MARIA de’ Medici, regina di Francia
Nacque a Firenze il 26 apr. 1573, da Francesco I, granduca di Toscana, e da Giovanna d’Austria, figlia dell’imperatore Ferdinando I d’Asburgo.
La sua nascita suscitò qualche delusione, poiché, dopo molte gravidanze non andate a buon fine e la nascita di tre figlie, di cui due morte in tenera età, si sperava in un erede maschio, in grado di garantire la prosecuzione della dinastia medicea. La mancanza di un erede non era del resto l’unico motivo di turbamento nei rapporti tra i genitori di Maria. Già da tempo, infatti, gli amori di Francesco de’ Medici e Bianca Cappello, una nobildonna veneziana, avevano creato tensioni, fino a sfociare in un incidente diplomatico con la corte viennese. Finalmente nel 1577 nacque un figlio maschio, Filippo, morto però in giovane età, ma la successiva gravidanza fu fatale a Giovanna d’Austria, che morì il 9 apr. 1578.
Rimasta orfana di madre in tenera età, M. fu allevata alla corte di Firenze, con l’attenzione che si confaceva a una principessa del suo rango.
Non hanno infatti fondamento le voci, diffuse già tra i contemporanei e poi riprese da molti storici, secondo cui l’ascesa di Bianca Cappello, moglie del granduca dal 1578, avrebbe isolato M. e la sorella Eleonora, le figlie superstiti di Giovanna d’Austria. Le due principesse ebbero un’educazione raffinata e di alto livello. M. fu formata allo studio dell’arte e della letteratura e, grazie alla guida di uno dei pittori prediletti dal padre, il veronese Iacopo Ligozzi, divenne una notevole conoscitrice delle correnti più importanti della pittura contemporanea. Anche nell’ambito della corte medicea, a M. fu sempre riservato un posto di rilievo, tanto che le fu assegnato uno degli appartamenti più importanti di palazzo Pitti.
Oltre al granduca, che rimase una figura di sfondo, anche perché morì abbastanza presto, nel 1587, M. fu legata alla sorella Eleonora, dal 1584 duchessa di Mantova, al fratellastro don Antonio de’ Medici, al cugino Virginio Orsini, duca di Bracciano, e alla moglie di questo, Flavia Damasceni Peretti. Il rapporto più profondo e duraturo, però, fu quello con Leonora Dori Galigai, figlia della sua balia e compagna di giochi durante l’infanzia. Donna di notevole intelligenza e spiccata personalità, fu nominata nel 1588 cameriera di M. ed esercitò una forte influenza su di lei, tanto che finì per giocare un qualche ruolo nelle trattative per il matrimonio di Maria. Non va tuttavia trascurato un altro legame, che allo stato attuale delle ricerche resta ancora abbastanza oscuro: quello con Passitea Crogi, singolare figura di religiosa cappuccina e profetessa, assai ben accetta alla corte medicea, che avrebbe predetto il futuro matrimonio di M. con Enrico IV. M. rimase sempre molto legata a Passitea, la invitò due volte in Francia, nel 1602 e nel 1609 e fece pubblicare una sua vita (V. Venturi, Vie incomparable de la bienheureuse mère Passidée de Sienne, Paris 1627).
Le trattative per accasare M. furono iniziate dal nuovo granduca, lo zio Ferdinando I, alla fine degli anni Ottanta del Cinquecento. Si trattò per un matrimonio con un rampollo di casa Este o Farnese, poi con il duca Teodosio di Braganza, infine con Mattia d’Asburgo, fratello dell’imperatore Rodolfo II, che era rimasto vedovo, o con lo stesso Rodolfo. L’ipotesi asburgica acquistò una qualche consistenza, ma verso il 1592 Ferdinando cominciò a pensare a un matrimonio francese. Le ragioni di questo cambiamento di prospettiva non sono del tutto chiare. Si può tuttavia ipotizzare che Ferdinando desiderasse un legame con la Francia sia per controbilanciare la forte influenza ispano-imperiale sul Granducato sia per ottenere più facilmente la restituzione dei grossi prestiti elargiti alla Corona francese. L’ipotesi di un matrimonio con Enrico IV era del resto caldeggiata dalle famiglie toscane che, trasferitesi in Francia sotto Caterina de’ Medici, avevano raggiunto posizioni di spicco nella politica e nella finanza, come i Gondi. Proprio uno dei Gondi, Geronimo, grande banchiere, formulò le prime richieste al granduca nel 1599.
I problemi da risolvere non erano pochi. Formalmente Enrico IV era ancora sposato con Margherita di Valois, ma si sperava di ottenere senza difficoltà dal papa lo scioglimento del matrimonio. Assai più serio era però il problema dell’amante ufficiale di Enrico IV, Gabrielle d’Estrées, che gli aveva dato tre figli. Enrico IV aveva più volte manifestato il desiderio di sposarla e solo la morte di Gabrielle, nell’aprile 1599, liberò il sovrano dalle sue incaute promesse. C’era poi la questione della dote. Alla corte francese ci si illudeva di poter ottenere la remissione dell’intero debito accumulato negli anni, che ammontava a più di un milione di scudi del sole, ma su questo punto Ferdinando si mostrò un negoziatore più coriaceo del previsto e le trattative si arenarono. Dopo una breve interruzione, fu avviato un confronto stabile, tra l’ambasciatore toscano a Parigi, Baccio Giovannini, e i ministri francesi Nicolas de Neufville, signore di Villeroy, e Maximilien de Béthune, futuro duca di Sully. Alla fine del dicembre 1599 fu concluso l’accordo, che prevedeva una dote di 600.000 scudi, di cui 350.000 in contanti e il resto come saldo di una quota dei debiti. Nel frattempo, però, Enrico IV, spinto dalla sua prorompente sensualità, aveva compiuto un passo che avrebbe a lungo gravato sulla vita di M., promettendo per iscritto alla sua nuova amante, Henriette d’Entragues, di sposarla nel caso in cui la donna avesse generato un figlio maschio entro la primavera del 1600.
Il contratto di matrimonio tra il re di Francia e M. fu firmato a Firenze il 25 apr. 1600. Il 5 ottobre, a Firenze, M., ignara della promessa fatta a Henriette, sposò per procura Enrico IV, rappresentato dal granduca Ferdinando, e ricevette da Roger de Bellegarde l’anello nuziale donatole dallo sposo. Il matrimonio fu solennizzato da una serie di celebrazioni estremamente elaborate, con un fastoso ricevimento a palazzo Vecchio, al quale seguì, il giorno successivo, la rappresentazione di una favola pastorale destinata a rimanere un punto importante nella storia della musica, l’Euridice, scritta da Ottavio Rinuccini e musicata da Iacopo Peri e Giulio Caccini.
Il 13 ottobre M. lasciò definitivamente la Toscana, accompagnata da una piccola flottiglia di galere e da un vasto seguito, all’interno del quale spiccava il ministro Belisario Vinta. Il 9 novembre raggiunse Marsiglia, dopo un viaggio non facile. Anche lo sbarco fu più tumultuoso di quanto si immagini osservando la grande tela che P.P. Rubens dedicò all’evento, e non mancarono tafferugli tra la popolazione marsigliese e i marinai toscani. A Marsiglia M. fu accolta da tutta la corte, ma non dal marito, impegnato in una spedizione in Savoia. All’inizio di dicembre passò a Lione, dove il matrimonio fu nuovamente celebrato alla presenza di un legato papale, il cardinal nipote Pietro Aldobrandini, e consumato con grande soddisfazione di Enrico IV, che confidò all’ambasciatore veneziano Marino Cavalli di aver trovato la moglie attraente e ricca di spirito.
M. giunse a Parigi il 9 febbr. 1601 ed ebbe un’impressione assai sfavorevole della reggia, il Louvre, che aveva un aspetto trascurato e semiabbandonato. Ben presto anche le sue impressioni sul marito dovettero subire alcune brusche correzioni, a causa del persistente legame tra Enrico IV e la favorita Henriette d’Entragues, che, sin dall’inizio, si dimostrò assai poco disposta a cedere il passo alla nuova regina.
M. rimase incinta molto presto e già il 27 sett. 1601 partorì il suo primo figlio, il futuro Luigi XIII, al quale seguì, nel novembre 1602, Elisabetta, futura regina di Spagna. L’evento fu straordinariamente festeggiato e M. poté misurare l’affetto dei sudditi per la monarchia, le cui sorti apparivano ora più rosee che in passato. Il piccolo Luigi fu poi trasferito nel castello di Saint-Germain-en-Laye, dove sarebbero cresciuti anche gli altri figli di M., che, rimessasi rapidamente dal parto, riprese il suo posto a fianco del re.
