MARIANO d'Arborea
Giudice d’Arborea, quarto di questo nome, nacque a Oristano probabilmente nel 1319, secondogenito del giudice Ugone de Bas-Serra. Il padre aveva svolto un ruolo decisivo nella conquista catalano-aragonese della Sardegna alleandosi con Giacomo II re d’Aragona e fornendo al corpo di spedizione dell’infante Alfonso un consistente aiuto economico e militare. Per ricompensare Ugone, che in base agli ordinamenti altomedievali esercitava una sovranità piena, già nel 1323 il re gli concesse in feudo «totum iudicatum Arboree» e i territori extragiudicali allora in suo possesso. Per suggellare l’alleanza con Giacomo II, Ugone inviò M. e il fratello Giovanni a Barcellona per ricevere un’educazione pari al loro grado; i due furono trattati come membri della famiglia regnante: d’altra parte gli Arborea discendevano dai catalani visconti di Bas.
Nel 1333-35 Alfonso IV concesse loro dei feudi nei territori del Principato (il villaggio di Molins de Rey e il castello di Gelida). Nel 1336 M. sposò la nobile Timbors de Rocabertí; anche cinque suoi fratelli sposarono nobili catalane. Il 7 apr. 1332 il re, assegnando a M. i castelli di Goceano e Marmilla nella Sardegna centrale e a Giovanni quelli di Monteacuto e Barumele, ratificò un provvedimento di Ugone del maggio 1331. Nel 1336 M. – armato cavaliere quell’anno – rappresentò il fratello Pietro (III), succeduto a Ugone nel 1335, all’incoronazione di Pietro IV. A Saragozza ebbe l’onore di tenere le redini del cavallo del re. L’11 sett. 1339 il re nominò M. conte del Goceano e signore della Marmilla e, in data ignota, Giovanni signore di Monteacuto e Bosa. M. tornò in Sardegna forse nel 1341 o alla fine del 1342 con la moglie e i figli Ugone e Beatrice (recenti studi hanno corretto l’opinione che vedeva Eleonora secondogenita). Gli anni barcellonesi furono un’esperienza fondamentale nella vita di M., che poté osservare istituzioni, forme di governo e organizzazione amministrativa di una grande monarchia. Nell’atto di fondazione (emanato entro l’ottobre 1336) del nuovo villaggio di Burgos, M. mostrò di tener conto della realtà feudale e delle trasformazioni economiche e sociali del mondo rurale introdotte dalla conquista aragonese: ordinando la costituzione del borgo annesso al castello del Goceano, definì privilegi e incentivi alla colonizzazione, il sistema amministrativo della «villa» e le sue pertinenze territoriali, delineò l’organizzazione produttiva del futuro villaggio e concesse lo sfruttamento esclusivo del «Saltu novu». Oltre la concessione di terre in proprietà individuale o comune, M. accordò ai coloni franchigie ed esenzioni dai servizi reali e personali e dal pagamento per un decennio delle gabellas e l’amnistia per ogni reato, tranne quello di lesa maestà; confermò l’esenzione dalla prestazione della garanzia collettiva per furti e danni ai villaggi vicini (incarica), dalla cui responsabilità per gli indennizzi i giurati furono sollevati. I nuovi abitatori avrebbero dovuto rispettare «sa carta nostra de logu de Gociani», il testo statutario, perduto, emanato appositamente per la costituenda contea.
Tra il 1339 e il 1340 M. commissionò al pittore lorenzettiano conosciuto come «Maestro delle tempere francescane» la pala di Ottana che raffigura il vescovo Silvestro e il donnikellu M. nelle vesti di cavaliere cinto di spada (Serra).
Ai primi del 1347 Pietro (III) morì senza discendenti diretti e M. salì sul trono di Arborea. Agli inizi proseguì la politica filoaragonese del padre e del fratello; anche se già da qualche anno si avvertivano i segni di crisi dell’alleanza, per il mancato riconoscimento da parte della Corona del ruolo di predominio degli Arborea nell’isola. Quando scoppiò la guerra tra Pietro IV e i Doria, che avevano ampi possedimenti nel Nord della Sardegna e i borghi fortificati di Alghero e Castelgenovese (oggi Castelsardo), M., pur restando fedele al re, si mantenne defilato. Nell’agosto del 1347 i Catalani furono sconfitti dai Doria nella battaglia di Aidu de Turdu nei pressi del villaggio logudorese di Bonorva e i pochi scampati si rifugiarono nel castello del Goceano: nel 1348 il re affidò a M. la procura per trattare la pace con i Doria.
