PARASCANDOLO, Marco
PARASCANDOLO (Palascandolo, Palescandalo), Marco. – Nacque probabilmente a Vico Equense nel 1542 da Leonardo Andrea e Francesca Vespoli. Fu battezzato con il nome di Muzio.
Nulla conosciamo della sua famiglia e della sua formazione, tranne il fatto che il padre era un notaio di Vico Equense. L’8 giugno 1560 entrò nella casa di S. Paolo Maggiore di Napoli dell’Ordine dei chierici regolari, meglio noti come teatini, assumendo il nome di Marco così come il fratello Innocenzo anch’egli fattosi teatino. Alla formazione teologica e filosofica nell’Ordine dovette aggiungere un qualche interesse per l’architettura, come testimoniano non solo la sua attività di progettista, ma anche il possesso di compassi e altri strumenti dimenticati a Napoli, quando nel 1616 si trasferì per un periodo a Palermo. Nel 1569 fu ordinato sacerdote così come il fratello Innocenzo, anch’egli fattosi teatino; fu in stretti rapporti con l’autorevole figura di Andrea da Avellino, che fu anche confessore delle loro sorelle. Degli anni immediatamente successivi non abbiamo nessuna notizia, così come frammentarie sono le informazioni relative alla sua esistenza, che si dipanò fra Napoli, Genova, Roma, Ravenna e Palermo.
La prima notizia di cui disponiamo, riferita dallo storico teatino Giuseppe Silos, concerne il fatto che Parascandolo, in occasione del capitolo generale dell’Ordine celebrato a Roma nel 1575, perorò con tanto trasporto la causa del trasferimento in una sede meno angusta della casa dei teatini di Genova, dal 1572 insediata presso S. Maria Maddalena, da esserne nominato preposito. Giunse così a Genova con espresso mandato di trovare una residenza più ampia e soddisfacente per i suoi religiosi. Riuscì nella non semplice impresa di ottenere a tale scopo l’abbazia di S. Siro, di cui era titolare il cardinale Vincenzo Giustiniani. Grazie all’intercessione di monsignor Domenico Pinelli, del vescovo di Piacenza, già teatino, di Paolo Burali d’Arezzo, e del confratello Girolamo Ferro presso il cardinale Giovanni Morone, legato papale a Genova con il compito di sedare la guerra civile in atto, i teatini guidati da Parascandolo poterono prendere possesso della loro nuova casa il 27 agosto 1575.
Al soggiorno genovese deve essere ascritta con molta probabilità la redazione del Trattato de’ cambi et in particolar de’ cambi detti di Lione et Bisenzone, nel quale Parascandolo sosteneva la posizione papale (decisa da Pio V nel 1571) che condannava i ‘cambi secchi’, ossia senza l’uso di lettere di cambio. Il testo circolò in forma manoscritta a Genova (anche se l’unica copia conosciuta si trova presso la Biblioteca nazionale di Napoli (ms. San Martino 28) e fu edito solo nel 1962.
Secondo la testimonianza del teatino Antonio di San Salvatore (Trattato della ricorsa e continuationi de cambi, Milano 1623, p. 68), Parascandolo avrebbe elaborato il trattato nel quadro dei dibattiti sulla liceità della ricorsa, che ebbero luogo a Genova negli anni Cinquanta. In realtà, tale datazione risulta del tutto anacronistica, dal momento che San Salvatore parla della presa di posizione di Parascandolo e degli «altri padri che all’hora erano in San Siro». Quindi lo scritto va collocato negli anni 1575-80. In tal senso depone poi il fatto che lo scritto di Parascanolo polemizzava con un dialogo sui cambi apparso anonimo a Genova nel 1573, che, a sua volta, criticava l’ingerenza ecclesiastica nella delicata e complessa materia del commercio del denaro.