Pur non essendo chiamata a vere e proprie funzioni politiche, M. aveva un ruolo importante nella vita di corte e nella gestione dei rapporti, innanzitutto cerimoniali, con l’aristocrazia francese. Importante fu pure il suo patronage nei riguardi degli ordini religiosi, come i gesuiti, che protesse, e i cappuccini. Né può essere sottovalutato il suo ruolo nell’organizzazione di spettacoli teatrali, soprattutto balletti (rimasero famosi il Ballet des usuriers e la Mascarade de la foire Saint-Germain). Per molti versi, si può anzi dire che M. rappresentò un tramite importante per la penetrazione in Francia della cultura fiorentina dell’epoca, specialmente nel campo delle arti minori, e in particolare dell’oreficeria.
Nell’ambiente della corte francese M. stabilì rapporti piuttosto stretti con diversi personaggi dell’aristocrazia, come l’anziana duchessa Catherine de Clèves, vedova di Henri de Lorraine duca di Guisa, e sua figlia Louise Marguerite, futura principessa di Conti, e Henriette-Catherine duchessa di Montpensier, e con personaggi di qualche rilievo politico e finanziario, come il ministro M. de Béthune, duca di Sully, e il banchiere, di origine lucchese, Sebastiano Zamet, ma rimase soprattutto legata all’ampia colonia italiana. Anche in questa fase il personaggio centrale nella vita di M. rimase la sua antica amica Leonora Dori, nominata dame d’atour della regina, che nel 1601 sposò il fiorentino Concino Concini, un avventuriero conosciuto durante il viaggio matrimoniale di M., discendente da una famiglia importante, ma visto con generale diffidenza, sia a Firenze sia a Parigi. I due ricevettero un cospicuo dono di 70.000 lire tornesi e, soprattutto, si garantirono un posto di rilievo, seppure non di primissimo piano, a corte. L’ascesa di Concini fu tuttavia lenta; solo nel 1605 fu nominato maître d’hôtel della regina, mentre risale al 1608 il conferimento all’astuto fiorentino della carica di premier écuyer di Maria. L’influenza dei due su di lei era del resto valutata negativamente da Enrico IV, che pure fece da padrino alla secondogenita dei Concini, Maria, nata nel 1608.
Uno degli aspetti della vita di M. che più ha attratto l’interesse dei biografi è la natura dei suoi rapporti con Enrico IV. Specialmente tra fine Ottocento e inizio Novecento si è molto insistito sulle loro frequenti liti, proponendo un’immagine di M. come burbera consorte di un marito donnaiolo. La realtà era più sfumata. L’affetto di Enrico IV per la moglie, in effetti, fu rilevato da molti osservatori e non può essere messo in discussione. Esisteva però il nodo del rapporto tra il re e Henriette d’Entragues, che si prolungò con alterne vicende dal 1599 al 1608 e creò a tratti tensioni assai aspre. In gioco, più che l’amore, c’era la posizione a corte della favorita e dei figli. Su questa questione, cerimoniale e politica innanzitutto, si produsse un grosso scontro tra il re e M. nel corso del 1604. Di fronte alla pretese di Enrico IV di riunire i suoi figli legittimi e illegittimi per farli allevare insieme, M. reagì vietando ogni contatto tra i bambini e ciò provocò una rottura, che fu in qualche modo ricucita grazie all’intervento di Sully. Nel 1605 Henriette cadde momentaneamente in disgrazia, in quanto implicata, con tutta la sua famiglia, in una congiura per assicurare, con l’appoggio della Spagna, il trono al figlio Gaston, che la favorita aveva avuto da Enrico IV nel 1601, ma già nel 1606 i tradimenti coniugali ripresero.
Anche il rapporto di M. con i figli è stato discusso. Le ricerche dell’erudizione ottocentesca hanno diffuso e consolidato un’immagine di M. come madre assente. Una tale visione è tuttavia molto legata alla memorialistica ostile a M. e deve essere sostanzialmente corretta sulla base di dati piuttosto sicuri. È vero che il delfino crebbe fino all’età di 7-8 anni fuori dalla corte sotto la tutela di un’istitutrice severa, Françoise de Longuejou, baronessa di Monglat, alla quale peraltro il futuro Luigi XIII restò sempre affezionato, e visse traumaticamente le assenze dei genitori e la non calorosa affettività di M.; tuttavia, il soggiorno a Saint-Germain-en-Laye fu scelto per ragioni di salute, data la nota insalubrità del Louvre. Inoltre, M. dimostrò sempre un’attenzione premurosa nei riguardi dei figli, e in particolare del primogenito, come è testimoniato dallo straordinario diario del medico del delfino, J. Héroard (Journal, a cura di M. Foisil, Paris 1989).
Il 10 febbr. 1606 M. diede alla luce una figlia, Cristina, che sposerà Vittorio Amedeo di Savoia e accompagnò per alcuni mesi il marito, impegnato nella repressione della rivolta del duca Henri de Bouillon. Nell’aprile 1607 nacque un altro figlio, Nicolas, che morì nel 1611, e nel 1608 la successione reale fu definitivamente consolidata con la nascita di Gaston, futuro duca di Orléans. Ultima tra i figli di M. fu Enrichetta Maria, che nacque nel novembre 1609.
Il ritmo delle gravidanze non poteva tuttavia occultare il tormentato rapporto coniugale. Dopo il progressivo distanziamento da Henriette d’Entragues, Enrico IV concepì un folle innamoramento per la giovane Charlotte de Montmorency. Per facilitare il suo ingresso a corte, il re decise di farla sposare con suo nipote, Henri (II) de Bourbon, principe di Condé. Inizialmente la manovra riuscì, ma ben presto il principe di Condé si rese conto della natura delle attenzioni del sovrano nei confronti della giovane moglie e fuggì con lei nei Paesi Bassi spagnoli, creando una forte tensione diplomatica tra Francia e Spagna. M., che era a conoscenza della vicenda, non manifestò apertamente i suoi sentimenti, ma operò segretamente per ostacolare i progetti del marito.
Nonostante i dissidi, M. ottenne dal marito un importante riconoscimento il 12 maggio 1610, quando fu fastosamente incoronata nell’abbazia di St-Denis. Due giorni dopo, la sua vita subì un’improvvisa svolta a causa dell’assassinio di Enrico IV, per mano di François Ravaillac.
La morte del re rappresentò un colpo gravissimo per M.: ora si apriva una situazione del tutto nuova, in cui M. doveva assumere compiti di governo ai quali era largamente impreparata, senza disporre di collaboratori a lei legati da un rapporto personale di fiducia.
Mentre si svolgeva il processo a Ravaillac, che fu giustiziato il 27 maggio 1610, M. fu dichiarata reggente dal Parlamento di Parigi e, in quella veste, prese alcuni provvedimenti per assicurare l’ordine pubblico e conciliarsi il favore popolare, sopprimendo alcune tasse. Il 17 ott. 1610 il giovane Luigi XIII, che aveva raggiunto il suo nono anno, fu incoronato a Reims.
La reggenza di M. si apriva in un contesto politico complesso, in cui l’autorità monarchica era sfidata da importanti esponenti dell’aristocrazia e i risultati raggiunti dal forte governo di Enrico IV rischiavano di essere cancellati dalla ripresa di una guerra civile strisciante. M. aveva avuto la fortuna di poter assumere la reggenza mentre l’elemento più pericoloso della fronda aristocratica, il principe di Condé, si trovava ancora lontano da Parigi, ma ben presto le lotte fazionarie ripresero. Di fronte ai rischi di implosione della struttura politica francese, M. dovette limitarsi ad assorbire le spinte centrifughe, alternando non frequenti affermazioni di autorità a concessioni che tacitassero l’alta nobiltà, mantenendola in uno stato di precaria fedeltà alla Corona. Mancò invece quasi del tutto una progettualità tesa a riformare lo Stato.
Probabilmente in quelle condizioni non era possibile fare molto di più, ma resta il dubbio, espresso da numerosi contemporanei, che la debolezza dell’autorità della reggente fosse in relazione anche alla mediocrità dei suoi collaboratori. Il Consiglio reale che M. ereditò da Enrico IV ruotava intorno a due personaggi di rilievo, Maximilien Sully, ministro delle finanze, e Nicolas de Neufville, signore di Villeroy, responsabile degli affari esteri. Progressivamente, però, assunse un ruolo sempre più importante Concini, che tra il 1610 e il 1611 acquistò, con il denaro di M., il marchesato di Ancre, entrò nel Consiglio di Stato e ottenne la carica di primo gentiluomo di camera del re e luogotenente generale della Piccardia, con il possesso dell’importante piazzaforte di Amiens. L’ascesa di Concini fu tuttavia lenta e contrastata. Pur dimostrando qualche abilità nella gestione del patronage reale, egli non era uomo capace di imprimere una direzione alla politica francese, anche a causa di evidenti limiti culturali, e la sua avidità finì presto per alienargli una parte consistente dell’aristocrazia. Del resto, la stessa M. non considerò mai Concini un primo ministro, pur non lesinandogli riconoscimenti, soprattutto economici. La fiducia di M. andava, come sempre, alla sua antica amica Leonora, l’unica vera dispensatrice della benevolenza sovrana.
