aspetti finanziari della crociata e soprattutto di rassicurarli sull'effettivo impiego nell'impresa contro il Turco delle somme raccolte, cosa sulla quale ormai gli Stati tedeschi erano largamente scettici. Pare che nella divisione dei compiti con il de Vio spettasse in particolare al C. - anche lui partecipante alla Dieta - di convincere l'imperatore a lasciare l'amministrazione dei denari raccolti per la crociata agli stessi Stati tedeschi, provvedimento questo che indubbiamente avrebbe potuto diminuire la diffidenza che ormai accoglieva in Germania ogni iniziativa e proposta finanziaria del pontificato mediceo. Ma la soluzione non incontrò il favore di Massimiliano, troppo direttamente interessato ad una amministrazione centralizzata delle decime e delle altre sottoscrizioni dei principi tedeschi.
Il risultato pertanto fu una rovinosa dilazione dei preparativi finanziari e quindi militari: nel settembre il C. e il de Vio dovevano scrivere assieme a Leone X per comunicargli la nuova offensiva intrapresa dai Turchi in Ungheria, la minaccia che ormai gravava su Belgrado e l'impreparazione dell'Impero a fronteggiare il gravissimo pericolo.
Meno urgente, seppure non meno importante, appariva la questione della successione imperiale, agitata alla Dieta contemporaneamente a quella della crociata. Già il 7 agosto la maggioranza degli elettori si era esplicitamente impegnata con Massimiliano ad eleggere il nipote Carlo, re di Spagna: una grave sconfitta per la diplomazia pontificia, poiché su poche questioni gli orientamenti politici di Leone X erano così nettamente definiti come in quella dell'elezione imperiale.
Il papa considerava infatti come la più grande iattura per lo Stato ecclesiastico la congiunzione in un solo principe della corona imperiale e di quella di Napoli, che secondo una veduta tradizionale a Roma avrebbe gravemente minato l'autonomia dello Stato ecclesiastico e la stessa supremazia spirituale dei papi. Fu pertanto compito del C. e del de Vio tentare di dissuadere gli elettori dal loro impegno, rammentando come nella bolla dell'investitura del Regno di Napoli fatta da Giulio II a Ferdinando il Cattolico fosse irrevocabilmente fissata l'incompatibilità tra i due titoli. Le proteste dei diplomatici pontifici si rinnovarono instancabilmente nei mesi successivi, cercando di trarre partito anche dalla netta opposizione al progetto asburgico sollevata dall'elettore Federico di Sassonia, il quale a sua volta faceva riferimento al divieto posto dalla bolla d'oro alle candidature straniere.
In ogni modo la questione successoria, in effetti ancora non compromessa dagli impegni degli elettori, rimaneva nettamente subordinata nelle preoccupazioni dei legati a quella della guerra contro il Turco. Nello scorcio del 1518 il C. ed il de Vio si prodigarono infatti soprattutto in questa direzione, per rilanciare le trattative con i principi e con l'imperatore fermatesi al punto morto della questione finanziaria. Ma la morte di Massimiliano d'Asburgo, il 12 genn. 1519, riportò drammaticamente in primo piano il problema della successione.
Quanta importanza Leone X attribuisse alla scelta del nuovo imperatore, apparve evidente anche dal moltiplicarsi dei suoi rappresentanti in Germania: accanto al de Vio ed al C. (il quale peraltro pare che facesse un breve ritorno in Italia subito dopo la morte di Massimiliano), venne infatti designato nel marzo 1519 anche il vescovo di Reggio Roberto Latino Orsini, quale nunzio presso i principi elettori. È in realtà assai difficile distinguere ed isolare i contributi di ciascuno dei tre diplomatici pontifici agli estenuanti ed infine inutili tentativi per evitare l'elezione dell'Asburgo. Al C. risale comunque il tentativo di indurre il principale esponente del partito asburgico, l'arcivescovo di Magonza, a modificare il proprio atteggiamento in favore di Francesco I.
Non trova riscontro nelle fonti, invece, la notizia di un suo tardo biografo cinquecentesco, raccolta dal Caracciolo di Torchiarolo, secondo la quale il re di Francia avrebbe offerto al C. la vistosa cifra di 300.000 scudi, tramite il Langeac, inviato ftancese a Venezia, per assicurarsene lo zelo. Se pure vera la notizia, l'offerta del re di Francia non poté comunque impedire che il C. prendesse atto della generale ostilità dei Tedeschi alla candidatura di Francesco I, ripiegando con i suoi due compagni sul disperato tentativo di contrapporre a Carlo l'elettore di Sassonia.
Nominato nunzio presso il nuovo imperatore ai primi del gennaio 1520, il C. raggiunse Carlo V a Gand il 5 agosto seguente. Incaricato di trattare i normali affari politici, il C. fu ancora una volta affiancato da un nunzio con compiti speciali, in questa occasione Girolamo Aleandro, incaricato di pubblicare in Germania la bolla Exurge Domine.
