MARIGLIANO, Giovanni, detto Giovanni da Nola
MARIGLIANO (Merliano, Meriliano, Miriliano), Giovanni, detto Giovanni da Nola. – Nacque a Nola, come viene più volte ricordato dalle fonti, ma non si sa con certezza in che anno. Secondo De Dominici doveva essere il 1478; ma più probabilmente la data è da collocarsi attorno al 1488. Questa, dedotta da Vasari il quale afferma che il M. morì settantenne nel 1558, s’accorda infatti maggiormente con la ricostruzione effettuata dalla critica riguardo alla sua attività giovanile.
Gli scrittori d’arte, soprattutto nel Settecento, generalmente lo ricordano come Merliano. Nei documenti invece si trovano anche le forme Meriliano, Mariliano, che deriverebbe dalla cittadina di Marigliano nei pressi di Nola, e Miriliano («Mirilianus»), come ricorre più frequentemente nella sua firma autografa.
È il cardinale Pietro Summonte nella celebre lettera indirizzata a Marcantonio Michiel nel 1524 a ricordare il discepolato del M. nella bottega dell’intagliatore ligneo di origine bergamasca Pietro Belverte.
La notizia trova conferma nei documenti almeno a partire dall’inizio del 1508, quando il maestro lombardo ricevette dall’Annunziata di Napoli dei pagamenti a proprio nome e a quello del suo «alumpnus» Giovanni da Nola per l’esecuzione della perduta ancona lignea, che decorava un affresco raffigurante S. Anna e la Madonna col Bambino, staccato dal palazzo del principe di Melfi Troiano Caracciolo e trasportato all’Annunziata l’anno precedente (D’Addosio, pp. 56, 58). È stato suggerito, sempre sotto la direzione di Belverte, un suo possibile intervento nell’ambito della realizzazione del retablo eseguito tra il 1507 e il 1508 per la cappella dei Calzolai in S. Lorenzo Maggiore, ora nella chiesetta dei Ss. Crispino e Crispiniano, e del Presepe per la cappella del Crocifisso in S. Domenico Maggiore (Gaeta, pp. 73 s.). Entrambe le opere però sono purtroppo in gran parte disperse.
A partire da un’errata lettura documentaria la storiografia tradizionalmente aveva rilevato la presenza del M. al fianco del maestro già nell’esecuzione dei battenti lignei del portale dell’Annunziata a Napoli, eseguiti all’inizio del Cinquecento da Belverte su incarico di Tommaso Malvito.
Sebbene tale equivoco sia stato recentemente chiarito (Naldi, 1996, p. 88; Gaeta, p. 71), alcuni studiosi continuano a sostenere questa attribuzione in base a elementi di carattere stilistico (Abbate, 1992, p. 184), tendendo inoltre a retrodatare di qualche anno la nascita del M. rispetto all’indicazione vasariana, al fine di rendere la sua età compatibile con la presenza in tale cantiere.
Entro il 1511 il M. acquisì una propria autonomia imprenditoriale, ereditando forse la bottega di Belverte, probabilmente già deceduto. Infatti nel marzo di quell’anno il giovane artista stipulò un contratto, in cui viene citato con la qualifica di «magister […] intagliator lignaminum», per realizzare l’ormai scomparsa cornice per un’ancona dipinta da Antonio Rimpatta destinata all’altar maggiore della chiesa napoletana di S. Pietro ad aram (Filangieri, III, pp. 146, 185).
Riguardo alla sua attività giovanile come scultore in legno rimangono ulteriori consistenti testimonianze, oltre che nelle carte d’archivio, anche nelle fonti storico-artistiche, alle quali però non corrispondono quasi mai opere conservate.
Un accurato riesame della questione venne comunque intrapreso negli anni Cinquanta da F. Bologna, per essere poi ravvivato negli ultimi due decenni da ulteriori indagini, che hanno condotto all’acquisizione per via stilistica di alcuni punti fermi nel catalogo dell’artista.