L’inizio dell’ascesa di Concini coincise con la fine del potere di Sully, che tuttavia fu vittima delle tensioni che stavano esplodendo tra gli antichi collaboratori di Enrico IV, più che di una mai dimostrata ostilità da parte di Maria. Già nell’estate del 1610 si avvertirono i segni di una svolta politica imminente. La grande aristocrazia, capeggiata dal principe di Condé, richiese un allargamento del Consiglio di reggenza e un alleggerimento della pressione fiscale e trovò una qualche sponda in Sully, che rifiutò di partecipare all’incoronazione di Luigi XIII, in esplicita polemica con la reggente e con il suo collega Villeroy. Nell’ottobre 1610 Sully fu richiamato a corte e M. trovò un accordo con Condé che, in dicembre, ottenne alcune piazzeforti e cospicue sovvenzioni economiche. Si inaugurava così una politica di alienazione del patrimonio regio, largamente praticata negli anni seguenti, ma che suscitò la recisa opposizione di Sully. Dopo un nuovo scontro con Villeroy, all’inizio del 1611 Sully ruppe definitivamente con M. e diede le sue dimissioni da ministro delle Finanze, ottenendo tuttavia di conservare le sue lucrose cariche legate al governo del Poitou. Il licenziamento di Sully non provocò una crisi politica: M. e Villeroy seppero manovrare abilmente e riuscirono a staccare i principi protestanti dal vecchio ministro, che cessò ogni attività politica.
Gli eventi del 1610-11 chiarirono che la reggenza sarebbe stata un regime debole, costretto a confrontarsi con la crescente aggressività aristocratica.
Conscia della debolezza della struttura centrale di governo, M. accettò il programma politico fissato all’inizio del 1611 da Villeroy in un Avis a cui seguirono, fino al 1614, altri memoriali, dedicati specificamente alla politica estera. L’idea guida era di perseguire una politica di pacificazione interna, assorbendo il ribellismo dell’aristocrazia mediante concessioni politiche e finanziarie, e di disimpegnarsi dai conflitti europei limitandosi a salvaguardare la posizione internazionale della Francia. Anche in questi ambiti, tuttavia, M. si mosse almeno in parte lungo le linee tracciate da Enrico IV.
Numerosi studi hanno dimostrato che non ci sono elementi per confermare la tesi, diffusa nella storiografia otto-novecentesca, secondo cui Enrico IV, alla vigilia del suo assassinio, avrebbe deciso di abbandonare la prudente politica estera degli anni precedenti e di aprire un conflitto con la Spagna. Vero è che M. e i suoi consiglieri accentuarono gli sforzi per una pace duratura a costo di rinunciare a quella grandeur che, in diversi momenti, Enrico IV aveva perseguito.
Sul piano internazionale, l’avvio di un rapporto cordiale con la Spagna può essere fatto risalire al 1610, quando M. ritirò le truppe francesi dalla Germania, ponendo così le premesse per una soluzione del conflitto intorno al Ducato di Jülich-Cleves-Berg, che fu però sancita solo con il trattato di Xanten nel novembre 1614. Poco dopo prese corpo l’idea di stabilizzare l’intesa tra le due grandi potenze rivali, un’idea nata da Villeroy, dal ministro Pierre Jeannin, dal cancelliere Nicolas Brulart de Sillery e caldeggiata dal Papato in funzione antiprotestante. In questo ambito maturò pure, già nel corso del 1610, l’idea di un patto matrimoniale franco-spagnolo con le nozze incrociate tra Luigi XIII e Anna d’Austria e tra l’infante Filippo e la giovanissima Elisabetta di Borbone. Nel gennaio 1612 il progetto era giunto a uno stadio avanzato e fu reso pubblico nel corso di un ricevimento al Louvre.
La scommessa sul fatto che la stabilizzazione internazionale avrebbe consentito un rafforzamento dell’autorità monarchica fu presto perduta, di fronte al coagularsi dell’opposizione aristocratica intorno al principe di Condé, che pure, in una prima fase, aveva dato il suo consenso alle trattative matrimoniali. I più gravi problemi politici cominciarono nel 1614. In febbraio Condé lasciò la corte e pubblicò un manifesto con cui attaccava Concini e chiedeva la convocazione degli Stati generali. M. dovette scendere a patti con il partito dei principi e firmò il trattato di Sainte-Ménehould (maggio 1614), con cui accettò di convocare gli Stati generali e concesse ai ribelli una serie di elargizioni economiche che misero a dura prova il Tesoro. Nel contempo M. cercò di rinsaldare l’affetto del popolo per la monarchia, intraprendendo un viaggio nelle province occidentali della Francia per mostrare il giovane Luigi XIII ai ceti dirigenti locali.
Il 1614 fu, sotto molti aspetti, un annus mirabilis. Mentre continuava una guerra civile strisciante, il 2 ottobre Luigi XIII fu dichiarato maggiorenne, nell’estremo tentativo di rilanciare il declinante prestigio della monarchia. Poco dopo, il 27 ottobre, si aprirono gli Stati generali.
La riunione, a tratti disorganica, si tramutò in una sconfitta di Condé e in un potente sostegno alla monarchia, anche se non mancarono richieste di una politica economica che conducesse a una riduzione del peso della taille e all’abolizione della paulette. M. si impegnò ad attuare le riforme proposte dagli Stati ma, di fatto, non prese alcuna iniziativa concreta e, così facendo, finì per offrire argomenti al partito di Condé, che poté uscire dalla marginalità in cui era caduto. Nel corso delle sedute degli Stati generali cominciò a segnalarsi un prelato di notevole intelligenza, A.-J. du Plessis de Richelieu, che presentò all’assemblea il cahier del clero; nel novembre 1615 fu nominato elemosiniere di Anna d’Austria e da quella data la vita del futuro cardinale rimase a lungo intrecciata a quella di Maria.
La conclusione degli Stati generali (febbraio 1615) portò a una breve stabilizzazione politica, nonostante il perdurare dei tentativi di Condé per indebolire l’autorità di Maria.
Proprio in quel periodo M. si sentì pronta a realizzare un’idea alla quale da tempo teneva: la costruzione di un grande palazzo sulla riva sinistra della Senna. Già dal 1611-12 M. aveva avviato il progetto e aveva compiuto una serie di acquisti immobiliari, tra i quali quello del palais du Luxembourg, che avrebbe dato il nome al nuovo palazzo della regina. I lavori veri e propri iniziarono solo nel 1615, sotto la direzione dell’architetto Salomon de Brosse, che li diresse fino alla morte (1626). De Brosse abbandonò l’idea originaria di imitare il modello di palazzo Pitti e si orientò sul progetto di un vasto palazzo quadrangolare che ricorda piuttosto il castello di Vernueil, pur evocando il gusto toscano in alcuni elementi decorativi. La decorazione degli appartamenti, iniziata nel 1621, non era ancora terminata quando M. prese possesso del palazzo, nell’estate del 1629. A quella data, tuttavia, era già compiuto il grande ciclo di Rubens (1625), che rappresenta una delle poche testimonianze di quello che i contemporanei ammirarono come uno dei più splendidi palazzi d’Europa.
Con la conclusione degli Stati generali fu possibile portare a compimento il progetto dei cosiddetti matrimoni spagnoli. Il 9 nov. 1615, sul fiume Bidassoa, Luigi XIII accolse sua moglie, Anna d’Austria, mentre la figlia di M., Elisabetta, fu affidata al suo sposo, il principe delle Asturie, futuro Filippo IV. Anche se i rapporti tra Luigi XIII e Anna d’Austria si rivelarono non privi di problemi, il doppio matrimonio rappresentò un grande successo diplomatico che ridisegnava i rapporti internazionali della Francia, anche se, sul piano interno, non produsse gli effetti sperati. Già nel maggio del 1615 Condé ed Henri de La Tour d’Auvergne, duca di Bouillon, che erano stati in prima linea nell’opposizione ai matrimoni spagnoli, cominciarono ad ammassare un esercito, reclamando l’applicazione integrale delle riforme proposte agli Stati generali. Pur disponendo di forze sufficienti a rintuzzare questa nuova ribellione, M. temette il rischio di un’escalation militare e riprese trattative diplomatiche che sfociarono nel trattato di Loudun (maggio 1616). In virtù di questo nuovo accordo, i principi ribelli furono in qualche modo ridotti all’obbedienza con una distribuzione massiccia di governi e pensioni, ma era evidente che si trattava di un armistizio che poteva preludere a una ripresa delle ostilità. Alla fine di luglio 1616 Condé rientrò a corte, dopo una serie di importanti avvicendamenti nel ministero, con le dimissioni del guardasigilli Nicolas Brulart de Sillery, rimpiazzato da Guillaume du Vair, la nomina di Claude Barbin, intendente della casa della regina, a controllore generale e quella di Claude Mangot a segretario di Stato, e la disgrazia di Villeroy. Con questo massiccio ricambio fu definitivamente cancellato il vecchio gruppo di governo che M. aveva ereditato da Enrico IV e si formò una struttura di governo largamente nuova, che prevedeva un’inedita convivenza tra Concini e Condé. Di fatto si profilò un ministero infeudato a Concini e privo dell’autorevolezza necessaria a elaborare una politica coerente sulle grandi questioni del momento, dal rapporto con la Spagna alla questione degli ugonotti. Per un breve periodo, nell’estate del 1616, Condé manovrò per liberarsi di Concini e isolare M., ma il 1° sett. 1616 il principe fu arrestato con un colpo di mano e rinchiuso nella Bastiglia. Poco dopo, alla fine di novembre, Richelieu, che aveva saputo accattivarsi il favore di Concini e, sebbene giovane, era reputato un personaggio di valore, entrò nel Consiglio al posto di Mangot, che divenne guardasigilli.
