RANFO, Marco
RANFO, Marco. – Nacque con ogni probabilità a Trieste intorno alla metà del XIII secolo, da un’antica famiglia vicina al potere vescovile. Il padre si chiamava probabilmente Giovanni, mentre la madre è sconosciuta.
Nel 1202 un suo antenato fu tra le persone chiamate a sottoscrivere, in qualità di testimone, il giuramento di fedeltà della città al doge Enrico Dandolo, mentre nel 1241 un Giovanni Ranfo (forse il padre di Marco) fu presente alla conclusione di una convenzione fra il Capitolo della cattedrale e il monastero di S. Giorgio di Venezia. Il 26 maggio 1253 lo stesso Giovanni fu testimone della cessione, da parte del vescovo Ulrico de Portis, di alcuni diritti di baronia al Comune di Trieste. Un altro Ranfo, Andrea, nel 1257, fu presente all’atto con cui il vescovo Arlongo concesse al Comune l’investitura dei beni ceduti quattro anni addietro, mentre Ambrogio Ranfo fu testimone, il 23 marzo 1265, alla redazione di un documento con cui Albuina, monaca del monastero della Cella, donava al fratello alcuni terreni nel caso in cui si realizzasse un nuovo monastero, detto poi di S. Cipriano. Lo stesso fu titolare di decime fino al 1299, anno in cui probabilmente morì.
Già adulto, Marco Ranfo compare appena nel marzo del 1285, allorché fu incaricato assieme a Rantulfo Basilio e a Cremonesio Cattapan, quali sindaci e procuratori del Comune, di siglare la pace conclusa tra Venezia da un lato e il patriarca di Aquileia, Trieste e Gorizia dall’altro. Già allora rivestiva un ruolo di rilievo e l’amministrazione cittadina decise quindi di inviarlo a Venezia, sfruttando le sue doti di diplomatico e mediatore, forse anche in considerazione dei buoni servigi ricevuti dagli altri componenti della famiglia che lo avevano preceduto, ma la sua fama e il suo potere erano destinati a crescere rapidamente negli anni successivi.
Nel 1290 era rettore, quando venne alla luce un episodio che gli procurò una reprimenda dello stesso patriarca Raimondo della Torre (5 settembre); costui lo invitò a restituire ad alcuni mercanti di Fano e di Perugia le merci sottratte in un agguato corsaro da parte di una barca di sua proprietà. A quanto pare Ranfo si adeguò, e la sua ascesa politica non ebbe a risentirne. Il 4 luglio 1293, come oratore del Comune, fu inviato a Udine, ad annunciare a Mosca della Torre la nomina a podestà di Trieste e pochi anni più tardi, nel 1304, il vescovo Rodolfo Pedrazzani, con l’assenso della curia dei vassalli, lo nominò suo luogotenente. Fu l’apice del successo politico di Ranfo, ma probabilmente da questa posizione di privilegio ebbe origine e sviluppo quel tentativo di presa di potere che lo portò alla condanna e alla morte.
Ancora nel 1307 fu a fianco del podestà Feliciani in occasione di una garanzia offerta da alcuni nobili friulani in favore del Comune. Nel 1311, mentre era giudice, un episodio rischiò, come anni prima, di danneggiarne l’immagine politica: il trasporto di grano, non autorizzato da Venezia, gli costò per due volte il sequestro della merce ma il Maggior consiglio veneziano decise di accordargliene la restituzione. Questo atteggiamento di favore, nonostante la reiterata violazione delle regole, fu probabilmente frutto della considerazione in cui era tenuto il suo ruolo di rilievo nella vita politica triestina e della volontà di non turbare gli equilibri delicatissimi nei rapporti, già precari, tra le due città.
Nel 1313 fu nominato giudice rettore, con ampio mandato: nel gennaio di quell’anno, avvalendosi del suo potere, fece confinare il concittadino Bertosio Zuileto, membro di una famiglia nota e anch’essa vicina al vescovo, mentre fece rientrare diverse persone a suo tempo bandite. Forse fu proprio allora che iniziarono a deteriorarsi gli equilibri cittadini ma, fino a quel momento, nulla sembrava presagire quello che poi sarebbe accaduto dopo qualche mese. Il 30 marzo, accanto al rappresentante del podestà, firmò una sentenza con il titolo di nobile milite, alla presenza, tra gli altri, di un Giovanni Ranfo (suo figlio, o fratello secondo alcuni; presente nelle magistrature civiche tra il gennaio e l’aprile del 1313).
Ranfo ebbe diversi figli, tutti variamente coinvolti nelle vicende del 1313 qui sotto narrate: oltre a Giovanni, Pietro (che il 24 aprile 1313 si trovava al campo del conte Enrico di Gorizia, a Villalta) e Michele; Ranfa e Clara, oltre a Zaneta, all’epoca già defunta.