In effetti l'intesa tra i due nunzi fu esemplare: l'Aleandro tenne fede alle istruzioni di Leone X, secondo le quali il C. doveva essere pienamente informato delle iniziative e dei risultati conseguiti dal nunzio straordinario, ed il C. collaborò con l'Aleandro in tutti i momenti della difficile missione. In occasione dell'incoronazione di Carlo V ad Aquisgrana, nell'ottobre del 1520, il C. condusse insieme all'Aleandro i colloqui con i vescovi elettori di Magonza, Colonia e Treviri, i quali dichiararono la loro completa dedizione al papa. Ma già a Colonia, nel novembre, l'elettore del Palatinato oppose ai due nunzi notevoli difficoltà all'esecuzione della bolla pontificia; e Federico di Sassonia, seguendo i consigli di Erasmo, rivendicò a Lutero il diritto di essere ascoltato in una pubblica discussione.Fu certo un pesante errore dei due inviati pontifici quello di ritenere che la proposta dilatoria dell'elettore di Sassonia non avesse uno speciale signicato, e che anzi Federico si lasciasse da loro "in certo qual modo persuadere", come scriveva a Roma l'Aleandro anche a nome del suo compagno (Pastor, IV, 1, p. 272). Si arrivò così, sulla base di questa iniziale compromissione dei nunzi, alla pubblica discussione del problema luterano nella Dieta imperiale di Worms: una conclusione che il C. e l'Aleandro tentarono invano di scongiurare, proclamando l'incompetenza delle autorità politiche dell'Impero a giudicare in materia religiosa. E così pure non si poté impedire la pubblica difesa di Lutero, il 18 apr. 1521, che costituì il clamoroso manifesto della rivolta tedesca, di fronte al quale la dichiarazione di ortodossia cattolica di Carlo V, il giorno successivo, solo apparentemente sembrava concludere a favore dei nunzi quella fase della contesa.
Rispetto all'Aleandro il C. mantenne durante la Dieta una posizione assai meno evidente, determinata in realtà soltanto dalla differenza delle rispettive attribuzioni: non pare infatti che il C. avesse nei riguardi del problema luterano un atteggiamento sostanzialmente diverso da quello troppo rigido ed in definitiva ottusamente incomprensivo del nunzio straordinario. Una indiretta conferma dell'identità dell'atteggiamento, che escludeva qualunque apertura verso possibilità e prospettive di incontro e di conciliazione con i dissidenti, veniva dalle analoghe accuse ed invettive rivolte dagli esponenti luterani contro i due inviati di Roma: Ulrich von Hutten, per esempio, non risparmiò al C. la solita accusa di aver partecipato al traffico delle indulgenze e di tutte le dispense e concessioni che cadevano sotto la giurisdizione della nunziatura, nonché quella di un contegno personale indecoroso, ben lontano dall'osservanza delle regole dell'astinenza; ma soprattutto il focoso polemista luterano imputava al nunzio napoletano di esercitare una influenza corruttrice su Carlo V, traviando i giudizi di "un imperatore eccellente, ma giovane e facilmente inducibile in errore" (Paquier, p. 220).
Il 31 maggio 1521, dopo la pubblicazione dell'editto imperiale contro Lutero ed il rogo pubblico degli scritti di lui, il C. abbandonò Worms assieme a Carlo V, seguendolo nelle Fiandre. I Problemi politici ritornavano in primo piano: l'antica ostilità di Leone X contro Carlo di Asburgo, espressa così nettamente durante le vicende dell'elezione imperiale, cedeva ora di fronte all'ortodossia ed alla fermezza dell'imperatore sul problema tedesco; e d'altra parte l'amicizia del papa Medici con Francesco I era fortemente incrinata dalla ostentata protezione di quest'ultimo verso Ferrara. Si arrivava così all'alleanza antifrancese tra l'imperatore ed il papa. Tra gli impegni della lega, quello della restaurazione di Francesco Sforza a Milano: secondo il Sanuto, il C., antico servitore della dinastia milanese, avrebbe avuto un ruolo essenziale nelle trattative intercorse a questo proposito.
In rappresentanza di Leone X il C. prese parte nei mesi seguenti, mentre la guerra tra, Francesi e Imperiali seguiva ormai il suo corso, alle trattative condotte a Calais ed a Bruges dal cancelliere imperiale Mercurino da Gattinara con il cardinale Thomas Wolsey, che si conclusero il 24 nov. 1521 con l'adesione dell'Inghilterra alla lega antifrancese. Tornato Carlo V in Spagna, il C. lo seguì, rimanendo confermato nella sua carica di nunzio apostolico anche dal nuovo papa Adriano VI.
Tale carica egli mantenne ufficialmente sino alla morte di Adriano: in realtà la sua posizione alla corte imperiale andò progressivamente sfumando in quella del consigliere e dell'esecutore delle direttive di Carlo V: un'evoluzione che gli stretti legami personali tra il pontefice fiammingo e l'imperatore certamente facilitarono, ma che si dovette soprattutto al deciso accostamento finale di Adriano VI alla politica del suo antico pupillo, dopo l'iniziale, sfortunato tentativo di equidistanza tra la Francia e l'Impero. E infatti, quando nella primavera del 1523 Adriano VI riuscì finalmente a penetrare, al di là delle subdole arti della diplomazia francese e del cardinale Soderini, le intenzioni aggressive di Francesco I, e cominciò a delinearsi la partecipazione del papa alla grande lega antifrancese, la decisione di Carlo V di inviare proprio il nunzio apostolico a Venezia, per trattare l'adesione della Repubblica alla nuova alleanza, ebbe il chiaro significato dell'avvenuta identificazione tra la politica papale e quella imperiale.
