STABILE, Mariano
– Nacque a Palermo il 25 gennaio 1806 da Giuseppe e da Rosalia Baisi.
Rimasto orfano dei genitori in tenera età, da fratello maggiore dovette occuparsi dell’educazione dei fratelli Francesco e Carlo e della sorella Concetta. Dopo aver compiuto studi di matematica e di economia politica, divenne rappresentante di un’impresa commerciale che esportava zolfo, riuscendo a ricavare da questo lavoro discreti mezzi di sussistenza.
Nel 1845 fu uno dei fondatori e animatori del Casino Geraci che ben presto, da luogo d’incontro della ‘intellighenzia’ dell’alta borghesia cittadina, si trasformò in una fucina di militanti antiborbonici.
Per comprendere pienamente l’esperienza politica e intellettuale di Stabile è necessario inserirla nel più ampio contesto storico della Sicilia dei primi decenni dell’Ottocento. La tradizione culturale nella quale si innestò la sua formazione fu innanzitutto quella della polemica antifeudale che vide due tra i più lucidi interpreti in Nicolò Palmeri, allievo dell’economista Paolo Balsamo, e in Giovanni Aceto. Il primo, nel suo Saggio storico politico, considerava il sistema feudale siciliano un residuo del Medioevo. Il secondo vedeva in quello stesso sistema «il flagello dei più bei paesi d’Europa» (Aceto, 1848, p. 14) con il quale i siciliani avevano pagato a caro prezzo la liberazione dal dominio arabo.
Gli studi di economia politica, centrali nella formazione culturale di Stabile, vantavano in Sicilia una robusta tradizione liberista. Principali esponenti della scuola economica siciliana, una delle più importanti in Italia nei primi decenni del XIX secolo, erano Emerico Amari, Vito D’Ondes Reggio, Francesco Ferrara. Fu quest’ultimo a dare la migliore definizione di quella «generazione novella», alla quale apparteneva di diritto lo stesso Stabile, come di uomini «trascinati a sposare la missione di scegliere la politica e la economia come strumenti sicuri per inaugurare e radicare nel mondo la vera, onesta, la solida base delle libertà d’ogni specie, a costo d’ogni pericolo e sacrificio» (Ferrara, 1890, p. IX).
Si trattava di un nuovo ceto intellettuale, nutrito di una coscienza di tipo europeo e protagonista di una rivoluzione laica e moderna contro l’autoritarismo e il controriformismo del vecchio mondo morale siciliano. Dei membri più influenti del comitato rivoluzionario che dal gennaio del 1848 animò il Risorgimento siciliano (Ruggero Settimo, Stabile, Amari), Martino Beltrani Scalia, un giovane protagonista degli eventi del 1848-49, ebbe a scrivere che si trattava di «un gruppo di persone, le quali, per la loro intelligenza, per la loro rettitudine, per il loro carattere, ed anche pei loro sentimenti liberali moderati, e non tenuti segreti, formavano la parte più eletta del Paese, ed esercitavano sulla pubblica opinione indiscutibile ascendente» (Beltrani Scalia, 1933, I, pp. 245 s.).
Tra la fine del 1847 e l’inizio del 1848 anche questi elementi più moderati dell’opposizione antiborbonica siciliana si convinsero della necessità di prendere le armi per chiedere con forza al re Ferdinando II la concessione di una costituzione che riconoscesse la piena autonomia dell’isola da Napoli. Già nell’ottobre del 1847 il prefetto di polizia di Napoli chiese a quello di Palermo chi fossero «un tal principe di Granatelli, un tal Marocco, un tal Mariano Stabile, un tal Luigi Scalia, che, secondo le rivelazioni avute, formavano il cosiddetto Comitato in Palermo» (I, pp. 253 s.)