Gli eventi del 1616 furono valutati dai contemporanei come un trionfo di Concini. E nella stessa maniera dovette pensarla la plebe parigina, che in settembre aveva distrutto il palazzo di Concini a Faubourg-Saint-Germain. Privi di Condé, i principi reagirono in maniera scomposta. All’inizio del 1617 Bouillon, Henri de Lorraine, duca di Mayenne, Carlo I Gonzaga, duca di Nevers, e César Bourbon duca di Vendôme, uno dei bastardi di Enrico IV, si ribellarono, sostenuti da una pubblicistica che denunciava il dominio degli stranieri sulla Francia. Il partito dei principi si dimostrò tuttavia incapace di spingere fino in fondo la ribellione e fu messo rapidamente in difficoltà dalle truppe regie. Sembrava, dunque, che anche questo pronunciamento potesse essere sopito con la concessione di qualche carica e prebenda, quando un fatto nuovo segnò la fine del potere di Maria. Il colpo non venne, questa volta, dall’aristocrazia, ma da un personaggio che lei e i suoi consiglieri avevano sottovalutato: Luigi XIII.
Il giovane sovrano viveva con crescente fastidio la sua condizione di minorità ed emarginazione. Privo di reali poteri, era trattato con sufficienza dalla madre che, come lei stessa confidò al nunzio G. Bentivoglio, lo riteneva inadatto al governo e gli preferiva il fratello minore, Gaston, tanto che vi fu chi ritenne – a torto – che M. volesse assicurare a quest’ultimo il trono di Francia. L’isolamento del sovrano era reso ancor più grave dalla protervia di Concini che, ormai sicuro della propria posizione, ignorava Luigi XIII o lo sfidava apertamente, trascurando deliberatamente i segni di omaggio che gli erano dovuti. Le umiliazioni subite e la rigida coscienza dei propri doveri verso la Francia crearono nel sovrano una sorda ostilità verso la madre e i suoi fedeli, che fu abilmente rinfocolata dal suo favorito, Charles d’Albert de Luynes, un gentiluomo del Contado Venassino legato a Luigi XIII da un’amicizia profonda e affettuosa. D’altro canto, era ormai palpabile nell’opinione pubblica francese una crescente insoddisfazione per la reggenza, anche se l’ostilità popolare non si indirizzava tanto verso M., quanto piuttosto verso Concini e i suoi collaboratori, specie se italiani. Gli stessi ministri Barbin e Richelieu si rendevano conto della progressiva degenerazione che stava colpendo le strutture centrali di governo e offrirono le loro dimissioni. E anche numerosi aristocratici fedeli alla monarchia temevano che la sconfitta dei ribelli non avrebbe rafforzato l’autorità regia, ma semplicemente la posizione del favorito di Maria. Pur non rendendosene conto, Concini si trovava in una posizione sempre più precaria, ma M. non volle dare corso ai consigli di rimuoverlo che le venivano da più parti.
Nel corso del 1617, in un contesto politico sempre più cupo, Luigi XIII maturò il progetto di liberarsi di Concini. La questione fu più volte discussa con Luynes e con M. Déageant, un burocrate al servizio di M. come collaboratore del controllore generale Barbin, ma non si riuscì a elaborare un piano credibile per realizzare quello che era un vero e proprio colpo di Stato. Finalmente, alla fine di marzo si decise di tentare l’arresto di Concini durante una delle sue visite al Louvre, affidando l’incombenza al capitano delle guardie, Nicolas de l’Hôpital, duca di Vitry. M. ebbe qualche notizia delle frequenti riunioni che si tenevano nelle stanze di Luigi XIII ma, ancora una volta, sottovalutò il figlio e non riuscì a intuirne i progetti.
La mattina del 24 apr. 1617 Concini stava entrando al Louvre quando fu affrontato da Vitry e dai suoi che, di fronte a un accenno di reazione, lo uccisero. Al momento dell’uccisione di Concini, M. si trovava nelle sue stanze e nel giro di pochi minuti ricevette la notizia. Dopo qualche ora di smarrimento cercò di ottenere udienza da Luigi XIII, ma questi rifiutò di riceverla e la confinò nei suoi appartamenti.
L’eliminazione di Concini rappresentò uno spartiacque nella storia francese. L’ossessione di liberarsi del favorito aveva tanto occupato le menti di Luigi XIII e di Luynes che non si era pensato alle basi su cui impiantare un nuovo regime. Anche la sorte di M. appariva incerta. Sotto molti aspetti, l’esecuzione di Concini era un «matricidio per interposta persona», ma per Luigi XIII M. rimaneva una figura psicologicamente e politicamente ingombrante e non era facile immaginare una via indolore per allontanarla dal potere. Già nei mesi precedenti il sovrano e i suoi collaboratori avevano individuato come unica soluzione praticabile relegare M. all’interno del territorio francese, ma i dettagli pratici di un simile progetto non erano mai stati definiti.
M. rimase per nove giorni nei suoi appartamenti al Louvre, «derelitta e abbandonata» (G. Bentivoglio, Memorie, Venezia 1647, p. 313), mentre Luigi XIII si rifiutava ostinatamente di vederla. Il 3 maggio 1617, dopo un freddo commiato dal figlio, M. dovette lasciare Parigi e stabilirsi nel castello di Blois. Di fatto, le condizioni di M. erano prossime a quelle di una prigioniera. Guardata a vista da alcune compagnie di soldati, le fu vietato di lasciare il castello, dove era circondata da una piccola corte, sopravvissuta ai processi che avevano colpito i suoi più importanti collaboratori, nella quale spiccavano Clemente Bonsi, vicario generale della diocesi di Béziers e, fino all’estate del 1617, Richelieu, che cercò con scarsa fortuna di accreditarsi presso Luynes come credibile tramite tra Luigi XIII e sua madre.
Tuttavia la situazione politica rimase incerta. Nel corso del 1617 si verificarono tentativi di riavvicinare Luigi XIII e M., ma furono gli stessi interessati a condannare quei tentativi al fallimento. Del resto, si era in una fase in cui il sovrano sembrava deciso a proseguire fino in fondo le sue vendette contro i fedeli della madre, prima fra tutti Leonora Dori, che fu processata per stregoneria e decapitata l’8 luglio 1617.
Nel 1618 appariva ormai chiaro che la disgrazia di M. non era passeggera. Luigi XIII temeva un suo ritorno a corte e Luynes la fece sorvegliare strettamente. Dopo un primo periodo, le fu concesso di mantenere contatti epistolari, ma nel frattempo si fece il vuoto tra i suoi fedeli. Richelieu fu relegato ad Avignone, mentre il ministro Barbin, accusato di aver mantenuto una corrispondenza politica con M., nell’agosto 1618 fu condannato alla reclusione a vita. La stessa M., a novembre, fu indotta a firmare una dichiarazione con cui assicurava che non avrebbe tentato di influire sugli affari del Regno, ottenendo in cambio la mitigazione delle condizioni di reclusione.
All’inizio del 1619 M. decise di fuggire da Blois, fidando nell’appoggio di alcuni importati aristocratici, e in particolare di Jean-Louis de Nogaret de La Vallette, duca d’Epernon, governatore di Metz e luogotenente generale delle milizie del Regno. Il 22 gennaio evase rocambolescamente con il suo piccolo seguito e, in marzo, raggiunse le forze del duca d’épernon ad Angoulême; da lì promosse una campagna pubblicistica, che non ottenne grande successo, contro i ministri di Luigi XIII. Questi, da parte sua, si mosse con una certa cautela, limitandosi a far liberare Condé e a creare un cordone di truppe fedeli con cui limitare l’estensione della rivolta. In aprile la Corona si orientò a fare concessioni che sfociarono nel controverso trattato di Angoulême (12 maggio 1619). Il trattato prevedeva un perdono per i partigiani di M. e la concessione a questa del governo dell’Angiò, in cambio di quello della Normandia, e di una serie di punti fortificati (Angers, Chinon, Ponts-de-Cé). Ma la precipitazione con cui avvenne la stesura del trattato lasciò una serie di questioni aperte, che furono solo in parte risolte da ulteriori colloqui nella seconda metà dell’anno.