Nel 1580 Parascandolo era di nuovo a Napoli, dove, insieme con il fratello Innocenzo, collaborò con le loro sorelle (Laura, Giulia, Lucrezia e Claudia), che, avendo deciso di abbracciare la vita religiosa, già alcuni anni prima avevano acquistato per 3300 ducati una casa. Nel settembre di quello stesso anno, dopo aver ottenuto un apposito breve da papa Gregorio XIII, le quattro donne presero i voti alla presenza dell’arcivescovo di Napoli, Annibale Di Capua, e fondarono il convento di S. Andrea, detto delle Dame, che adottò la regola agostiniana e fu posto sotto la direzione spirituale dei teatini di S. Paolo Maggiore. Nella nuova istituzione entrarono diverse gentildonne napoletane, alcune delle quali imparentate con i Parascandolo. L’alto numero di religiose spinse ben presto le fondatrici ad acquistare, nel 1583-84, altri terreni per l’edificazione di una sede più ampia. I lavori furono progettati da Parascandolo, dal fratello Innocenzo e da un altro teatino, Vincenzo Pagano. Sembra che Parascandolo si facesse anche carico di sovrintendere in prima persona ai lavori di costruzione, che si conclusero nel 1587.
Nel frattempo, nel corso del 1583, Parascandolo e il confratello Giovanni Battista Del Tufo, nel corso del viaggio per recarsi al capitolo generale dell’Ordine a Genova, si fermarono a Roma per proporre a Filippo Neri la fondazione di una casa degli oratoriani a Napoli. Questo e un successivo colloquio, al ritorno dal capitolo, non riuscirono però a smuovere Neri. Tuttavia, i due teatini lo convinsero a dare licenza a padre Francesco Maria Tarugi di recarsi a Napoli per curare la sciatica con i bagni e la sabbia di Ischia e le sorgenti termali di Agnano. Nel 1584 Del Tufo, Parascandolo e il fratello Innocenzo, recatisi a Roma tornarono alla carica con Neri, Tarugi e Cesare Baronio, ottenendo finalmente che lo stesso Tarugi fosse inviato con alcuni padri a Napoli, che furono accolti e introdotti dai teatini nella società cittadina.
Nel 1587 Parascandolo fu trasferito a Roma, dove l’anno seguente era preposito della casa di S. Silvestro a Montecavallo. Nell’ottobre di quello stesso anno papa Sisto V lo scelse per procedere, insieme con altri due ecclesiastici esperti di diritto e di riconosciuto zelo religioso, Prospero Vitagliano, vescovo di Bisignano, e Carlo Baldini, delegato dell’Inquisizione romana nel Regno di Napoli, alla visita apostolica dei monasteri femminili di Napoli, sulla cui situazione di sostanziale assenza di disciplina e moralità, era giunto a Roma un’allarmante relazione.
L’azione dei tre visitatori incontrò da subito l’ostilità della nobiltà partenopea che intendeva difendere la tradizionale autonomia dei monasteri, in cui molte sue figlie erano costrette a prendere i voti senza alcuna vocazione. L’attività dei tre visitatori si concentrò anzitutto sull’amministrazione economica dei monasteri, decretando che essi potessero accogliere un numero prestabilito di monache, così da cominciare ad assicurare il rispetto degli obblighi stabiliti dal Concilio di Trento circa il rapporto equilibrato fra entrate e numero di religiose. In secondo luogo essi si preoccuparono della presenza nei monasteri di una gran quantità di serve laiche al seguito delle religiose di famiglia nobile, che rappresentavano spesso il tramite per i contatti, più o meno illeciti, con il mondo esterno. I visitatori stabilirono pertanto che le serve dovessero abbandonare i monasteri o abbracciare la vita religiosa.
Sin dall’inizio del 1589 partì la controffensiva delle religiose che potevano contare sull’appoggio di ampi settori della nobiltà e del clero cittadini. Nel marzo di quell’anno Carlo Baldino fu accusato – con l’avallo anche dell’arcivescovo Di Capua, in quel momento nunzio in Polonia – di essere, con la sua rigidità, causa di grave turbamento per la società napoletana. In tale occasione Parascandolo minacciò di lasciare l’incarico se il collega fosse stato estromesso. Malgrado il sostegno papale e della Congregazione dei Regolari, si dovette giungere a un compromesso: a Baldino fu demandato il compito di visitare personalmente solo i monasteri soggetti agli Ordini religiosi, mentre Parascandolo e Vitagliano avrebbero visitato quelli soggetti all’ordinario. In questo periodo Parascandolo si recò a Roma in tre occasioni per discutere la complessa materia con la Congregazione dei regolari e con il papa.