Quando, nelle prime ore del giorno 12 gennaio, le vie di Palermo cominciarono a risuonare di grida quali Viva Pio IX!, Viva la Sicilia, Viva l’Italia! alcuni dei capi dell’incipiente moto rivoluzionario – e tra questi Casimiro Pisani, Giacinto Carini, Antonino Minneci, Stabile e Francesco Di Giovanni – si incontrarono presso l’abitazione di Scalia. Alcune centinaia di palermitani armati attaccarono le forze di polizia e le truppe borboniche di stanza in città. Due giorni dopo si costituirono quattro comitati che, insieme, formavano un Comitato generale. In quanto esperto di economia, Stabile era membro del comitato incaricato di provvedere alle finanze, presieduto dal marchese Antonio Starabba di Rudinì. Dal 19 gennaio insorsero le città di Termini, Girgenti, Catania, Caltanissetta, Trapani, Siracusa, Noto. Dopo pochi giorni i soldati borbonici lasciarono Palermo e si concentrarono nella cittadella fortificata di Messina.
Il 2 febbraio il Comitato generale si costituì in governo provvisorio. Settimo ne era presidente e Stabile segretario generale. In tale veste Stabile, destinato a ricoprire un ruolo centrale come rappresentante della parte liberale più moderata del movimento rivoluzionario, redasse il bollettino in cui si affermava recisamente che «il popolo coraggiosamente insorto» non avrebbe deposto le armi e sospeso le ostilità, «se non quando la Sicilia, riunita in generale parlamento», non avesse adattato ai tempi quella costituzione che, «giurata dai suoi re, riconosciuta da tutte le potenze, non si è mai osato togliere a questa isola» (II, p. 17). Il rappresentante britannico a Napoli lord Minto convinse Ferdinando II ad assecondare le richieste dei siciliani, accettando la convocazione di un Parlamento incaricato di adattare ai tempi la costituzione del 1812. Stabile ringraziò Minto della mediazione britannica, confermandogli le richieste del governo provvisorio: un Parlamento separato per la Sicilia, libero di poter discutere tutti gli affari dell’isola e i trattati con le potenze straniere, esclusi quelli commerciali; divieto di introduzione nell’isola di truppe «di qualunque nazione, neppure napoletana», senza il consenso del Parlamento siciliano (Fardella di Torrearsa, 1988, p. 104).
Il 10 febbraio Ferdinando II concesse la costituzione e con un decreto del 6 marzo ufficializzò la convocazione delle elezioni del Parlamento siciliano (composto da una Camera dei Comuni e da una Camera dei pari) per la metà di marzo e la sua solenne apertura per il 25 marzo, affidandogli il compito di adattare ai tempi la costituzione del 1812, a patto che l’integrità della monarchia venisse mantenuta. Con un altro decreto nominò Settimo suo luogotenente generale in Sicilia e Stabile segretario del Consiglio dei ministri, con il grado di direttore di segreteria. Il Comitato generale era quindi diventato un organo ufficiale validato da un atto regio.
Ma i decreti del 6 marzo non valsero a rassicurare il governo rivoluzionario, che inviò al re un ultimatum, con il quale si chiedeva: che il titolo di re del Regno delle Due Sicilie fosse sostituito da quello di re delle Due Sicilie; che il rappresentante del re nell’isola fosse chiamato viceré; che le truppe regie si ritirassero dall’isola; che la Sicilia potesse battere moneta e le venisse consegnata la quarta parte della flotta e delle armi; che in una futura lega politica e commerciale degli Stati italiani l’isola potesse aderire come Stato indipendente.
Di fronte a tali richieste, che avrebbero sancito di fatto la separazione della Sicilia da Napoli, il 22 marzo Ferdinando II dichiarò nulli e privi di efficacia gli atti del Comitato.
Il 25 marzo il Parlamento aprì i suoi lavori. A presiedere il governo, in qualità di reggente del Regno di Sicilia, fu chiamato Settimo, mentre Stabile fu nominato ministro degli Esteri, dell’Agricoltura e del Commercio. Vincenzo Fardella, marchese di Torrearsa, venne eletto presidente della Camera dei Comuni.
Il 13 aprile 1848, ascoltata la relazione introduttiva di Stabile, il Parlamento siciliano dichiarò Ferdinando II di Borbone e la sua dinastia «decaduti per sempre dal trono di Sicilia» (Beltrani Scalia, 1933, II, p. 86). La Sicilia si sarebbe dotata di un governo costituzionale a capo del quale avrebbe chiamato un principe italiano.