Il C. giunse a Venezia il 16 giugno 1523 e condusse con abilità e con felice esito le trattative che indussero la Signoria a denunziare l'alleanza con la Francia e ad aderire, il 29 luglio ed il 3 agosto, alla lega con l'imperatore, il papa, il duca di Milano e l'arciduca Ferdinando d'Austria. Così, con la morte di Adriano VI, nel settembre di quello stesso anno, il passaggio del C. al servizio imperiale avveniva con tutta naturalezza.
Il C. aveva lasciato Venezia subito dopo la felice conclusione della sua missione, per un breve soggiorno a Roma ed a Napoli. Nel novembre era nuovamente a Roma, presso Clemente VII, esplicitamente in veste di rappresentante imperiale, e faceva pressioni sul pontefice, orientato verso un tentativo di armistizio tra le potenze, perché mantenesse gli impegni diplomatici assunti da Adriano VI. Il 18 genn. 1524 Carlo V ottenne dal papa che il C. fosse nominato vescovo di Catania: in realtà il C. non vide mai la sua diocesi, della quale lasciò l'amministrazione dapprima al fratello Scipione e poi al nipote Ludovico Caracciolo. Subito dopo il C. veniva designato da Carlo V alla carica di oratore imperiale presso il duca di Milano Francesco II Sforza.
L'attività del C. nel corso della campagna di Lombardia del 1524 fu particolarmente intensa: spettò a lui infatti di mantenere i contatti tra Francesco Sforza ed i capi dell'esercito imperiale, il viceré di Napoli Carlo di Lannoy ed il marchese di Pescara, intervenendo nelle stesse discussioni militari in nome delle esigenze politiche della sua missione, e ancora più spesso in difesa della popolazione civile. Del suo assiduo prodigarsi in queste circostanze fu premiato nel maggio di questo stesso anno da Francesco Sforza con la concessione del frudo comitale di Vespolate, già appartenente ai fuorusciti Trivulzio.
Una parte di rilievo il C. esercitò nella nuova situazione creatasi nel dicembre del 1524 in seguito al ritiro dal campo imperiale delle truppe pontificie di Giovanni de' Medici e di quelle veneziane del duca d'Urbino, cui seguì, il 12 di quel mese, la pace separata di Clemente VII e della Repubblica veneta con la Francia. Il C. fu inviato allora dal Lannoy a Venezia, per indurre la Signoria a tenere fede agli impegni presi nel trattato dell'anno precedente. Ma ormai la preoccupazione veneziana per una prospettiva di egemonia asburgica in Italia, e soprattutto per una presenza imperiale a Milano che con gli Stati ereditari di casa d'Austria avrebbe stretto la Repubblica in una morsa soffocante, trovava il necessario conforto nel nuovo atteggiamento del papa - che aveva sottratto all'alleanza imperiale non solo lo Stato ecclesiastico, ma Firenze, Genova, Siena e Lucca - nonché nei recenti successi, apparentemente determinanti, dei Francesi in Lombardia. Le pressioni del C. dovevano quindi scontrarsi con l'atteggiamento evasivo e addirittura ostile della Signoria. La sua stessa moderata proposta di inviare dimostrativamente l'esercito veneto ai confini dell'Adda cadde nel vuoto, così come le sue assicurazioni di una prossima controffensiva imperiale.
In realtà il C. si rendeva perfettamente conto che i sentimenti dei Veneziani non sarebbero migliorati neanche con una vittoria imperiale, un giudizio che egli poté confermare dopo la trionfale battaglia di Pavia: scriveva infatti a Carlo V - ma la lettera fu intercettata in Francia - che i Veneziani "non patiscono il bene et exaltation di Vostra Majestà, poiché oltre naturalmente sono inimicissimi di la Casa d'Austria, la qual de iure ha il dominio su la major parte di le loro terre, hora più che mai la temono et aboriscono, temendo di la grandezza di Vostra Majestà maxime da poi l'ha hauta vittoria contro francesi" (Sanuto, XXXVIII, col. 136).
Il C. fece ritorno a Milano alla fine di marzo, per riprendere il proprio posto presso il duca, nel momento in cui Carlo V si accingeva alla regolare investitura di Francesco Sforza nel ducato; ma già nell'agosto l'imperatore decideva da Toledo il ritorno del C. a Venezia "per indurre quel senato - come riferisce il Guicciardini - a nuova confederatione, o almeno perché ciascuno restasse certificato tutte le azioni sue tendere alla pace universale de' cristiani" (Storia d'Italia, IV, p. 305).
Le condizioni proposte dal C. - un contributo alle spese di guerra, una indennità all'arciduca Ferdinando d'Austria e la stipulazione di una nuova lega offensiva e difensiva - consentivano ora un felice esito della trattativa, alla quale la Signoria si mostrava tanto più disposta dopo l'impegno preso da Carlo V di rinunziare al dominio di Milano investendone lo Sforza. Ma la situazione venne nuovamente a complicarsi per la scoperta delle intese antimperiali intercorse segretamente tra le potenze italiane ad iniziativa di Girolamo Morone. La notizia dell'occupazione di Milano da parte del marchese di Pescara, del giuramento di fedeltà a Carlo V da lui imposto alla popolazione e dell'assedio messo al castello milanese, dove si era rifugiato il duca, da parte dello stesso condottiero imperiale, turbò profondamente la Signoria: questa respinse così le proposte del C., invitandolo a farsi interprete presso l'imperatore del desiderio veneziano che egli rinunziasse ad ogni proposito di annettersi il ducato milanese.