L’azione di M. in questa fase è stata giudicata piuttosto severamente dalla storiografia. Già a molti contemporanei, del resto, ella apparve dominata da alcuni intriganti membri del suo entourage, come l’abate toscano Luigi Rucellai, e quasi ossessionata da un desiderio di rivalsa su Luynes, che l’avrebbe condotta a dimenticare i propri doveri verso la Francia. Si tratta di giudizi che contengono una parte di verità, ma che appaiono parziali, perché non considerano l’entità della crisi costituzionale apertasi dopo la morte di Enrico IV e non risolta dal colpo di Stato di Luigi XIII. In una situazione in cui ormai da molti anni il ribellismo aristocratico si scontrava con l’autorità monarchica, la «ribellione» di M. costituì un episodio, seppure inedito e non marginale, di un confronto politico intorno al nucleo del potere monarchico che andava ben al di là del rapporto tra la regina madre e suo figlio.
Nel settembre 1619 M. e Luigi XIII si incontrarono ufficialmente nel castello di Couzières, presso Tours, ma dal colloquio non venne una vera rappacificazione, tanto che M. rifiutò di tornare a Parigi e si stabilì ad Angers. Nuove tensioni si produssero a ottobre per la riabilitazione di Condé, interpretata da M. come un’altra sconfessione della sua politica.
Nella prima metà del 1620 si sviluppò una nuova rivolta nobiliare, a cui aderirono personaggi di prima grandezza come il duca di Mayenne, il principe Henri (II) de Rohan ed Henri de Gondi, cardinale di Retz. M. cercò di dirigerla promuovendo la pubblicazione di una serie di manifesti che reclamavano riforme politiche e amministrative ma, di fatto, i ribelli non riuscirono a coordinare la loro azione e condannarono al fallimento la rivolta. Dopo un inutile colloquio di pacificazione tra M. e alcuni ministri di Luigi XIII, nel luglio 1620 il sovrano impose ai suoi pavidi consiglieri di passare all’azione e già il 7 agosto le truppe regie ottennero una facile e decisiva vittoria sui ribelli nella battaglia di Ponts-de-Cé.
Dopo la vittoria, Luigi XIII e Luynes manifestarono una non del tutto comprensibile volontà di accordo e iniziò una nuova, fitta trattativa, che tardò ad approdare a una conclusione. Mentre Richelieu auspicava un pronto rientro di M. a corte, M. poneva come condizione un ridimensionamento del ruolo di Luynes e, non ottenendo di rientrare nel Consiglio, rimase nell’Angiò suscitando sospetti sulle sue intenzioni. Le circostanze finirono per favorire i disegni di Maria. Nel 1621 Luynes intraprese una sfortunata campagna contro gli ugonotti del Sud della Francia, che si concluse con lo scacco dell’assedio di Montauban e con la morte del favorito (dicembre 1621), a causa di una banale influenza.
Grazie a questo inaspettato evento, la situazione di M. e del suo protetto Richelieu migliorò rapidamente. In un primo momento, M. cercò di riallacciare i rapporti con il figlio inviando prima il maresciallo Louis de Marillac, conte di Beaumont-le-Roger, e poi Richelieu a corte, ma non ottenne granché. Pur privo di un favorito, Luigi XIII era molto legato ai consigli di Condé, di Henri de Schomberg, duca di Nanteuil-le-Haudouin, e di Henri de Gondi che gli suggerivano prudenza. Nondimeno, sin dal febbraio 1622 M. poté rientrare in Consiglio. In seguito, la morte del cardinale di Retz aprì nuovi spiragli. M. ottenne che Richelieu fosse candidato alla berretta cardinalizia, che gli fu concessa già nel settembre 1622.
Alla fine del 1622 Richelieu si riavvicinò al ministro degli Esteri, Pierre Brulart, visconte di Puisieux, e al guardasigilli Nicolas Brulart de Sillery e cominciò ad accreditarsi come l’unico personaggio capace di imprimere una nuova direzione all’azione di governo, sostenendo una politica estera pacifica ma ferma rispetto agli Spagnoli, che ottenne un primo successo con il trattato di Parigi (7 febbr. 1623), che rinsaldò l’alleanza con Venezia e la Savoia. Nel frattempo M. offriva il suo contributo al rafforzamento del ruolo politico della Francia esplorando la possibilità di un matrimonio tra la figlia Enrichetta Maria e l’erede al trono d’Inghilterra, il futuro re Carlo I Stuart.
Tra il 1623 e il 1624 M. infittì le sue pressioni per ottenere da Luigi XIII l’entrata di Richelieu nel Consiglio. Il sovrano, inizialmente, resistette ma, di fronte all’evidente mediocrità degli altri consiglieri, cominciò a dare credito alle osservazioni della madre, alla quale, in questa fase, era particolarmente legato. Il 29 apr. 1624 Richelieu entrò in Consiglio, imponendosi rapidamente sugli altri membri. Già in agosto Charles de La Vieuville, sovrintendente alle Finanze, al quale veniva attribuita la responsabilità della politica estera rinunciataria degli ultimi anni, fu rimosso dalla carica e processato.
Alla metà degli anni venti del Seicento M. aveva riacquistato un ruolo di primo piano, anche se, ammaestrata dagli avvenimenti degli anni precedenti, tendeva a non esporsi troppo. Del resto, Luigi XIII era attorniato da fedeli della regina, primi fra tutti Michel de Marillac, sovrintendente alle Finanze dall’agosto del 1624, e Richelieu. Anche se è difficile analizzare con precisione la reale influenza di M. sulla politica francese di quegli anni, è abbastanza evidente che si identificava in pieno con la politica perseguita da Richelieu.
Il cardinale mirava a ridimensionare la forza degli ugonotti e a creare intorno alla Francia una solida rete di alleanze realizzando un compromesso, destinato a essere superato dagli eventi, tra le aspirazioni del «partito devoto» e le aspettative di rilancio della Francia. Di suo M. aggiunse forse una qualche maggiore inclinazione all’intolleranza religiosa e una velata ostilità per la nuora Anna d’Austria.
La principale questione su cui M. si impegnò in quegli anni, il matrimonio inglese di Enrichetta Maria, si concluse felicemente nel novembre 1624 grazie all’opera di Richelieu. Il matrimonio fu celebrato per procura a Parigi l’11 maggio 1625 e festeggiato due settimane dopo con un fastoso ricevimento al palais du Luxembourg, che rappresentò per M. un piccolo trionfo, rafforzato dal peggioramento dei rapporti tra Luigi XIII e Anna d’Austria. Nel corso del ricevimento gli invitati poterono ammirare il ciclo della vita di M., dipinto da Rubens per la grande galleria sulla base di un programma iconografico ispirato dalla stessa protagonista, che valorizzava una lettura della recente storia di Francia in cui la regina madre assumeva un ruolo centrale e gli episodi di contrasto con il figlio venivano riassorbiti in un’immagine pacificante e gloriosa.
Sulla politica europea si stavano però addensando nubi minacciose. Nella primavera del 1625 Richelieu ordinò alle truppe francesi di occupare i forti della Valtellina, che erano stati posti sotto il controllo delle truppe papali dopo la guerra del 1621 tra la Spagna e i Grigioni. Nel maggio 1625 il cardinale F. Barberini giunse in Francia in qualità di legato per trovare un accomodamento sulla questione della Valtellina e protestare contro le politiche aggressive del governo francese.
Anche in tale circostanza, M. occupò un posto di rilievo, almeno a livello cerimoniale, mentre non risulta che si sia opposta alle iniziative di Richelieu, che pure andavano contro i suoi desideri di mantenere buoni rapporti con la Spagna e con il Papato. Congedatosi il cardinale Barberini con un sostanziale nulla di fatto, M. partecipò, alla fine di settembre, a una grande assemblea di notabili, nella quale poté nuovamente misurare il prestigio che aveva ormai riacquistato.
In quel giro di anni, la situazione interna francese rimase instabile. Ai nodi irrisolti del rapporto tra la monarchia e gli ugonotti, che si erano sollevati in diverse aree della Francia, si aggiunsero i tormentati rapporti tra Luigi XIII e suo fratello, l’inquieto Gaston, duca d’Angiò e, dal 1627, duca di Orléans.