Innanzitutto attorno al 1510 il M. dovette realizzare il Compianto sul Cristo morto a sei figure nella chiesa della Pietà a Teggiano (Gaeta, p. 76), al quale vanno aggiunti anche il S. Sebastiano della chiesa di S. Antonio da Padova a Nocera Inferiore (ibid., p. 84), datato al 1514, e quello conservato presso il castello già Doria di Melfi, sempre degli stessi anni (Naldi, 1996, p. 86). Al 1516-17 va invece riferita la cosiddetta Ancona di s. Eustachio per la chiesa di S. Maria la Nova a Napoli (Bologna, pp. 167 s.), poi smembrata e in parte dispersa.
In tali opere emerge chiaramente un’innegabile componente lombarda dal punto di vista sia compositivo sia stilistico, in particolare nella ricerca di un pronunciato naturalismo, che tocca punte di estrema espressività in sintonia con le soluzioni di Guido Mazzoni. Tale cifra stilistica non è comunque disgiunta da una precoce conoscenza del classicismo raffaellesco, assimilato attraverso la pittura di Andrea da Salerno, ma anche, come sembra emergere soprattutto nel retablo napoletano, dall’impatto con le opere degli spagnoli Bartolomé Ordóñez e Diego de Siloé, arrivati nella città partenopea nei primi anni del secondo decennio del Cinquecento.
Durante questa prima fase il M. sembrerebbe quindi imporsi nell’ambito del mercato della scultura in legno in un’area geograficamente ampia, non solamente periferica, ma anche nella stessa capitale vicereale, assicurandosi committenze prestigiose in molti casi legate a un ambito francescano. Sempre nel 1516 eseguì la statua di S. Giovanni Battista per la cappella Artaldo in S. Maria di Monteoliveto (ora S. Anna dei Lombardi), primo suo lavoro in marmo sicuramente documentato.
Rispetto alle precedenti opere in legno, con le quali condivide forti affinità soprattutto nella resa anatomica e fisionomica, il M. mostra in questa scultura una profonda maturazione nella capacità di imporre la figura nello spazio tridimensionale, ma soprattutto una sempre maggiore eleganza formale tutta giocata su ritmi sansovineschi (Abbate, 1992, p. 236; Naldi, 1996, pp. 92 s.). L’uso di questo nuovo materiale si rese necessario non solamente per poter accedere alle prestigiose committenze dei monumenti sepolcrali, ma anche per meglio contrastare la concorrenza dei sopraggiunti artisti spagnoli. In proposito è stata avanzata l’ipotesi di uno stretto sodalizio tra il M. e Giovan Tommaso Malvito, che gli avrebbe consentito di muovere i primi passi come scultore in marmo appoggiandosi a una delle più prestigiose botteghe locali specializzata nella lavorazione lapidea (Abbate, 1977). Quest’attività in comune sarebbe stata avviata almeno a partire dalla realizzazione del Sepolcro di Galeazzo Pandone, del quale il M. avrebbe eseguito la lunetta con la Madonna col Bambino, la cui cronologia oscilla tra il 1514 e il 1518 (ibid., p. 48; Bologna, p. 165). La conoscenza tra i due artisti risalirebbe almeno ai primi anni del Cinquecento, quando il M. era attivo presso la bottega di Belverte, con ogni probabilità affiliata a quella dei Malvito.
Sono riferibili al M., nel secondo decennio del Cinquecento, anche altre sculture in marmo: il S. Michele in S. Pietro ad aram e il S. Sebastiano in S. Pietro a Maiella del 1519 (Abbate, 1992, pp. 236 s.).