A ogni modo, nell’estate 1589 i tre visitatori trasmisero alla Congregazione dei regolari le loro raccomandazioni per la riforma, che furono accolte e trasformate in decreti inviati alle autorità laiche ed ecclesiastiche napoletane. Ancora una volta si scatenarono accuse nei confronti di Baldino e di Parascandolo, il quale si disse disposto a rinunciare al suo incarico se ciò fosse servito a placare le polemiche. In realtà non solo i visitatori, ma lo stesso pontefice e i suoi principali collaboratori si trovarono nell’impossibilità di vincere la ferma resistenza di alcuni gruppi di religiose, sostenuti in maniera decisa dalle loro famiglie e in grado di mobilitare l’appoggio sia del viceré di Napoli sia di influenti esponenti della Curia romana e del Collegio cardinalizio. Ancora nel luglio 1590 il cardinale Giulio Antonio Santoro raccomandava a Parascandolo di non avvilirsi se l’intera opera della visita apostolica procedeva con tanti problemi. Di lì a poco la morte di Sisto V lasciò in sospeso l’intera questione. Solo con l’elezione di Clemente VIII, nel 1592, le misure di riforma dei monasteri femminili furono riprese: lo stesso Parascandolo compì una nuova missione a Roma per trattare la questione con la congregazione dei Regolari e il papa stesso che emanò finalmente i relativi decreti.
Parascandolo e i suoi colleghi erano stati incaricati da Sisto V anche della visita apostolica dei monasteri femminili di Salerno, che fu espletata, anche se i provvedimenti rimasero in sospeso in seguito alla morte del pontefice. Nel 1592 Clemente VIII ordinò ai visitatori di tornare a Salerno per la loro esecuzione. Parascandolo, che si trovava in quel momento a Roma in viaggio per andare ad assumere nuovamente la prepositura della casa di S. Siro di Genova, tornò ubbidiente sui suoi passi e si dedicò alla profonda riorganizzazione del tessuto monastico cittadino – furono soppressi cinque monasteri, le cui religiose furono trasferite negli altri tre – anche dal punto di vista architettonico, con l’introduzione di grate alle finestre.
Dal 1600 Parascandolo ritornò alla casa di S. Andrea al Quirinale a Roma, divenendo l’anno seguente confessore di Pietro Aldobrandini, influente cardinale nipote di papa Clemente VIII. Secondo Giovanni Michele Silos, avrebbe esercitato il suo ufficio con tale scrupolo e modestia da non approfittare mai della sua posizione per ottenere favori per sé o per altri. Il legame con Aldobrandini dovette comunque essere molto stretto, se, nel 1606, il porporato chiese e ottenne dal generale dei teatini che Parascandolo lo seguisse a Ravenna, nella cui sede arcivescovile aveva deciso di ritirarsi essendo caduto in disgrazia presso il neoeletto Paolo V. Nella città romagnola svolse anche funzioni di vero e proprio consigliere di Aldobrandini nella sua opera di riforma del clero locale che culminò, nel maggio 1607, nella celebrazione del sinodo diocesano.
A partire dal 1613, Parascandolo ritornò a risiedere nella casa teatina di Napoli. Qui, nel luglio-agosto 1614, insieme con i confratelli Benedetto Mandina e Andrea Pescara Castaldo, si fece sostenitore della denuncia per comportamenti peccaminosi ed ereticali contro la terziaria francescana Giulia De Marco, dotata di appoggi altolocati, fra cui la stessa moglie del viceré. I religiosi, anche per superare sostegni e omertà, inviarono l’incartamento direttamente all’arcivescovo di Napoli Decio Carafa e al cardinale Pietro Aldobrandini, segretario della congregazione romana del S. Uffizio. Dopo un duro braccio di ferro, con un colpo di mano deciso dal nunzio papale a Napoli, la terziaria fu fatta catturare e trasferire a Roma insieme con altri due coimputati (sett. 1614). Sebbene il generale dei teatini lo invitasse a non mostrarsi troppo zelante – segnale delle pressioni che furono esercitate a favore della De Marco –, ai primi del 1615 lo stesso Parascandolo si recò personalmente a Roma a informare papa Paolo V circa l’intricata vicenda di cui era protagonista la terziaria e la sua rete di complicità fra laici ed ecclesiastici. La missione ebbe successo e la De Marco poco tempo dopo fu condannata dal S. Uffizio insieme con i suoi complici. Peraltro, il fatto che Parascandolo partecipasse al capitolo generale celebrato a Roma nel maggio 1615, in rappresentanza della casa romana di S. Andrea al Quirinale, lascia supporre che egli fosse già a Roma da qualche tempo.