In sostanza, doveva concludere il C., comunicando a Carlo V il fallimento della sua missione, il 10 nov. del 1525, la sola speranza di indurre Venezia ad un atteggiamento meno ostile stava nel costringerla all'isolamento diplomatico, conquistando - cosa che gli appariva più facilmente conseguibile - l'amicizia e l'alleanza di Clemente VII. Il C. si trattenne ancora a Venezia sino alla fine di maggio del 1526, quando l'adesione della Repubblica alla lega antimperiale di Cognac rese evidentemente inutile ogni suo ulteriore tentativo.
Nel luglio, dopo che l'ambasciatore cesareo a Roma Ugo de Moncada ebbe stabilito un primo contatto con il duca in vista della sua liberazione dall'assedio, il C. fu protagonista, a quanto pare su iniziativa personale, di nuove pressioni su Francesco Sforza perché consegnasse il castello agli Imperiali ed aspettasse dalla clemenza di Carlo V il perdono dall'imputazione di fellonia. La situazione del duca era ormai insostenibile, ed egli si rassegnò a quella richiesta "incivile" (Documenti che concernono la vita pubblica di Girolamo Morone, p. CLVII), abbandonando Milano e rifugiandosi a Crema, sotto la protezione dei Veneziani.
Il C., rimasto a Milano mentre infuriava la guerra con la lega, assunse di fatto, dopo la partenza del connestabile di Borbone, il governo del ducato - o più propriamente della sola città di Milano, poiché il resto dello Stato sfuggiva ormai al controllo degli Imperiali - collaborando da vicino con Antonio de Leyva, ora principale responsabile della politica imperiale in Italia: un compito veramente gravoso, quello del C., poiché l'esercito imperiale era ormai praticamente acquartierato nella città, intorno alla quale andava stringendosi il cerchio degli alleati, in possesso di Novara, della Brianza, di Lodi e di Cremona. Il 4 ott. 1527 cadeva anche Pavia e tutte le vie di comunicazione con Milano erano così tagliate: la città era alla fame, mentre si attendeva ormai da momento in momento l'assalto del Lautrec.
Sebbene la situazione militare migliorasse per la decisione dei Francesi di rivolgersi contro l'esercito imperiale che aveva occupato Roma, e anche quella politica assumesse un più favorevole andamento per l'adesione obbligata di papa Clemente VII alle profferte di pace dell'imperatore, la situazione di Milano, ancora assediata dai Veneziani, rimaneva estremamente preoccupante: alla fame si aggiungevano le violenze delle milizie imperiali, contro la popolazione che il C. si sforzava di frenare con ben scarsi risultati, e, quando gli Imperiali, ricevuti soccorsi dalla Germania, ruppero l'assedio e passarono alla controffensiva, si aggiunsero, nell'estate del 1528, la peste che devastò la città, e poi un terribile inverno che la città dovette affrontare senza aiuti dall'esterno: un'esperienza amministrativa veramente desolante per il C., che nel 1529 dovette ritornare con notevole sollievo alle incombenze diplomatiche.
Dopo la vittoria del de Leyva a Landriano contro i Francesi, mentre già si annunziava l'imminente arrivo di Carlo V in Italia, il C. fu inviato a Mantova per prendere contatti preliminari con i rappresentanti veneziani, fiorentini e ferraresi in vista di una pacificazione generale. Arrivato a Genova l'imperatore, il 22 agosto il C. si recò a rendergli omaggio ed a riferirgli della situazione diplomatica e Carlo V lo incaricò di prendere nuovamente contatto con Francesco II Sforza, che chiusosi in Piacenza sembrava deciso ad una resistenza a oltranza contro gli Imperiali, inducendolo a sottomettersi spontaneamente.
La scelta del C., con i suoi trascorsi sforzeschi, dimostrava le buone disposizioni dell'imperatore verso il duca di Milano; secondo il Guicciardini, il C. sarebbe stato addirittura incaricato di esaminare "sommariamente" i capi d'accusa contro il duca di Milano, così da rendere possibile e dignitoso un provvedimento di indulto da parte di Carlo V, deciso, per amore della pace e per conquistarsi la fiducia degli Stati italiani, a ristabilire nella signoria lo Sforza: una psicologia ed una politica difficilmente comprensibili per il duca, così come del resto per gli altri signori italiani, per i quali il costante linguaggio di pace di Carlo V non era e non poteva essere altro che la copertura propagandistica di un programma di sopraffazione e di egemonia. Perciò il C. si prodigò invano, in ripetuti incontri con lo Sforza, per cercare di chiarire al sospettosissimo interlocutore le buone intenzioni dell'imperatore, mentre questi doveva constatare come "il duca si piegasse manco a lui di quello che avrebbe creduto" (Guicciardini, V, p. 271).
L'opera del C. valse comunque a stabilire con Francesco Sforza quella situazione interlocutoria che doveva concludersi, per la mediazione di Clemente VII, con la sottomissione del duca e la sua restaurazione, per la quale "obstupuere multi restitutam ita a Cesare Insubriam" (G. Franceschini, Le dominazioni francesi, in Storia di Milano, VIII, Milano 1957, p. 308).