Dal momento che Luigi XIII non riusciva ad avere figli, M. sostenne il progetto di un matrimonio tra Gaston e Marie Bourbon duchessa di Montpensier, la più ricca ereditiera di Francia. Pur di malavoglia, il sovrano si piegò a questa prospettiva, ma Gaston tergiversò a lungo e si fece inviluppare, insieme con la regina Anna d’Austria, in un confuso complotto, orchestrato da Marie de Rohan, duchessa di Chevreuse, e dal maresciallo Jean Baptiste d’Ornano. In sostanza, i cospiratori miravano a posporre il matrimonio di Gaston in modo da lasciare aperta la possibilità di un futuro matrimonio tra il duca d’Angiò e la cognata Anna d’Austria nel caso di una non improbabile morte del valetudinario Luigi XIII. Venuto a conoscenza di queste manovre, il sovrano reagì con durezza e il 3 maggio 1626 ordinò l’arresto del maresciallo d’Ornano e, poco dopo, di César e Alexandre de Vendôme, due bastardi di Enrico IV che erano stati della partita. Gaston, da parte da sua, fu costretto a firmare l’impegno di non avere alcun contatto con nemici della monarchia.
Fu una delle tante promesse non mantenute dall’incostante duca. Due mesi dopo, Gaston fu coinvolto in un altro complotto, promosso dal maestro della guardaroba del re, Henri de Talleyrand-Périgord, conte di Chalais, che fu arrestato e giustiziato il 19 agosto e, dopo aver subito un vero e proprio interrogatorio davanti a Luigi XIII e a M., Gaston dovette piegarsi a sposare la duchessa di Montpensier (6 ag. 1626). Questi intricati complotti turbarono non poco la vita di corte, ma rafforzarono ulteriormente la posizione di M., anche a causa del coinvolgimento dell’entourage di Anna d’Austria nelle trame di quei mesi.
Il ruolo di M. rimase importante anche nei due anni successivi, quando Luigi XIII e Richelieu affrontarono la guerra contro gli ugonotti, fino alla sua conclusione, con la caduta di La Rochelle il 28 ott. 1628. Durante i lunghi periodi in cui Luigi XIII fu impegnato presso l’esercito, tra l’autunno del 1627 e l’autunno del 1628, M. fu chiamata ad assumere nuovamente il titolo di reggente, pur senza rivestire compiti di direzione politica, che rimasero nelle mani di Richelieu.
Il 1628 fu per molti aspetti un anno di svolta. M. vide nella sconfitta degli ugonotti il coronamento della politica da lei avviata durante la reggenza e ritenne forse che si potesse aprire un periodo di relazioni cordiali con la Spagna, ma l’evoluzione della politica internazionale finì per frustrare le sue aspettative.
Alla fine del dicembre 1627 la morte senza eredi del duca Vincenzo II Gonzaga aprì una crisi europea e offrì alla Francia l’occasione di rimettere in discussione l’assetto italiano, sostenendo con le armi i diritti del duca Carlo I di Gonzaga Nevers. Il 26 dic. 1628, nel corso di un consiglio, le posizioni favorevoli e contrarie alla guerra si confrontarono. Mentre Richelieu, appoggiato da de Schomberg, sostenne con tutto il peso della sua autorevolezza il progetto di un intervento militare in Italia, i capi del partito dei dévots, il cardinal Pierre de Bérulle, il guardasigilli Michel de Marillac e la stessa M. si opposero a una tale prospettiva, riproponendo la vecchia politica della reggenza, basata sul mantenimento di buoni rapporti con la Spagna, e sostennero l’esigenza di proseguire la guerra contro gli ugonotti nella Linguadoca per rafforzare l’autorità regia all’interno del Paese. Luigi XIII, una volta di più, accettò la proposta di Richelieu. Nel gennaio 1629 il sovrano assunse personalmente il comando dell’esercito che muoveva verso l’Italia e M. fu nominata reggente. La campagna in Piemonte fu fortunata ma non risolutiva e si affiancò a una nuova spedizione contro i protestanti del Midi, che si concluse nel giugno con la resa dei ribelli. I successi militari ritardarono solo di qualche mese l’esplosione dei conflitti latenti all’interno del gruppo dirigente che attorniava Luigi XIII. Dopo la morte di Bérulle, il 2 ott. 1629, il partito dei dévots ebbe difficoltà a contenere il crescente attivismo di Richelieu e M. cominciò a presentarsi, con la sua consueta irruenza, come un’implacabile antagonista del cardinale.
La viscerale ostilità di M. per il suo vecchio collaboratore nasceva dal rifiuto della politica estera aggressiva e antispagnola, che doveva apparirle machiavellica e non rispondente agli ideali controriformistici che l’avevano da sempre animata. Tuttavia, si ha talora l’impressione che, oltre alla diversità delle opzioni politiche, giocassero un ruolo moventi psicologici più profondi, primo fra tutti il timore di essere nuovamente messa ai margini e privata di influenza sul figlio e sulla vita politica francese. In seguito, M. affermò che il raffreddamento dei suoi rapporti con Richelieu datava al 1627, e c’è chi ha parlato addirittura del 1625 anticipando un po’ troppo gli eventi. Nel corso del 1629, infatti, la posizione di M. rimase ancora abbastanza aperta, come lo era del resto quella di Marillac.
In febbraio, M. e Luigi XIII furono concordi nell’opporsi a un progetto di matrimonio tra Gaston d’Orléans, rimasto vedovo nel 1627, e Marie de Nevers. In agosto, però, si verificò un primo scontro aperto tra M. e Richelieu, che indusse quest’ultimo a presentare le sue dimissioni, prontamente respinte dal sovrano. Da questa data, gli eventi precipitarono rapidamente. Nell’autunno del 1629 ripresero le ostilità in Italia settentrionale e i Francesi rientrarono in Piemonte per difendere Casale. Dopo un consiglio tenuto a Lione, Luigi XIII assunse il comando dell’armata tra nuove lamentele di M., che temeva per la salute del figlio e giudicava avventurista la politica di contrapposizione con la Spagna. Questa volta la spedizione militare fu assai meno fortunata, anche a causa dell’esplosione di un’epidemia di peste, e il sovrano dovette rientrare in patria, mentre Richelieu assunse la direzione delle operazioni in Italia, che ottennero alterni successi. Se infatti le truppe francesi occuparono Pinerolo, rafforzando le posizioni sul versante italiano delle Alpi, nel luglio 1630 un esercito imperiale mise a sacco Mantova. Proprio questo evento, sembra, convinse definitivamente M. a prendere le distanze da Richelieu.
Nel settembre 1630, mentre si trovava a Lione, Luigi XIII cadde gravemente ammalato. In breve tempo fu in fin di vita e ricevette l’estrema unzione. In una situazione confusa gli avversari di Richelieu, il maresciallo Louis de Marillac, François de Bassompierre, marchese d’Haroué, e Charles de Lorraine, duca di Guisa, cominciarono a elaborare piani per il futuro. Si prevedevano già l’ascesa al trono di Gaston d’Orléans, il ritorno al potere di M. e l’allontanamento o, come propose il maresciallo Marillac, l’uccisione del cardinale. Le condizioni del sovrano migliorarono, ma nel frattempo i plenipotenziari francesi firmarono il trattato di Ratisbona (13 ott. 1630), con cui la Francia si impegnava a non appoggiare i nemici dell’Impero. Era, per molti versi, una sconfessione della politica di Richelieu e una vittoria del partito di M., e il cardinale rifiutò di ratificarlo rinfocolando l’ostilità della regina madre.
Nel novembre del 1630 la corte fece ritorno a Parigi e Richelieu cercò di riallacciare rapporti cordiali con M., ma senza riuscire nell’intento. Probabilmente M. riteneva di aver riacquistato il suo ascendente su Luigi XIII, da lei premurosamente assistito durante la malattia, e decise di aprire le ostilità licenziando Richelieu dalla carica di sovrintendente della sua casa. Si giunse così alla convulsa giornata dell’11 nov. 1630, nota come journée des dupes.