Il M. non abbandonò comunque completamente la sua attività nell’ambito dell’intaglio: Filangieri (VI, p. 111) cita una sua promessa, in data 15 sett. 1517, di eseguire una cona di legno di pioppo e tiglio per il prezzo di 20 ducati. Inoltre attorno al 1520 eseguì una Natività lignea nella chiesa di S. Maria del Parto su richiesta dell’umanista Iacopo Sannazzaro (Nicolini, p. 169). Del prezioso complesso si conservano solo cinque statuine, tra le quali si distinguono quelle di S. Giuseppe e della Vergine, che mostrano tangenze strettissime con le prime opere di Girolamo Santacroce, soprattutto per il fluido modellato delle superfici (Gaeta, p. 95). Tale committenza risulta particolarmente significativa, perché dimostra la stima della quale il M. doveva evidentemente godere presso il celebre umanista, profondo conoscitore di antichità e che con ogni probabilità esercitava una forte influenza nell’orientare la cultura figurativa della città. Non a caso il M. fu certamente lo scultore «regnicolo» in assoluto più celebrato da poeti e scrittori d’arte partenopei contemporanei, i quali posero le basi della sua successiva fortuna critica, che raggiunse l’apice nelle cronache sei e settecentesche.
Nel 1523 il M. eseguì l’altare dedicato da Iacopo Antonio Cesarino nel duomo di Nola, con la raffigurazione della Madonna col Bambino tra i ss. Giacomo e Michele, ancora fortemente ispirata al classicismo sansovinesco (Abbate, 1992, p. 237).
Secondo la testimonianza di Summonte l’anno successivo era intento alla realizzazione del Monumento funerario del viceré Ramón Folch de Cardona su commissione della moglie Isabella di Requesnes, che costituisce anche la sua definitiva consacrazione nel panorama napoletano.
Il complesso, firmato dal M., fu verosimilmente completato e posto in opera presso il convento francescano di Bellpuig (Lérida), entro il marzo del 1531, quando vi venne traslata la salma (Teixido Balcells, p. 154). Nel 1841 fu trasferito nella chiesa parrocchiale, dove subì gravissimi danni durante la guerra civile. Perfettamente restaurata la fastosa architettura, che s’ispira nell’impostazione generale ai modelli sansovineschi di tomba parietale elaborati a Roma (Pane, II, p. 181), si distingue per il suo ricco apparato decorativo, evidentemente concepito in ottemperanza a precise richieste della committenza in ossequio alla tradizione delle imponenti macchine spagnole (Abbate, 1992, p. 238). Con sempre maggiore evidenza emerge la forte adesione da parte del M. alla cultura classicista non solo nelle forme, ma anche nei soggetti delle raffigurazioni, a partire dal raffinatissimo thiasos marino del sarcofago, ove giace la figura dormiente dell’ammiraglio in armatura, come anche nel fregio decorato da episodi a carattere guerresco, fino alle allegorie della Gloria e della Pace, che emergono arditamente fuori dagli oculi del secondo ordine. Invenzione originalissima quest’ultima, che, insieme con la profusione dell’ornato e con l’enfasi eroica del contesto, ha fatto parlare addirittura di precorrimenti barocchi (Pane, II, p. 181). Per far fronte all’impresa il M. delegò parte dell’esecuzione delle sculture ai propri collaboratori, operanti però sempre sotto il sollecito controllo del maestro, come dimostra la sostanziale unitarietà stilistica dell’insieme. Alla sua mano è stata ricondotta in particolare la lunetta con la Deposizione, di forte intensità emotiva, dove affiora, oltre all’ormai consueto riferimento a Ordóñez, anche un recupero di cadenze michelangiolesche soprattutto in alcuni brani della figura di Cristo (Abbate, 1992, p. 240).
Nel 1528 il M. ricevette la commissione dell’altare maggiore della chiesa di S. Lorenzo, che costituisce uno dei migliori esiti della sua produzione artistica.
In tale opera emerge ancora in maniera determinante la componente ordognesca, che il M. sembra ormai prediligere rispetto a quella di Siloé, soprattutto nella realizzazione della predella, contraddistinta da uno spiccato pittoricismo e drammaticità. Nell’impaginazione sono, invece, molto forti i richiami a Donatello, filtrato soprattutto attraverso la lezione dell’artista spagnolo, di cui va considerato uno dei maestri ideali. Medesime suggestioni si colgono, inoltre, nelle sculture maggiori dell’altare, soprattutto nel viso scavato di S. Antonio e nei tormentati panneggi del S. Lorenzo (ibid., p. 242).