Anche il C., nel novembre del 1529, partecipò alle cerimonie bolognesi per l'incoronazione imperiale e, probabilmente in questa occasione, ottenne da Clemente VII l'abbazia di S. Angelo a Fasanella. Nel marzo del 1530 veniva scelto dall'imperatore, insieme con Giovanni di Montmorency e con Rodrigo Nuñez per concludere la pace con Venezia. Dall'imperatore il C. aveva avuto anche l'incarico di ribadire presso la Repubblica le pretese del duca di Savoia alla signoria di Cipro. Dopo la conclusione della pace, il C. raggiunse nell'aprile a Mantova Carlo V, in procinto di partire per la Germania, e dall'imperatore fu nuovamente inviato a Venezia.
Le voci correnti di trattative tra la Repubblica ed Enrico VIII per la convocazione a Padova di un concilio che decidesse, scavalcando il papa, la questione del divorzio del re d'Inghilterra da Caterina d'Aragona colpivano Carlo V così nella sua ortodossia cattolica come nei suoi sentimenti familiari e la missione del C. valse a dargli le più ampie assicurazioni da parte della Signoria veneta.
Meno fortunata la trattativa del C., nel maggio successivo, alla corte di Mantova, per tentare di dissuadere Federico Gonzaga dal suo progetto di ripudiare Giulia d'Aragona per sposare l'erede del Monferrato, Margherita Paleologa: la dispensa concessa da Clemente VII indusse infatti il duca a persistere nel suo proposito.
Nominato oratore imperiale presso Francesco II Sforza sin dal 9 apr. 1530 (e non dal 13 luglio, come vuole il Caracciolo di Torchiarolo), il C. prese possesso della carica nel maggio. Il suo feudo di Vespolate era stato restituito ai reintegrati Trivulzio ed il duca gli concesse in cambio la contea di Gallarate ed una somma aggiuntiva sulla dogana milanese per compensare i minori proventi del nuovo feudo. Da questo momento, cessato il frenetico prodigarsi diplomatico degli anni precedenti, il destino del C. è legato definitivarnente a quello dello Stato milanese. Le vicende dell'ultimo periodo della signoria sforzesca e dei primi anni della dominazione imperiale ebbero in lui uno dei principali protagonisti e sicuramente quello che con più personale partecipazione tenesse conto - nella ridda degli interessi politici, degli intrighi diplomatici e delle vicende di guerra - della sorte infelice della popolazione e degli stessi specifici interessi politici ed economiici dello Stato milanese.
Significativamente, nella sua relazione finale del 1533, l'oratore veneto a Milano Giovanni Basadonna scriveva che "il reverendo Caraciolo è molto servitor di questo Stato, e, servando la servitù sua con Cesare, non e cosa che Sua Signoria non facesse per questo Stato" (Le relazioni degli ambasciatori veneti al Senato, a cura di A. Segarizzi, II, Bari 1913, p. 52). Così, fin dal 17 maggio 1530, il C. scriveva a Carlo V raccomandando che, nelle sue pretese di indennizzi finanziari da parte dello Sforza, tenesse conto dell'estenuazione economica del paese, poiché "qui se sta con grandissima penuria del dinero, et sostene el paese assai graveza et non basta, perché tutto el paese è privo de huomini et bestiami et è ruinato" (Chabod, L'epoca di Carlo V, p. 282). Un atteggiamento, questo, che creava dissidi continui con il de Leyva - primo di una serie di capi militari con i quali il C. avrebbe dovuto scontrarsi in difesa della popolazione civile - poiché la ripresa economica del paese, dalla quale soltanto, tra l'altro, lo Stato poteva sperare di mantenere i propri impegni politico-finanziari, era compromessa dalla pesante presenza delle truppe imperiali, dalle loro violenze e devastazioni e dalle stesse necessità del loro mantenimento. Questa situazione certamente non poteva essere evitata, a causa dei perduranti timori di una nuova offensiva francese, ma era senza dubbio aggravata dalla durezza e dalla incomprensione dei responsabili militari e dalla loro incapacità a controllare le soldatesche.
Del resto lo stesso duca trovava modo di peggiorare le cose impegnandosi nell'assurda e dispendiosissima guerra di Musso con Gian Giacomo Medici, che il C. tentò inutilmente di evitare e che contribuì per quanto poteva a concludere, intervenendo come mediatore tra i contendenti, fino a che i suoi tentativi, fatti anche in nome dell'imperatore, furono coronati dalla pace del 13 febbr. 1532.
Non minori preoccupazioni incombevano sul C. per quanto riguardava la posizione politica del ducato e le sue prospettive future. In sottintesa polemica con i consiglieri imperiali, e specialmente con il Granvelle, tenaci assertori del diretto dominio su Milano, il C. fu sempre aperto fautore del programma, che già era stato del Gattinara, di mantenere il controllo imperiale sul ducato attraverso un signore fedele, ma autonomo.
Significativamente nel momento di una grave malattia di Francesco II Sforza, egli ribadiva questo suo punto di vista a Carlo V: "bene affirmano una cosa a Vostra Maestà, che la salute del signor Duca è molto a proposito del servizio de V. M., perché non li potria esser più affectionato servitore che li è, et V. M. po disponere de questo stato come de Napoli et Valdeolit et per infiniti altri respecti che V. M. per sua prudentia conosce" (Chabod, L'epoca di Carlo V, p. 32).
Ma naturalmente era necessario garantirsi l'assoluta lealtà dello Sforza di fronte ai sempre rinnovantisi intrighi dei Francesi per distaccare il duca dall'alleanza imperiale: di qui l'assidua sorveglianza esercitata dal C. sulle inclinazioni e sulle relazioni politiche di Francesco II, il quale del resto dava continue prove di fedeltà, tali da tranquillizzare sostanzialmente il rappresentante imperiale.