Pochi mesi dopo, forse a metà anno, avvennero gli eventi – non chiariti da alcun documento: tentativo di presa di potere o tradimento? – che in modo del tutto imprevedibile e in pochi mesi portarono la famiglia Ranfo dal successo politico alla sentenza di condanna a morte per Marco e due suoi figli e al bando (comprese le donne). La colpa di Ranfo doveva esser stata assai grave, dato che i provvedimenti di condanna e il bando per la famiglia e i seguaci vennero riportati negli statuti non solo nel 1318, ma anche nelle successive redazioni del 1350 e del 1365.
La data della sentenza e della morte di Ranfo, di suo figlio Pietro e del citato Giovanni (figlio o fratello) non è certa, ma due testimonianze, in cause civili del 1324, consentono di collocarle, con ragionevole certezza, nella seconda metà del 1313 (un altro figlio, Michele, sopravvisse e risulta titolare di un’investitura da parte di Ugone di Duino nel settembre del 1314). Seguirono ovviamente le conseguenze patrimoniali: già nel 1313 o agli inizi dell’anno seguente il Maggior consiglio nominò gli stimatori dei beni dei Ranfo e il 9 marzo 1314 fu concessa l’intromissione in quelli di Marco. Tuttavia, ancora nel 1316, nel quaderno delle decime del Capitolo i Ranfo appaiono titolari di diverse decime; evidentemente i beni, di una certa consistenza, non erano ancora stati interamente trasferiti.
Dal nuovo statuto cittadino, redatto nel 1318, si apprende che i Ranfo, le mogli e i figli, nonché coloro che li avevano appoggiati, erano stati banditi, e le donne espulse con disonore; un premio in denaro di 400 lire di piccoli (ridotto a 200, nel caso di semplice cattura) sarebbe stato riconosciuto a chi li avesse trovati e uccisi. Era inoltre vietato corrispondere in alcun modo con loro. Ai mariti di Ranfa e Clara era stato concesso il godimento dei beni delle mogli, come previsto per i coniugi delle adultere. La casa di Ranfa era stata rasa al suolo, con l’obbligo di mantenere il terreno libero, a perpetua memoria dell’accaduto. Tuttavia le addizioni statutarie del 1328 e 1333 dimostrano un certo ammorbidimento e una volontà di pacificazione del Comune, che consentì i contatti con i banditi, a meno che non fossero di detrimento alla città, e concesse alla confraternita di San Paolo di erigere una chiesa e la casa confraternale in contrada Cavana, in luogo della casa di Ranfo. Inoltre fu concessa la vendita dei beni di Maidina, moglie di Giovanni, a favore della figlia Filippa (ma esclusi i fratelli di lei) affinché potesse maritarsi, purché fuori città, e condurre una vita onesta.
La vicenda, con il suo carico di misteri, rimase impressa per secoli nell’immaginario collettivo, ispirò pittori e scrittori, e Marco Ranfo divenne da allora, a Trieste, sinonimo di traditore.
Fonti e Bibl.: Trieste, Biblioteca civica Attilio Hortis, Archivio Diplomatico, Statuta 1150 recte 1318, βEE1, libro I, rubr. 38, cc. 82rv-83r, add. dd. 1328, c. 82r, libro II, rubr. 166, c. 113rv, add. dd. 1326 alla rubr. 138, c. 199r, add. n. 29, cc. 165v-166r, add. n. 38, c. 168r; ibid., Statuta Civitatis Tergesti 1365, βEE3, libro III, rubr. 81; ibid., Cancelleria, 2B-2C, vol. I., cc., 32v, 36v, 42v, 60v; ibid., Vicedomineria, βC-βE1, vol. I, cc. 8r-10r; ibid., 3A8/I: C. Cumano, Codice Diplomatico Istriano; G. Mainati, Croniche ossia Memorie storiche sacro-profane di Trieste cominciando dall’XI secolo sino a’ nostri giorni coll’aggiunta della relazione dei Vescovi dal primo sino al decimo secolo, I, Venezia 1817; D. Rossetti, Statuti antichi di Trieste, descritti ed illustrati bibliologicamente dal dott. Domenico de’ Rossetti, in Archeografo Triestino, II (1830), pp. 103-209; A. Somma, Filippina de’ Ranfi, frammento di poema in ottave, in Strenna triestina per l’anno 1842, Trieste 1842; P. Kandler, Codice Diplomatico Istriano, Trieste 1846-1855 (rist. Trieste 1986), II, nn. 195, 273, 290, 305, 337, 410, 433, 445, III, nn. 504, 522, 540, 543, 544, 546, 550, 576; Statuti di Trieste del 1350, a cura di M. De Szombathely, Trieste 1930, libro II, rubr. 25, pp. 218-220; libro IV, rubr. 73, p. 436.
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