Non è semplice, anche per la carenza di fonti di parte giudicale, stabilire i motivi della rottura dell’alleanza tra l’Arborea e l’Aragona. Sullo sfondo era l’insanabile contrasto tra la sovranità regia, che voleva limitare e ridimensionare i poteri di M. riconducendoli nell’alveo feudo-vassallatico, e quella giudicale, che si considerava autonoma e iniziava a nutrire dubbi sulla validità della sottomissione feudale di Ugone (1323). Altro motivo non secondario del conflitto fu la crescente rivalità di M. verso il fratello Giovanni che, tra il 1338 e il 1346, aveva molto accresciuto patrimonio e potere acquistando villaggi, terre e castelli nella Sardegna regnicola, divenendo signore di tutta la Gallura superiore e, di fatto, il più grande feudatario del Regno: il vincolo vassallatico lo legava sempre di più alla Corona e sempre meno al Giudicato. Il re tentò di trovare un accordo tra i due, soprattutto sulla necessità di reprimere la ribellione dei Doria. M. voleva incorporare nei territori giudicali il castello e la villa di Bosa, importante porto della costa occidentale, di cui era signore Giovanni, che, spalleggiato dalla corte catalana, gli resisteva; M. lo fece catturare (estate 1349) e rinchiudere nella torre di S. Filippo a Oristano, dove rimase sino alla morte, avvenuta forse nel 1375-76. Il re ordinò a M. di liberare il fratello, affermando che da lui e non da altri dipendevano i feudatari del Regno, ma M. rifiutò sostenendo che l’intervento del re era un’intromissione negli affari del Giudicato e che la propria azione era l’esercizio di un diritto, quello di punire un suddito ribelle. Il contrasto tra M. e Giovanni si era dunque trasformato in un aperto dissidio tra M. e il re.
Con astuto calcolo M. alzò la posta per ricontrattare l’alleanza con l’Aragona. Il 31 marzo 1353, rispondendo al re che gli chiedeva di radunare fanti e cavalieri per respingere un’eventuale invasione genovese, gli propose di autorizzarlo ad acquistare la fortezza e il territorio di Alghero, «ricettacolo di nemici». Non si trattava di un vantaggio personale (poiché rappresentava un ulteriore aggravio di spese) ma di una reciproca utilità: il vero sostegno della Corona in Sardegna era la solidità dell’accordo con l’Arborea. In principio il re pensò di accettare la richiesta; a corte era però forte il partito avverso a M., i Montcada, che peroravano la causa di Giovanni; altri sostenevano che non si dovesse cedere ai ricatti di un feudatario sardo e da Cagliari, inoltre, il governatore generale sconsigliava ulteriori ingrandimenti dei territori giudicali. La risposta fu perciò negativa. Già qualche mese prima era stata segretamente aperta un’inchiesta sui danni provocati da M. agli ufficiali e ai domini regi. Pur mantenendo una posizione neutrale, M. si mostrava sempre più compiacente verso i Doria, dando loro aperto sostegno in uomini e denaro, permettendo alle loro truppe il libero passaggio nei territori giudicali, rifornendo di vettovaglie la fortezza di Alghero. La situazione cambiò quando il 18 luglio partì da Valencia una flotta comandata dall’ammiraglio Bernat de Cabrera, che il 27 agosto sconfisse a Porto Conte l’armata genovese. Il 30 Alghero si arrese. Il 3 settembre Cabrera intimò a M. di presentarsi ad Alghero per discolparsi del suo comportamento ambiguo e della arbitraria prigionia di Giovanni, ma soprattutto per fare atto di sottomissione. Accettare avrebbe significato ridimensionare la propria sovranità; M. preferì inviare in sua vece la moglie Timbors, parente del Cabrera. Le trattative non ebbero risultati, anche per l’atteggiamento contrario della Municipalità cagliaritana. A metà settembre scoppiò inevitabilmente la guerra.