Gli eventi sono assai noti, anche se non è facile trarre un’interpretazione univoca dai resoconti spesso contraddittori dei protagonisti. In quel giorno Luigi XIII si recò da M., al palais du Luxembourg, ed ebbe con lei un colloquio tempestoso. Dopo aver ingiuriato la sua dama di compagnia, Marie-Madeleine de Vignerod duchessa d’Aiguillon, nipote di Richelieu, M. ripeté al figlio, che rimase in silenzio, tutte le sue lamentele contro Richelieu e ne chiese il licenziamento. Al colmo della sfuriata, il cardinale entrò nella stanza attraverso un passaggio secondario. La sua improvvisa comparsa provocò una vera e propria crisi di nervi di M., che accusò Luigi XIII di preferire un servitore alla propria madre, e un crollo psicologico dello stesso Richelieu. Luigi XIII pose termine all’incresciosa situazione ordinando a Richelieu di ritirarsi e, poco dopo, rientrò nei suoi alloggi. Nelle ore successive si verificò una vera e propria commedia degli equivoci. M. ritenne di aver vinto la partita e che Richelieu sarebbe stato presto sostituito da Michel de Marillac, mentre il cardinale si attendeva di essere licenziato o imprigionato. Ma non andò così. A sera Luigi XIII chiamò Richelieu, gli riconfermò la sua fiducia e gli comunicò di aver disposto l’arresto di Marillac. Retrospettivamente, M. sostenne che, se solo avesse sbarrato le porte dei suoi appartamenti, Richelieu non avrebbe avuto scampo; questa tesi è stata fatta propria da molti dei suoi biografi ma appare, nondimeno, poco credibile. Di fatto, Luigi XIII aveva da tempo fatto una scelta di campo piuttosto netta e, sebbene restio a rompere con la madre, non era disposto a rinunciare al più abile dei suoi ministri e a consegnarsi nelle mani del partito devoto. In questo senso, appare eloquente il silenzio che il re mantenne durante il colloquio. Infastidito dalla mancanza di dignità dimostrata da M., Luigi XIII soppesò le sue proposte, ma prese una decisione solo in un momento successivo, rifiutando di assumere qualsiasi impegno.
Nelle settimane successive Richelieu poté celebrare il suo trionfo e prendersi le sue vendette. Bassompierre fu inviato alla Bastiglia, dove rimase per dodici anni, Michel de Marillac fu recluso e, dopo non molto (1632), morì, mentre suo fratello Louis, che comandava l’armata d’Italia, fu processato e decapitato.
Rimasta isolata politicamente e umanamente, M. rifiutò con ostinazione le offerte di riconciliazione che le venivano da Richelieu e Luigi XIII, alternando manifestazioni di orgoglio a repentini crolli psicologici che la condussero, nel dicembre 1630, a un’effimera tregua con il cardinale, che durò lo spazio di pochi giorni.
Il 30 genn. 1631 Gaston d’Orléans dichiarò apertamente la sua ostilità a Richelieu. Nel giro di pochi giorni, Luigi XIII decise di troncare l’opposizione al ministro e, il 22 febbr. 1631, relegò M. nel castello di Compiègne e disperse il suo entourage. Isolata e timorosa di essere inviata in Toscana, M. rifiutò le proposte di trasferirsi nel castello di Moulins e, il 15 luglio 1631, fuggì dalla sua reclusione, con l’intento di raggiungere la fortezza di La Capelle, al confine con i Paesi Bassi spagnoli, per impadronirsene e trattare con il figlio da una posizione di forza. Del resto, già da alcuni mesi suo figlio Gaston aveva compiuto una scelta analoga, rifugiandosi a Nancy, in Lorena. Questa volta il progetto di M. fallì, a causa della resistenza del governatore della fortezza, e non le rimase altro da fare che attraversare la frontiera con i Paesi Bassi spagnoli e porsi sotto la protezione della governatrice Isabella d’Asburgo.
Di fatto, la scelta di M. risolse quello che per Luigi XIII stava diventando un problema politico spinoso e, non a caso, l’esilio si rivelò definitivo. Da questa data M. non poté più rientrare sul territorio francese e trascorse il resto della vita in sempre più velleitari intrighi per abbattere il potere di Richelieu. Del resto, che i tempi erano cambiati apparve subito chiaro. Non appena M. fece pervenire al Parlamento di Parigi le sue proteste contro Richelieu, Luigi XIII reagì vietando ai sudditi di mantenere comunicazioni con M. e fece sequestrare le sue rendite. In questa fase, tuttavia, M. era ancora fiduciosa nella possibilità di un rientro in Francia, e ancora piena di forza la rappresenta il grande ritratto dipinto da Antoon Van Dyck nell’autunno del 1631, che M. portò sempre con sé.
In un primo momento M. fece affidamento sulle forze militari ammassate in Lorena da Gaston d’Orléans, che nel gennaio 1632 aveva sposato in segreto la sorella del duca Carlo III (IV) di Lorena, Marguerite. A primavera Gaston unì le sue forze a quelle di Henri de Montmorency, governatore della Linguadoca, e del duca di Lorena, ma Richelieu fu più veloce. In maggio un esercito francese entrò in Lorena e già in luglio le truppe regie sconfissero quelle ribelli. Montmorency fu catturato e giustiziato, mentre Gaston si affrettò a sottomettersi, impegnandosi a cessare ogni rapporto con Maria. Come sempre, le promesse del duca d’Orléans non ressero a lungo e già alla fine del 1632 egli lasciò la Francia per Bruxelles, ottenendo, dopo qualche insistenza, il perdono materno. In questa fase il governo spagnolo, che in precedenza aveva valutato con scetticismo le iniziative di M. e Gaston, esplorò la possibilità di coinvolgerli in una grande alleanza antifrancese, insieme con la Lorena e l’Impero, ma questo disegno non prese mai forma compiuta.
Gli anni portarono nuove delusioni a Maria. Nell’ottobre 1634 Gaston si rappacificò con Richelieu e fece ritorno in Francia. Il 19 maggio 1635, dopo anni di ostilità strisciante, la Francia dichiarò guerra alla Spagna e M. si trovò in una situazione difficile. Pur odiando profondamente Richelieu, non se la sentì di prendere apertamente posizione contro la Francia e si limitò a indirizzare a Gaston una lettera con cui lo esortava ad adottare una politica di pace che lo avrebbe reso arbitro della Cristianità; ma il gioco era ormai più grande di lei e M. si trovò in balia degli eventi. Rimasta priva di una parte del suo seguito, che fu espulso dai Paesi Bassi spagnoli, dovette abbandonare Bruxelles e rifugiarsi ad Anversa, fuggendo l’avanzata delle truppe francesi. Progressivamente anche le risorse finanziarie si esaurirono e M. divenne un’ospite sempre più ingombrante per il governo spagnolo che, pur continuando a sovvenzionarla, cercò di indurla a lasciare il paese. Nel 1638 M. partì per Spa, ufficialmente per un periodo di cure termali, ma poi passò nelle Province Unite, dove fu ricevuta con magnificenza. Di lì, a novembre, raggiunse l’Inghilterra stabilendosi presso la figlia, la regina Enrichetta Maria, ma anche questo soggiorno fu pieno di disillusioni. L’Inghilterra si trovava ormai in una situazione prerivoluzionaria e l’opinione pubblica mal tollerava la presenza della «papista» M., tanto che ci furono minacce di attentati e una violenta campagna libellistica contro di lei. In questa situazione M. cercò di aprire contatti con la corte francese per ottenere sovvenzioni economiche, offrendo in cambio il suo impegno a ritirarsi in Toscana. Richelieu accolse con entusiasmo la proposta e, dopo aver fatto pervenire a M. una prima tranche di aiuti, intavolò trattative per fissare i dettagli del viaggio.
Nel maggio 1641 Londra fu teatro di dimostrazioni anticattoliche e antimonarchiche e il Parlamento richiese la partenza di M., che alla fine di agosto lasciò l’Inghilterra e raggiunse l’Olanda. In seguito si spostò verso Sud, lungo il Reno, ma, giunta a Colonia, in ottobre, interruppe il viaggio e si stabilì in quella città. Probabilmente intendeva disattendere gli impegni presi con Richelieu e approfittare della presenza in Germania dei diplomatici incaricati di trattare la fine della guerra per perorare la propria causa. Del resto, la situazione politica lasciava aperta qualche speranza di un rivolgimento politico. La posizione di Richelieu, stanco e malato, era infatti indebolita da rivolte interne e dalle incerte sorti della guerra e non era impossibile un rientro in Francia. M. si lasciò così coinvolgere nell’ultima grande congiura contro Richelieu, quella capeggiata dal favorito di Luigi XIII, il giovane Henri Coiffier de Ruzé, marchese di Cinq-Mars, con l’appoggio di Gaston d’Orléans e della Spagna. Ancora una volta il cardinale seppe reagire in tempo e, in luglio, ottenne l’arresto di Cinq-Mars, che fu successivamente giustiziato. Il fallimento di quest’ultimo tentativo di abbattere il suo grande nemico coincise con la fine della vita di M., che morì a Colonia, dopo una breve malattia, il 4 luglio 1642, seguita nel giro di alcuni mesi da Richelieu e, il 14 maggio 1643, da Luigi XIII.
Con la reggenza di Anna d’Austria (1643-51) la figura di M. fu rapidamente dimenticata, nonostante l’apparizione di una ricca pubblicistica a suo favore e apertamente schierata contro Richelieu, nella quale si segnalò Mathieu de Morgues.