Così, per esempio, negli svolgimenti clamorosi della missione segreta dell'agente francese G. A. Maraviglia, giunto a Milano per proporre al duca il matrimonio con la sorella del re di Navarra Elisabetta d'Albret: una missione conclusasi con l'esecuzione dello stesso Maraviglia per crimini comuni, in circostanze tali che parecchi contemporanei e non pochi storici opinarono una effettiva adesione iniziale di Francesco II alle profferte francesi ed un suo tardivo ravvedimento; in realtà il C. - e attraverso di lui l'imperatore - fu costantemente informato della missione dell'agente francese e la sua avversione alle profferte della corte di Parigi trovò nello Sforza la più completa solidarietà.
Anche la situazione internazionale del ducato trovava nel C. un interprete attento, anche se forse, eccessivamente ottimista, quando prevedeva nel 1532 - durante le trattative per una lega tra Carlo V, il papa, Milano e gli Svizzeri dei cantoni cattolici - che l'adesione di Milano a tale alleanza fosse la principale garanzia della stabilità del ducato, poiché i Francesi "male se potriano valere" degli altri cantoni svizzeri e la stessa Zurigo "quale sempre è stato bono imperiale, quando se reducesse a la bona fede subito veniria anchora luj in dicta liga" (Chabod, L'epoca di Carlo V, p. 200): laddove in realtà proprio dagli Svizzeri sarebbero venute in futuro innumerevoli e gravi difficoltà allo Stato milanese.
L'11 luglio 1533 il C. fu inviato da Carlo V a prendere possesso del marchesato di Monferrato, la sorte del quale l'imperatore aveva sottoposto al proprio arbitrato dopo l'estinzione della dinastia dei Paleologi e l'insorgere delle pretese dei Savoia e dei Gonzaga; in seguito il C. fu designato tra gli arbitri di quella contesa, risolta infine in favore del duca di Mantova.
Ma Milano - e la sorte del ducato, sempre più problematica per le cattive condizioni di salute di Francesco Sforza e la sua mancanza di eredi - rimaneva la principale preoccupazione ed incombenza del Caracciolo. Da Carlo V egli aveva avuto "con una piccola instructione secreta" pieni poteri "di pigliare el posseso del estato in caso che el Duca mancasse senza subcessione" (ibid., p. 5), occupando le fortezze e facendo giurare i Milanesi per l'imperatore: una prospettiva garantita dalla presenza nello Stato dell'esercito spagnolo. Pure la morte di Francesco II Sforza trovò il C. del tutto impreparato e anzi addirittura lontano da Milano. Senza dubbio egli sottovalutò la malattia del duca, così da scriverne notizie rassicuranti a Carlo V poco tempo prima della morte. Ma soprattutto egli fu distratto da motivi personali.
Da gran tempo, infatti, egli riteneva di aver meritato - con il suo servizio per la Chiesa e per l'imperatore - l'ambito riconoscimento della dignità cardinalizia ed in proposito, in effetti, non erano mancate pressioni di Carlo V su Clemente VII e poi su Paolo III. Eletto finalmente il 31 maggio 1535 (ebbe il titolo di S. Maria in Aquiro), il C. alla fine d'ottobre partì per Roma, per ricevere il cappello secondo il rito. Ma già a Firenze gli giungevano notizie preoccupanti sull'aggravarsi del duca ed il 1º novembre scriveva a Carlo V di trasferire al de Leyva i poteri per assumere il possesso del ducato, consigliando al contempo all'imperatore di non inviarvi, in caso di morte dello Sforza, nuove "fantarie, né gente d'arme, perché V. M. se farria inimici li populi" (Chabod, Lo Stato di Milano, p. 15).
Il C. proseguiva quindi per Roma e di qui, dopo la cerimonia della consacrazione, si recava a Napoli presso Carlo V, reduce dalla spedizione di Tunisi. Qui, a sentire il Giovio (p. 169), piuttosto che affrettarsi a riprendere il suo ruolo responsabile a Milano, avrebbe preferito indugiare nei "piaceri de' cardinali nuovi". In realtà il C., trattenuto dapprima a Napoli da una lunga malattia, si fermò successivamente a Roma per partecipare alle discussioni concistoriali relative alla convocazione del concilio e nel concistoro del 9 giugno 1536 fu prescelto da Paolo III quale legato apostolico a Carlo V per dargli notizia dell'avvenuta convocazione. Al ritorno a Milano, nel luglio del 1536, il C. era già designato dall'imperatore ad assumere il governo del nuovo Stato.
Le relative istruzioni di Carlo V al C., che ebbe dapprima il titolo di gran cancelliere e poi, dopo la morte di Antonio de Leyva, nel settembre, quella di governatore, sono in data 4 ag. 1536. Tali istruzioni, redatte durante la campagna di Provenza e spedite al C. dal campo imperiale del Frejus, erano necessariamente assai succinte: e in effetti, a proposito dell'amministrazione finanziaria dello Stato, l'imperatore avvertiva di non potere "venir a particularidad ninguna por no tener entera relacion de las rentas de la Camera ducal ... ni tiempo ni lugar de presente para entenderla ni ordenarla" (Chabod, Lo Stato di Milano, p. 143). Da esse tuttavia risulta con evidenza la mentalità gelosamente accentratrice di Carlo V, portata ad ogni sorta di limitazioni dei poteri dei suoi rappresentanti lontani: così, sulla questione della attribuzione degli uffici dell'amministratone statale o su quella dei benefici ecclesiastici vacanti di patronato regio, al C. veniva concesso di provvedere soltanto a quelli "pequeños y no de importancia", riservando rigorosamente al giudizio dell'imperatore quanti fossero "de alguna qualidad" (Id., L'epoca di Carlo V, p. 497).