Le truppe arborensi entrarono nei territori regi del Cagliaritano senza incontrare valide resistenze. Molti villaggi si ribellarono ai baroni iberici e abbracciarono la causa giudicale. L’esercito di M. occupò Quartu, a poche miglia da Cagliari, e tenne in scacco la città. Il 18 settembre i consiglieri di Cagliari chiesero soccorso al Cabrera, che si trovava nel Nord dell’isola: la situazione era precaria e gli abitanti non osavano allontanarsi dal castello. Gli approvvigionamenti erano difficoltosi poiché M. aveva tagliato i rifornimenti a Cagliari e a Villa di Chiesa (oggi Iglesias). Solo il 6 ottobre il Cabrera sconfisse i Giudicali nei pressi di Quartu e allentò la morsa. Nel Nord intanto divampavano le ribellioni fomentate dai Doria: il 13 ottobre insorgeva la rocca di Monteleone e il 15 veniva «liberata» la fortezza di Alghero. Alla fine del mese M. e Matteo Doria assediarono Sassari con 400 cavalieri e un migliaio di fanti. L’anno si chiudeva con l’occupazione da parte degli Arborea e dei Doria di quasi tutta la Sardegna rurale, restavano nelle mani del re Cagliari, Sassari, Villa di Chiesa (ma anch’essa si ribellerà nell’aprile del 1354) e alcuni castelli.
M. aveva notevoli capacità militari, come stratega e come comandante. Grazie alle cospicue esportazioni cerealicole – egli stesso commerciava in proprio – il Giudicato aveva le risorse per sostenere un esercito capace di confrontarsi alla pari con quello catalano: disponeva di fanti e cavalieri reclutati nei villaggi e anche di un corpo di balestrieri e di un forte nerbo di soldati di ventura comandati da capitani italiani. Da una lettera (non datata) di Caterina da Siena a fra Guglielmo d’Inghilterra su una progettata crociata risulta che M. aveva dato la disponibilità ad andare in Terrasanta con un proprio esercito.
In ottobre iniziò a Cagliari l’istruttoria del capitano generale del Regno nei confronti di M. per i crimini di fellonia e lesa maestà. In realtà la guerra del 1353-54 era ancora una rivolta feudale fatta a difesa dell’autonomia giudicale e degli ingrandimenti territoriali acquisiti, ma evitando una rottura senza ritorno col re.
Dinanzi al deteriorarsi della situazione, Pietro IV allestì una costosissima spedizione per stroncare le ribellioni nell’isola. L’enorme flotta, comandata dallo stesso re, arrivò il 22 giugno 1354 a Porto Conte: l’obiettivo era riconquistare Alghero.
L’assedio, durato cinque mesi, fu un disastro militare e finanziario: la malaria mieté vittime tra soldati e dignitari di corte. M. si attestò a Bosa con le sue truppe e al momento opportuno si portò a sole 4 miglia dal re, ma non diede battaglia. Il re non volle correre il rischio di una disfatta, che avrebbe pregiudicato la conquista di Alghero e le stesse sorti della Sardegna, e preferì intavolare trattative con M. e raggiungere un onorevole accordo.
Il 13 novembre fu firmata la cosiddetta pace di Alghero, con la quale M. ottenne molti degli obiettivi per cui aveva preso le armi: l’autonomia di governo del Giudicato, la libertà di commercio dai porti arborensi, l’infeudazione delle terre galluresi e la clausola che il governatore generale del Regno fosse persona a lui gradita. A queste condizioni il 16 novembre Pietro IV poté impossessarsi di Alghero.
Raggiunta la tregua, il re si dedicò alla riforma delle strutture di governo e alla unificazione politico-istituzionale del Regno: dal 15 febbraio al 14 marzo 1355 presiedette i lavori del primo Parlamento convocato in Sardegna. M., membro dello stamento militare, non si presentò all’assemblea (sarebbe stata un’aperta sottomissione alla sovranità regia), delegando Ranieri de’ Gualandi. L’11 luglio fu stipulato a Sanluri un nuovo trattato di pace per dare assetto definitivo agli accordi di Alghero, coinvolgendo anche i Doria. M. avrebbe restituito al re alcuni castelli occupati durante la guerra, ma nel complesso vide confermate tutte le condizioni a lui favorevoli. La sua fama superava i confini dell’isola: venuto a conoscenza dell’alleanza stretta tra M. e la Repubblica di Genova, Petrarca in una lettera (febbraio-marzo 1353) al doge «et Consilio Ianuensium», pervasa da intenso calore retorico per la guerra «cum externis hostibus», prendeva a pretesto la ribellione arborense per un più ampio discorso sulle libertà italiane.