Una vera e propria riflessione storiografica su M. è nata solo con le grandi ricerche erudite della seconda metà dell’Ottocento che, pur rimanendo importanti sul piano documentario, hanno codificato un’immagine duratura di M., insistendo sui suoi limiti psicologici e caratteriali e stabilendo una contrapposizione artificiosa tra le politiche della reggenza e il rafforzamento dell’autorità regia perseguito da Enrico IV e Luigi XIII. Una più matura conoscenza della figura di M. si è sviluppata solo progressivamente, grazie alla crescita degli studi su Richelieu e alla storiografia storico-artistica. Mancano tuttavia una sintesi criticamente aggiornata del ruolo politico di M. e un’analisi del periodo della reggenza, non appiattita sui vecchi clichés.
Fonti e Bibl.: La bibl. su M. è sterminata e può essere qui richiamata solo parzialmente. Anche la situazione delle fonti è complessa, nonostante strumenti introduttivi come E. Bourgeois - L. André, Les sources de l’histoire de France. XVIIe siècle (1610-1715), Paris 1913-35, da completare con la Bibliographie annuelle de l’histoire de France, Paris (dal 1955). Tra le più importanti edizioni di carteggi diplomatici cfr. Négociation commencée au mois de mars de l’année 1619 avec la reine mère Marie de Médicis par M. le comte de Béthune et continuée conjointement avec m. le cardinal de La Rochefoucauld, Paris 1673, ad ind.; Recueil des lettres missives de Henri IV, a cura di M. Berger de Xivrey, VI, Paris 1853; VII, ibid. 1858, ad indices; Lettres, instructions diplomatiques et papiers d’État du cardinal de Richelieu, a cura di D.-L.-M. Avenel, I-VIII, Paris 1853-77, ad indices; L. Bouchitté, Négociations, lettres et pièces relatives à la conférence de Loudun, Paris 1862, ad ind.; La nunziatura di Francia di Guido Bentivoglio, a cura di L. De Steffani, I-IV, Firenze 1863-70, ad indices; Négociations diplomatiques de la France avec la Toscane, V, a cura di G. Canestrini - A. Desjardins, Paris 1875, ad ind.; État de la maison du roi Louis XIII, de celles de sa mère, Marie de Médicis, de ses soeurs, Chrestienne, Élisabeth et Henriette de France…, a cura di E. Griselle, Paris 1912, ad ind.; Relazioni di ambasciatori veneti al Senato, IV, Francia (1600-1656), a cura di L. Firpo, Torino 1975, ad indicem. Per l’ultima fase di vita di M. valgono soprattutto le nunziature, e in particolare Correspondance du nonce en France Innocenzo del Bufalo… (1601-1604), a cura di P. Barbiche, Rome 1964; … Ranuccio Scotti (1639-1641), a cura di P. Blet, ibid. 1965, ad indices; Correspondance du nonce Fabio de Lagonissa… 1627-1634 (Nonciature de Flandre), a cura di L. van Meerbeeck, Rome-Bruxelles 1966, ad indicem. Numerosissimi i resoconti dei contemporanei, che tuttavia appaiono spesso fortemente viziati dalle scelte politiche di coloro che li stesero: è questo il caso di M. de Béthune, duca di Sully, Mémoire des sages et royales oeconomies d’estat… de Henry le Grand, a cura di J.-Fr. Michaud-J.-J.-Fr. Poujoulat, I-II, Paris 1837, ad indices; fondamentali A.-J. du Plessis de Richelieu, Mémoires, a cura della Société de l’histoire de France, I-X, Paris 1908-31, ad indices. Tra gli altri resoconti cfr. almeno Fr. de Bassompierre, Journal de ma vie…, a cura di A. de La Cropte de Chantérac, I-IV, Paris 1870-77, ad indices; P. de L’Estoile, Journal pour le règne de Henry IV, a cura di L.-R. Lefèvre, Paris 1948, ad indicem. Tra le biografie disponibili, nessuna delle quali è soddisfacente, si segnala M. Carmona, Marie de Médicis, Paris 1981. Altre biografie novecentesche (A. Castelot, Marie de Médicis: les désordres de la passion, Paris 1995; P. Delorme, Marie de Médicis, Paris 1998; F. Kermina, Marie de Médicis: reine, régente et rebelle, Paris 1991) sono compilative e non sostituiscono gli studi eruditi di fine Ottocento, in particolare quelli di L. Batiffol, tuttora fondamentali, e quelli, meno criticamente agguerriti, di B. Zeller; vedi inoltre F.T. Perrens, Les mariages espagnols sous le règne de Henry IV et la régence de Marie de Médicis (1602-1615), Paris s.d [ma 1854]; Id., L’Église et l’État en France sous le règne de Henry IV et la régence de Marie de Médicis, Paris 1872; P. Henrard, Marie de Médicis dans les Pays-Bas 1631-1638, Anvers 1875 (estratto da Annales de l’Académie d’archéologie de Belgique, t. 30); B. Zeller, Henry IV et Marie de Médicis, Paris 1877; Id., Richelieu et les ministres de Louis XIII de 1621 à 1624, Paris 1880; Id., La minorité de Louis XIII, Marie de Médicis et Sully (1610-1612), Paris 1892; Id., La minorité de Louis XIII, Marie de Médicis et Villeroy, Paris 1897; E. Pavie, La guerre entre Louis XIII et Marie de Médicis, Angers 1899; B. Zeller, Louis XIII, Marie de Médicis, Richelieu ministre, Paris 1899; L. Batiffol, Au temps de Louis XIII, Paris 1904; Id., La vie intime d’une reine de France au XVIIe siècle, Paris 1906; Id., Le coup d’État du 24 avril 1617, in Revue historique, XCV (1907), pp. 292-308; XCVII (1908), pp. 27-77, 264-286; Id., Louis XIII et le duc de Luynes, ibid., CII (1909), pp. 241-264; CIII (1910), pp. 32-62, 248-277; J. Nouaillac, Avis de Villeroy à la reine Marie de Médicis, 10 mars 1614, in Revue Henry IV, II (1907-08), pp. 79-89; Id., L’affaire de Mantoue en 1613. L’avis de Villeroy à Marie de Médicis (8 nov. 1613), in Revue historique, CV (1910), pp. 63-83; E. Griselle, Louis XIII et sa mère, ibid., pp. 302-331, e ibid., CVI (1911), pp. 82-100, 295-308; F. Hayem, Le maréchal d’Ancre et Léonora Galigai, Paris 1910, passim; G. Pagès, Autour du «grand orage». Richelieu et Marillac: deux politiques, in Revue historique, CLXXIX (1937), pp. 63-97; M. Paiter, Toscani alla corte di M. de’ M. regina di Francia, in Arch. stor. italiano, XCVIII (1940), pp. 83-108; S. Mastellone, La reggenza di M. de’ M., Messina-Firenze 1962; R. Mousnier, L’assassinat d’Henri IV, Paris 1964; J.A. Clarke, Huguenot warrior. The life and times of Henri de Rohan, 1579-1638, The Hague 1966, ad ind.; G. Mongredien, 10 nov. 1630. La journée des dupes, Paris 1967, ad ind.; L. Tapié, La France de Louis XIII et de Richelieu, Paris 1967, ad ind.; J.M. Hayden, Continuity in the France of Henry IV and Louis XIII: French foreign policy 1598-1615, in Journal of modern history, XLV (1973), pp. 1-23; Id., France and the Estates general of 1614, Cambridge 1974, ad ind.; P. Chevallier, Louis XIII, roi cornelien, Paris 1979, ad ind.; J. Russell Major, Representative government in early modern France, New Haven 1980, ad ind.; R.F. Millen, Rubens and the voyage of M. de’ M. from Livorno to Marseille, in Rubens a Firenze, a cura di M. Gregori, Firenze 1983, pp. 113-176; A. Lloyd Moote, Louis XIII. The just, Berkeley 1989, ad ind.; R.F. Millen - R.E. Wolf, Heroic deeds and mystic figures: a new reading of Rubens’ life of M. de’ M., Princeton 1989; J.H. Elliott, Richelieu e Olivares, Torino 1990, in partic. pp. 81-106; M. Winner, The Orb as the symbol of the State in the pictorial cycle. Depicting the life of M. de’ M. by Rubens, in Iconography, propaganda, and legitimation, a cura di A. 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Fumaroli); Marie de Médicis. Un gouvernement par les arts (catal, Blois), a cura di P. Bassani Pacht et al., Paris 2003; S.R. Cohen, Rubens’s France: gender and personification in the Marie de Médicis cycle, in The Art Bulletin, LXXXV (2003), pp. 490-522; H. Duccini, Faire voir, faire croire: l’opinion publique sous Louis XIII, Seyssel 2003, ad ind.; F. Cosandey, Représenter une reine de France. Marie de Médicis et le cycle de Rubens au palais du Luxembourg, in Clio, 2004, n. 19, pp. 63-83; E. Nelson, The jesuits and the monarchy. Catholic reform and political authority in France, Aldershot 2005, ad indicem.