Al 24 luglio 1531 risale il pagamento del saldo finale che il M. ricevette per la realizzazione dei sepolcri fatti erigere da Maria d’Aierba per il marito Andrea Di Capua dei duchi di Termoli e il figlio Ferdinando nella chiesa di S. Maria del Popolo agli Incurabili, dove ancora si conservano (Ravicini, pp. 322 s.; Weise, pp. 70 s.; Pane, II, pp. 182 s.).
Nel 1532 l’artista ottenne dai frati di S. Lorenzo uno spazio nel coro della chiesa, destinato a un altare e alla sua sepoltura (Filangieri, VI, p. 111). A tale complesso va con ogni probabilità riferito il bassorilievo raffigurante la Madonna col Bambino e angeli, già collocato sull’altare maggiore e ora nel transetto destro (Weise, p. 76), eseguito forse da un collaboratore nel decennio successivo (Abbate, 1992, p. 243). Entro il medesimo anno il M. dovette completare l’altare Ligorio eretto presso l’ingresso della chiesa di Monteoliveto.
Secondo una tradizione ormai smentita risalente a Vasari, tale complesso fu realizzato in concorrenza con Girolamo Santacroce, che utilizzò il medesimo schema d’altare nella simmetrica cappella Del Pezzo, il quale però molto probabilmente venne eseguito qualche anno prima nel 1524 (Weise, p. 67; Naldi, 1997, pp. 113 s.). In tale opera il M. evidenzia una sempre più profonda assimilazione della maniera del rivale, non solo nella Madonna col Bambino collocata al centro, ma anche nei due santi laterali, caratterizzati da una grazia manierista desunta da modelli toscani, tipica di Santacroce. Questa forte consonanza ha fatto addirittura avanzare l’ipotesi che entrambi gli altari possano essere stati originariamente commissionati a quest’ultimo e dopo la sua morte portati a termine dal M. (Abbate, 1992, pp. 243 s.).
Ancora nell’ottobre 1532 intraprese la decorazione scultorea per la fontana di piazza Sellaria, detta anche dell’Atlante, conclusa nel 1537 su committenza del viceré don Pedro de Toledo e ora distrutta (De Dominici, pp. 470 s.). Nel 1535 partecipò all’esecuzione degli apparati trionfali per l’ingresso dell’imperatore Carlo V a Napoli, avvenuto il 25 novembre di quell’anno. Ancora non completamente chiarita l’entità del suo intervento, che comprendeva certamente anche lo stemma in marmo, ancora visibile, con le armi degli Asburgo presso porta Capuana (Morisani, pp. 318 s.).
Al M. è stato attribuito anche l’altare con la Madonna della Neve commissionato dall’arcivescovo di Capua Fabio Arcello in S. Domenico Maggiore e recante un’epigrafe dedicatoria con la data 1536 (Naldi, 1997, pp. 117, 162, 186).
Il 19 luglio 1539 il M. stipulò il contratto con Ippolita dei Monti, contessa della Saponara, per eseguire le sepolture dei tre figli Ascanio, Iacopo e Sigismondo Sanseverino presso la chiesa dei Ss. Severino e Sossio, di cui rimangono pagamenti fino al 1545.