Ma se nei rapporti con il governo centrale le attribuzioni del C. erano pesantemente limitate, di fronte alle preesistenti magistrature milanesi - specialmente nei due fondamentali settori dell'amministrazione finanziari e di quella della giustizia - la sua autorità fu indubbiamente maggiore di quella attribuita poi dall'imperatore ai suoi successori nel governo di Milano: rispetto agli organi di governo locale il C. infatti aveva poteri di controllo che verranno largamente revocati sin dalle istruzioni al secondo governatore di Milano, il marchese del Vasto.
Una differenza senza dubbio indicativa - oltre che della accentuata diffidenza di Carlo V verso gli istituti amministrativi ducali, nel delicato momento del trasferimento della sovranità - anche della maggior fiducia che il C. poté godere presso il governo imperiale rispetto ai suoi successori, il del Vasto ed il Gonzaga, dei quali Carlo V sarà sempre portato a temere gli eccessi di potere e le ambizioni politiche personali. Ma questa relativa premmenza del C. rispetto al Senato milanese ed alle altre magistrature dell'antico ducato, tenacemente attaccate alle loro prerogative e competenze, era destinata piuttosto ad accrescere le sue difficoltà che non a rendere più liberamente responsabile, e quindi più tempestiva ed efficace, la sua opera di governo.
La sua stessa nazionalità italiana esponeva inoltre il C. alla animosità degli Spagnoli, sia alla corte imperiale - dove fu sempre presente ed anche irragionevole la diffidenza verso gli stranieri - sia in Italia, sempre più considerata dagli Spagnoli come una colonia, una fonte riservata di prestigiosi incarichi amministrativi, diplomatici e militari: e non era mancato chi aveva cercato di impedire al C. l'assunzione del governo di Milano, rivendicando che il governatore fosse "de nuestra nacion, porque hay fidelidad y amor" (Chabod, Lo Stato di Milano, p. 224). Ma soprattutto pesava sull'opera di governo del C. lo sdoppiamento operato da Carlo V alla morte del de Leyva tra la responsabilità civile e quella militare, affidata quest'ultima al marchese del Vasto Alfonso d'Avalos: un provvedimento che mirava, ancora volta, a limitare le possibilità di iniziative esorbitanti e incontrollabili connesse a ciascuna delle due funzioni, ma in effetti destinata a produrre contrasti aspri e anche paralizzanti; e se questi avevano certamente non piccolo fondamento nel carattere ombroso e suscettibile del marchese, uomo insofferente di ogni controllo e sdegnoso di legami e rapporti di dipendenza politica che non fossero quelli diretti con l'imperatore, trovavano però la loro principale ragione proprio nella contrapposizione delle funzioni e degli obiettivi, aggravata dalla guerra contro i Francesi che trovava ancora nello Stato milanese il suo principale teatro.
Era naturale infatti che il responsabile militare ritenesse assolutamente primarie le necessità dell'esercito e della condotta della guerra, e perciò inclinasse ad ignorare, o almeno a sottovalutare, ogni altra considerazione: sicché il paese era sottoposto senza difesa non tanto alle violenze dei nemici, quanto alle sopraffazioni ed alle intemperanze delle soldatesche spagnole; e il fiscalismo ciecamente feroce con cui le autorità militari tentavano di risolvere, anche al di fuori e contro l'autorità del governatore civile, i loro problemi immediati, costringeva il paese ad una crisi economica senza via d'uscita. I lamenti della popolazione e le preoccupazioni politiche per il rovinoso processo di estenuazione economica dello Stato trovavano naturalmente nel C. un interprete appassionato ed energico, come e più che per il passato; ma a loro volta il marchese e gli altri capi militari non perdevano occasione per protestare alla corte contro il C., proclamando che, fin quando fosse durato il suo governo "no podremos aver solo un real sino mal y por mal cabo, porque un dia que entra un soldado a comer en un lugar, assy lo llora el como si la tierra fuesse suya" (ibid., p. 150). E infine le preminenti esigenze militari finivano per avere buon gioco presso Carlo V, ed il C. rimaneva di fatto, per questo rispetto, sostanzialmente esautorato, tanto che finì addirittura per rinunziare ad esercitare le sue prerogative in materia fiscale in favore dei delegati del marchese.
Sotto il profilo finanziario, pertanto, comincia con il governo del C. - e senza sua responsabilità, anzi nonostante la sua opposizione - quell'irreversibile processo di decadenza dello Stato che aveva la sua infallibile formula nell'alienazione dei redditi futuri della Camera, analogamente, del resto, a quanto avveniva negli altri Stati e domini della Corona spagnola, a Napoli come nelle Fiandre. Una prassi che il C. interpretava correttamente, prevedendone invano le rovinose conseguenze: "non è possibile governare pegio et contra Dio et contra il servitio del imperatore ... credo nel Inferno non se faria pegio ne con magior deservitio de S.M." (Chabod, Lo Stato di Milano, p. 150).