Col trattato di Sanluri si aprì un decennio di pace, durante il quale M. si dedicò alla riforma delle strutture di governo, al riordino della legislazione e alla modernizzazione della società arborense.
Negli anni Cinquanta-Sessanta M. emanò gli Ordinamentos de vingias de lavores e de ortos, il cosiddetto «codice rurale», costituito da 27 capitoli che – dal cap. 133, che ha un proemio, al cap. 159 – furono inseriti integralmente nell’edizione a stampa della Carta de Logu del 1480 circa: mancano infatti nel precedente manoscritto quattrocentesco (cfr. Besta, pp. 1-15), creando ripetizioni e antinomie col testo dello statuto promulgato da Eleonora. Nel proemio del «codice» M. tracciava un desolante quadro della realtà agraria dell’Arborea e del Logudoro e dichiarava di essere stato indotto a emanare questi capitoli dai «multos lamentos» dei sudditi sullo stato dei terreni devastati e isteriliti dalla scarsa cura dei proprietari e dei pastori nel custodire il bestiame. Il «codice» esprimeva le traumatiche trasformazioni della società agraria del Trecento dovute alla guerra, allo spopolamento delle campagne, alla rapacità del regime feudale catalano, all’abbandono delle colture a favore delle attività pastorali. Mostrando una consapevole sollecitudine a favore della sicurezza dei coltivi, M. tracciava le linee di una politica agraria che evidenziava con rigore una linea di demarcazione tra agricoltura e pastorizia. Veniva costituito (capp. 133 s.) un corpo di «jurados de padru» o «padrargios» per la sorveglianza delle vigne e degli orti con l’incarico di verificare che fossero ben chiusi e di denunciare il bestiame che danneggiava le proprietà, perseguire i ladri campestri e stimare i danni. Si prescriveva che i proprietari di terreni dovessero coltivarli a vigna o cederli a chi intendeva bonificarli; in caso contrario il fondo sarebbe stato devoluto al Demanio (cap. 138). I proprietari di vigne e orti erano obbligati a recintarli e a farli verificare dai giurati del villaggio (cap. 134). Il bestiame trovato a pascolare nei terreni doveva essere «tenturato», catturato o ucciso (capp. 135 e 137). Severe disposizioni erano previste contro furti e danneggiamenti (capp. 142-145) e sconfinamenti di bestiame (capp. 135-137, 148-156). Nel 1353 M. abolì il servaggio nei territori giudicali e in quelli incorporati, forse per far fronte alla guerra contro l’Aragona con uomini liberi e affrancati: una riforma di enorme portata per i villaggi sardi, che stravolgeva gerarchie sociali consolidate.
Nel proemio della Carta de Logu (emanata tra il 1390 e il 1392) la giudicessa Eleonora richiamò il testo della precedente Carta (promulgata forse tra il 1367 e il 1374) da suo padre, che non era stata emendata e riformata da oltre sedici anni e necessitava quindi di revisione. Poiché non ci è pervenuta la Carta de Logu di M. è impossibile stabilire quanto Eleonora abbia riprodotto o innovato della legislazione paterna. Nella Carta di Eleonora, dunque, sarebbe stata inserita in pieno la Carta di M. che esprimeva la cultura romano-canonistica del suo compilatore (Era, 1960). La probabile data di promulgazione dovrebbe essere il 1374, anno plausibile per questa iniziativa (Cortese, 1999), poiché M. era stabilmente in possesso di quasi tutto il territorio isolano. Non ha avuto molto credito la tesi di Di Tucci secondo cui la Carta de Logu sarebbe stata influenzata dal diritto catalano-aragonese: oltre la rielaborazione delle antiche consuetudini locali anche la Carta di M., come quella pervenuta di Eleonora, si sarebbe inserita nell’ambito della tradizione statutaria italiana e, in particolare, di quella pisana e avrebbe recepito ampiamente il diritto romano che in Sardegna vigeva per via consuetudinaria. Un legame con la tradizione culturale italiana era dato anche dalla persistenza nella Cancelleria arborense – riorganizzata da M. – dei caratteri diplomatistici e grafici sardo-pisani a proposito della scrittura (la minuscola cancelleresca), dello stile della datazione (quello pisano), dei formulari usati: si sarebbe trattato insomma di una «gotica cancelleresca arborense» che avrebbe marcato un’autonomia dalla letra catalana con l’emanazione di «documenti statali» recanti tutti gli «attributi della sovranità» (Casula, 1978).