Subito dopo l’approvazione del nuovo Statuto siciliano, l’11 luglio 1848 il Parlamento decise di eleggere al trono di Sicilia Alberto Amedeo di Savoia, duca di Genova e figlio del re di Sardegna Carlo Alberto, con il titolo di Alberto Amedeo, re dei siciliani. Ma ben presto l’antagonismo tra le due anime del movimento rivoluzionario dell’isola – quella democratica, popolare e tendenzialmente repubblicana e quella moderata, liberale, filobritannica e monarchico-costituzionale – giunse a livelli estremi. Gli attacchi verso il ministro degli Esteri da parte dei deputati democratici e repubblicani (tra i quali si distinsero soprattutto Pasquale Calvi, Giovanni Raffaele e Giuseppe La Masa) si fecero sempre più numerosi e insistenti. Stabile fu costretto a dimettersi e venne sostituito dal marchese di Torrearsa.
Alla fine di agosto Ferdinando II assegnò al generale Carlo Filangieri il comando del corpo di spedizione militare incaricato di riprendere la Sicilia. Nel frattempo, il tentativo di offrire la corona siciliana a un membro di casa Savoia fallì per il rifiuto opposto dall’interessato.
Tra il 2 e il 3 settembre 1848 il generale Filangieri diede inizio alle operazioni militari. La prima città a cadere fu Messina il 7 settembre, seguita da Milazzo e dalla maggior parte delle città della provincia. In seguito alla mediazione dei comandanti delle due navi, inglese e francese, ancorate nel porto di Messina, fu siglato un armistizio. Di fronte all’inevitabilità della guerra, si decise di rimodulare il governo, chiamando il 14 marzo 1849 Stabile al ministero della Guerra.
Il 24 marzo 1849 il Parlamento respinse l’ultimatum di Napoli e alla fine del mese Filangieri riprese l’offensiva. Questa volta caddero in rapida successione Taormina, Catania, Augusta, Siracusa e Noto. Il 19 aprile il Parlamento siciliano decise di aggiornarsi a tempo indeterminato e il 23 aprile Settimo rassegnò i poteri nelle mani del Municipio di Palermo.
I quarantatré uomini politici che erano stati a capo della rivoluzione siciliana furono esclusi dall’amnistia pubblicata dal generale Filangieri e costretti a partire per l’esilio. Tra questi anche Stabile.
Il 25 aprile 1849 Settimo partì dal porto di Palermo e si recò a Malta accompagnato dal fido Matteo Raeli. Stabile invece si era già imbarcato il giorno precedente su un vapore francese (il Rhamses) insieme a Pietro Lanza, principe di Scordia e Butera, al marchese di Torrearsa, a Michele ed Emerico Amari. Il vapore fece naufragio a Trapani e i passeggeri furono tratti in salvo e imbarcati per Marsiglia su un’altra imbarcazione. Da Marsiglia, Stabile si recò in esilio a Parigi. Qui visse per i successivi dodici anni, adattandosi al lavoro di commesso presso una casa commerciale. Si dedicò altresì instancabilmente alla propaganda antiborbonica, cercando di sollevare la questione siciliana in ambito europeo. Come scrisse Carmelo Pardi, a ulteriore testimonianza della pervicacia e della costanza con la quale, durante l’esilio, Stabile perseguì l’intento di propagandare incessantemente la causa siciliana, in memoria delle «offese fatte alla Sicilia dalla dinastia de’ Borboni [Stabile] portava al dito un anello, dov’era inciso questo bel motto: Tutto o nulla. Ciò voleva significare, co’ Borboni, istigatori delle feroci masnade dei Sanfedisti, preparatori de’ supplizi dell’eroico Caracciolo, e del drappello dei martiri dell’89 [...] con i fedifraghi e spergiuri Borboni, nessun patto, niuna transazione giammai» (Pardi, 1863, pp. 14 s.).
Alla fine degli anni Cinquanta, Stabile si convinse della necessità di unificare l’Italia sotto lo scettro della monarchia sabauda. Scrisse infatti a Michele Amari nel 1856: «Il Congresso [di Parigi] deve dare un calcio a tutti i Papi e Principini, Duchini, ecc., e non essendo sperabile che voglia costituire la Repubblica né una, né federale, ti prego di far dare tutta l’Italia al Re di Piemonte, che diverrebbe Re di tutti gli Italiani continentali e isolani, la Corsica compresa» (Carteggio..., 1896, III, p. 139).