Un aspetto particolarmente ma non esaurientemente studiato del governo del C. è la sua politica religiosa. Anche verso il clero egli si impegnò in una difesa assidua e fatalmente inutile di fronte al fiscalismo e del papa e dell'imperatore, invano ripetendo a Carlo V che "questo clero è molto povero", invano cercando di opporsi nel 1537 alla esazione straordinaria di due decime imposta al clero lombardo da Paolo III: la contemporanea promessa da parte del pontefice di contributi alle spese della guerra contro il Turco ed alla difesa delle coste napoletane impedì che le autorità imperiali accogliessero le rimostranze del Caracciolo. Miglior accordo, naturalmente, era possibile tra il C. e l'imperatore sulla questione di una riforma del costume morale e religioso, per la quale il governatore mostrò una particolare sensibilità, mentre da Carlo V era addirittura sentita come compito essenziale della sovranità.
Gli assidui interventi del C. in proposito sono diligentemente elencati dallo Chabod: fiancheggiamento delle autorità ecclesiastiche nelle provvidenze disciplinari per la riforma dei conventi, contributi coercitivi contro frati e monache che "viveno molto licentiosamente, senza rispetto di Dio né del mondo" (Chabod, Per la storia religiosa, p. 13), tentativi di dirimere vertenze e discordie tra ecclesiastici, fonti di "schandalo grandissimo" (ibid., p. 31) della popolazione.
Ma l'atteggiamento del C. rimane tuttora insufficientemente chiarito per quanto riguarda la questione - indubbiamente assai più rilevante che non gli ovvi contributi alla riforma disciplinare - del suo orientamento nei confronti del movimento ereticale. I suoi interventi a tale proposito appaiono infatti stranamente scarsi e comunque inclini a non esasperare i contrasti con provvedimenti troppo pesanti.
Così, nel caso di un predicatore francescano, accusato di fare appello per certe sue teorie sull'Immacolata Concezione alla dubbia ortodossia del concilio di Basilea, il C. si limitò a chiedere informazioni alle autorità dell'Ordine; o, ancor più significativamente, nel clamoroso episodio cremonese di un messer Filippo Nicola, accusato presso il C. di gravissimi gesti blasfemi e di aver pubblicamente enunziato proposizioni eretiche, il C. si preoccupò di sdrammatizzare la cosa, accettando la conciliante versione di un improvviso accesso di pazzia, sebbene non mancassero indizi che gli atteggiamenti del Nicola fossero "non da melancolico, ma di homo troppo speculativo" (ibid., p. 227): episodi che potrebbero suggerire da parte del C. se non una programmatica tolleranza - che del resto sarebbe smentita dal suo atteggiamento alla Dieta di Augusta - almeno una sostanziale indifferenza verso le questioni dommatiche, un atteggiamento, insomma, piuttosto da politico che da uomo di religione, quale sarebbe convenuto ad un principe della Chiesa.
Morì a Milano il 27 genn. 1538.
Fonti e Bibl.: Lettere ed orazioni latine di G. Morone, a cura di D. Promis-G. Müller, in Miscellanea di storia italiana, II (1863), passim; Docc. che concernono la vita pubblica di G. Morone, a cura di G. Müller, ibid., III (1865), passim; M. Sanuto, Diarii, III-LVIII, Venezia 1880-1903, ad Indices; Concilium Tridentinum, ed. Soc. Goerresiana, Diaria, IV, Friburgi Brisgoviae 1904, pp. 7 ss.; P. Aretino, Il primo libro delle lettere, a cura di F. Nicolini, Bari 1913, pp. 125-127, 137 s., 179, 204, 289; F. Guicciardini, Storia d'Italia, a cura di C. Panigada, Bari 1929, IV, pp. 176, 250, 305, 313, 321 ss.; V, 20 ss., 56, 271 s., 282; P. Giovio, Opera. Epistularumpars prima, a cura di G. G. Ferrero, Roma 1958, pp. 151, 153, 155, 169, 197, 200, 205; C. Gioda, G. Morone ai tempi di Massimiliano Sforza, in Riv. stor. ital., II (1885), pp. 14 ss.; J. Paquier, L'humanisme et la Réforme. Jérome Aléandre..., Paris 1900, pp. 148, 271-275; L. von Pastor, Storia dei papi, IV, Roma 1926, ad Indicem; V, ibid. 1924, pp. 54 s., 95, 170, 173, 673; F. Chabod, Lo Stato di Milano nell'Impero di Carlo V, Roma 1935, pp. 4, 5 ss., 15, 93 ss., 113, 149 ss., 186 ss., 224; Id., L'epoca di Carlo V, in Storiadi Milano, IX, Milano 1961, passim; Id., Per lastoria relig. dello Stato di Milano durante il dominio di Carlo V, Roma 1962, passim; N. Guastella, Tre pretesi delitti di Francesco II Sforza, in Arch. stor. lomb., LXXVI (1949), pp. 125 ss.; R. Brandi, Carlo V, Torino 1961, pp. 96, 114, 257; A. Caracciolo di Torchiarolo, Un feudatariodi Gallarate. Il cardinale M. C. (1530-1535,), estr. da Rass. gallaratese di storia e arte, XII (1953), n. 2; G. Gulik-C. Eubel, Hierarchia catholica..., III, Monasterii 1929, ad Indicem; P. Litta, Lefam. celebri ital., sub voce Caracciolo di Napoli, tav. IV.