Nel 1364-65 la ripresa del conflitto contro l’Aragona si inserì in un diverso contesto politico e diplomatico; innanzitutto M. aprì le ostilità approfittando della guerra in corso tra Castiglia e Aragona: Pietro IV non era infatti in grado di combattere su due fronti. Nel 1364, sfruttando a proprio favore i ritardi di due lustri nel pagamento del censo dovuto alla S. Sede dal re, M. (che dal 1355 a sua volta non corrispondeva più il censo annuo al re) pensò di sfruttare la propensione palesata da Urbano V di dare a lui l’investitura del Regnum Sardiniae, togliendola a Pietro IV.
L’ipotesi sfumò, ma rende chiari i disegni di M.: occupare tutta l’isola per poi tentare di ottenerne dalla S. Sede il dominio; pur godendo di prerogative sovrane all’interno dei territori arborensi, per diventare re di Sardegna aveva assoluta necessità di un’investitura papale. Le trattative con la Curia proseguirono sino al 1374 quando Pietro IV ventilò l’ipotesi di una investitura feudale a M. del Cagliaritano e di Villa di Chiesa. M. poneva come condizione per la pace la concessione in feudo di tutta la Sardegna in cambio di una forte somma e di un censo annuale, pur sotto l’alta sovranità aragonese; la richiesta non ebbe seguito.
L’offensiva militare antiaragonese si sviluppò di nuovo verso il Campidano e il Sigerro: nel 1365 M. si mosse verso Cagliari conquistando villaggi e castelli e Villa di Chiesa, che si era ribellata. Nella primavera del 1366 fu costruito a Selargius, alle porte di Cagliari, un campo fortificato che bloccava i rifornimenti alla città. Le truppe giudicali saccheggiarono i borghi cagliaritani e le saline, ma il castello non era intenzionato a cedere. M. intanto, che disponeva ancora una volta dell’appoggio genovese, aprì un nuovo fronte nel Nord. Nel 1367 guadagnò al proprio campo Brancaleone Doria, signore di Castelgenovese, già alleato della Corona, aprendo le trattative per il matrimonio della terzogenita Eleonora (nata probabilmente tra il 1350 e il 1352; la secondogenita Beatrice aveva sposato nel 1363 il visconte Aimerich di Narbona), che avrebbe portato in dote la rocca di Casteldoria. Un’alleanza con i Doria, cementata dal matrimonio, era decisiva per la guerra anticatalana e la conquista dei territori isolani.
Pietro IV nel giugno 1368 sbarcò a Cagliari un’armata che, approfittando della debolezza delle difese arborensi, puntò su Oristano, che non era stata mai assediata dalle truppe aragonesi. L’assedio durò poche settimane: il donnicello Ugone giunse in soccorso alla testa di un esercito reclutato nei territori regi occupati. Mentre i Catalani si preparavano alla battaglia, M., con grande intuito, uscì dalla città attaccandoli alle spalle e sconfiggendoli. Nel 1369, dopo breve assedio, fu conquistata Sassari. Nel 1370 la presenza aragonese in Sardegna era ridotta alle città di Cagliari e Alghero e ai castelli di San Michele, Gioiosaguardia, Acquafredda e Quirra. Nel 1374 la flotta genovese, in appoggio a M., forzò il porto di Cagliari ma fu respinta dalla resistenza delle truppe regie.
Ma proprio nel momento di maggior potenza, M. morì nel maggio del 1375 in un’epidemia di peste.
La data della morte di M., tradizionalmente fissata al 1376, è stata ora corretta sulla base di un dispaccio del governatore del Capo di Sassari del 13 giugno 1375, che informava il sovrano della morte del «jutge d’Arborea» e della grande «mortalidad» di peste (Sanna).
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