Stabile non prese parte ai preparativi dell’insurrezione del 1860, ma fu felicissimo appena avuta notizia della spedizione delle camicie rosse, che così ebbe a commentare in una sua lettera a Michele Amari quando Garibaldi non era ancora sbarcato a Marsala: «Carissimo Michele. Puoi benissimo immaginare quale sia lo stato dell’animo mio da quattro giorni in qua, dopo l’avviso che m’ebbi con Roccaforte della seguìta spedizione [...]. Come brillerò di gioia quando sentirò quegli uomini generosi già sul suolo siciliano! Qualunque sia l’esito di questa rivoluzione, la Sicilia ha già conseguito un gran bene, la sua riabilitazione morale, e il rispetto di quanti uomini hanno un animo generoso» (p. 198).
Subito dopo la conclusione dell’impresa garibaldina, Stabile ritornò in Sicilia e il 19 ottobre 1860 fu nominato vicepresidente del Consiglio straordinario di Stato nel periodo del governo dittatoriale presieduto da Antonio Mordini.
Pur avendo manifestato la volontà di rinunciare a incarichi istituzionali, fu nominato a capo del Consiglio provinciale e poi senatore del Regno d’Italia, ma non poté recarsi a Torino a prestare giuramento in quanto sofferente di gravi patologie respiratorie.
Nonostante le già malferme condizioni di salute, il 19 dicembre 1862 venne nominato sindaco di Palermo, in sostituzione di Salesio Balsano della Daina, che non aveva dato prova di grandi capacità amministrative. Da economista comprese subito la necessità di dotare la città di nuove infrastrutture.
Tra il 1818 e il 1860-62 l’espansione edilizia di Palermo era rimasta sostanzialmente bloccata, mentre la popolazione era aumentata dai 173.000 abitanti del 1831 ai 194.000 del 1861. Il 5 marzo Stabile scrisse a Michele Amari: «Per noi le opere pubbliche sono un bisogno, più che materiale, politico, perché quando il paese vedesse e toccasse con mani la trasformazione materiale del suolo, le strade, le ferrovie, allora sarebbe più facile fargli sopportare quelle misure legislative che dovrebbero essere prese» (p. 222).
Diventato sindaco, Stabile si sforzò di dare impulso all’attività edilizia, ma nonostante i suoi sforzi per ampliare e irrobustire la rete delle istituzioni scolastiche, avviare numerosi lavori pubblici e risanare i conti comunali, non poté portare a compimento i progetti avviati.
Morì a Palermo il 10 luglio 1863.
Fonti e Bibl.: N. Palmeri, Saggio storico e politico sulla costituzione del Regno di Sicilia infino al 1816, Losanna 1847, passim; G. Aceto, Della Sicilia e dei suoi rapporti con l’Inghilterra all’epoca della costituzione del 1812, Palermo 1848, passim; P. Calvi, Memorie storiche e critiche della Rivoluzione siciliana del 1848, Londra 1851, passim; C. Pardi, Orazione in morte di M. S., Palermo 1863; C. Gemelli, Storia della siciliana rivoluzione del 1848-49, I-II, Bologna 1867; F. Ferrara, Memorie di Statistica, a cura di L. Bodio, Roma 1890, passim; Carteggio di Michele Amari, a cura di A. D’Ancona, I e III, Torino 1896, passim; M. Beltrani Scalia, Memorie storiche della Rivoluzione di Sicilia 1848-1849, I-II, Palermo 1933, ad indices; G. La Farina, Scritti politici, Palermo 1972, ad ind.; V. Fardella di Torrearsa, Ricordi su la rivoluzione siciliana degli anni 1848 e 1849, Palermo 1988, ad ind.; R. Romeo, Il Risorgimento in Sicilia, Roma-Bari 1989, ad ind.; F. Renda, Storia della Sicilia, II, Da Federico II a Garibaldi, Roma 2007, ad ind.; G. Poidomani, Senza la Sicilia l’Italia non è nazione. La Destra storica e la costruzione dello Stato (1861-1876), Acireale-Roma 2008, ad indicem.