Lungamente svalutati dalla critica per l’uniformità del modello compositivo utilizzato (Morisani, p. 300; Pane, II, pp. 184 s.) i sepolcri sono invece da ritenere tra i maggiori raggiungimenti della maturità del M.; inoltre essi inauguravano a Napoli un nuovo tipo di monumento funerario, in cui viene accentuata l’importanza della figura del defunto, rappresentato in piedi in una grande nicchia centrale, con ai lati personaggi allegorici di minori dimensioni e ai piedi il sarcofago sorretto da satiri o tritoni, alla maniera di Giovanni Angelo da Montorsoli. Ancora una volta il M. dimostra di saper aggiornare la propria maniera in rapporto alle novità introdotte dagli artisti forestieri, non sottraendosi al confronto con il michelangiolismo fiorentino che si stava allora diffondendo a Napoli attraverso le opere di Giovanni Angelo da Montorsoli e di Bartolomeo Ammannati. È evidente l’intervento di diverse mani, riferibili ad artisti comunque accomunati da una medesima matrice culturale e ancora soggetti a precise direttive del maestro (Abbate, 1992, pp. 245 s.). Con la morte di Santacroce nel 1537 il M. divenne il protagonista incontrastato nell’ambito della produzione scultorea napoletana. Per far fronte al rapido incremento delle committenze egli coinvolse un numero sempre maggiore di collaboratori, trasformando la sua bottega nel polo d’attrazione dei più validi giovani talenti locali, quali Giovan Antonio Tenerello, Giovan Domenico D’Auria e Annibale Caccavello, citati anche come testimoni per i pagamenti della cappella Sanseverino. Punte di eccellenza formale vengono toccate dai brani considerati autografi del maestro, quali la S. Caterina d’Alessandria sul pilastro sinistro della tomba di Iacopo e nel coronamento di quella di Ascanio (ibid., pp. 248-250).
Prodotto della bottega del M. è anche il monumentale Sepolcro del viceré don Pedro de Toledo e della moglie Ossorio Pimentel nella chiesa di S. Giacomo degli Spagnoli (Yeguas-Gassò). L’opera venne eseguita quasi certamente tra il 1540, data d’avvio della costruzione, e il 1550, quando Vasari la cita come compiuta nella prima edizione delle Vite.
Inusuale per il contesto italiano è la tipologia di tomba isolata al centro della cappella con la raffigurazione dei due defunti inginocchiati in preghiera al di sopra di un podio, motivo desunto dalle sepolture reali spagnole e francesi, a sua volta ornato ai lati da rilievi bellici e ai quattro angoli da raffigurazioni allegoriche ispirate a quelle del Monumento Folch de Cardona. Anche in questo caso il complesso si distingue per l’estrema raffinatezza formale e l’organicità dell’insieme, sebbene si debbano presumere forti apporti nell’esecuzione da parte degli allievi più o meno talentuosi, che però in quest’ultimo caso sono relegati ad ambiti marginali. Nel 1545 il M. partecipò insieme con altri come perito nel lodo arbitrale per stabilire il prezzo di un dipinto eseguito da Pietro da Nigrone per la chiesa di S. Aniello a Caponapoli (Borzelli, p. 64).
L’ultima impresa documentata rimasta del M. è la realizzazione del Sepolcro di Nicola Antonio Caracciolo di Vico nella cappella di famiglia nella chiesa di S. Giovanni a Carbonara. Nel contratto stipulato il 15 apr. 1547 l’artista risulta associato a Gian Domenico D’Auria e ad Annibale Caccavello (Abbate, 1979).
Lo schema del monumento viene mutuato da quello già precedentemente elaborato per le tombe Sanseverino. A livello esecutivo la maggior parte delle sculture va riferita soprattutto ai due allievi, che in questi anni cominciavano a ritagliarsi uno spazio sempre più autonomo, procurandosi anche committenze indipendenti senza però interrompere la collaborazione con il proprio maestro.
Il 10 nov. 1550 il M. rilasciò una quietanza per i pagamenti ricevuti dalla badessa del monastero di S. Patrizia a Napoli, per alcune opere di sistemazione eseguite quando il corpo della santa venne trasferito sotto l’altare marmoreo eseguito nel 1497 da Tommaso Malvito (Morisani, p. 327).
In quello stesso anno venne stampata a Padova la commedia Altilia di Anton Francesco Raineri, dove il M. viene ricordato per la sua abilità come ritrattista.
Secondo Vasari il M. morì a Napoli nel 1558.
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