Nel frattempo era sorto ai vertici dell’Ordine dei teatini un intenso dibattito circa i beni lasciati in eredità alla casa di S. Giuseppe di Palermo dal ricco genovese Filippo Doria. Si trattava del feudo di Ficarazzi, poco fuori Palermo, dotato di campi coltivati, vigne e uliveti. Nel capitolo generale del 1615 fu deliberato che essa fosse messa in vendita, essendo il suo possesso da parte dei teatini una violazione palese del voto di povertà. Parascandolo prese apertamente posizione affinché l’Ordine si disfacesse di tanta ricchezza, ritenendo che essa avrebbe finito per disgregarne la disciplina. Egli non esitò a rivolgersi a Paolo V, che inviò al capitolo generale dell’Ordine (1615) il cardinale Giovanni Garzia Millini per trattare la questione. Alla fine Parascandolo si offrì come nuovo preposito della casa palermitana, dove giunse ai primi del 1616. Tuttavia la sua missione fallì, non è chiaro se solo a causa della mancanza di compratori e delle cause che gravavano sul feudo, come allora si disse, oppure per la contrarietà dei teatini palermitani a disfarsi di un’importante fonte di entrate.
Non vi sono altre informazioni disponibili sulla vita di Parascandolo dopo questa data, tranne il fatto che partecipò nel maggio 1621 al capitolo generale dell’Ordine quale delegato della casa di S. Andrea della Valle. Morì a Napoli nel giugno 1622.
Fonti e Bibl.: Roma, Archivio generale dei teatini, Mss., 5, cc.. 246v, 296v; G.B. Del Tufo, Historia della Religione de’ padri chierici regolari, Roma 1609, pp. 127 s., 131; G.B. Del Tufo, Supplimento alla Historia della Religione de’ padri chierici regolari, Roma 1616, pp. 45 s., 50 s., 84-87; C. D’Engenio Caracciolo, Napoli sacra, Napoli 1623, pp. 216 s.; G. Silos, Historiarum clericorum regularium, I, Romae 1650, pp. 528 s., 648; II, ibid. 1655, pp. 12 s., 123, 167, 355-357, 463-466; F. Ughelli, Italia sacra, VI, Venetiis 1720, col. 631; Gerarchia ecclesiastica teatina, Brescia 1745, p. 55; C. Padiglione, La Biblioteca del Museo nazionale nella Certosa di S. Martino in Napoli, Napoli 1876, ad ind.; A. Colombo, Sant’Andrea delle Dame, in Napoli nobilissima, XIII, (1904), 4, pp. 49 s.; G. Cassandro, Un trattato inedito e la dottrina dei cambi nel Cinquecento, Napoli 1962; R. Savelli, Between law and morals: interest in the dispute on exchanges during the 16th century, inThe courts and the development of commercial law, a cura di V. Piergiovanni, Berlin 1987, pp. 80, 84; A. Cistellini, San Filippo Neri, l’Oratorio e la Congregazione oratoriana. Storia e spiritualità, Brescia 1989, ad ind.; M. Miele, Sisto V e la riforma dei monasteri femminili di Napoli, in Campania sacra, XXI (1990), pp. 145-147, 150, 152-155, 162, 165 s., 197, 200, 202 s.; E. Novi Chavarria, Monache e gentildonne. Un labile confine. Poteri politici e identità religiose nei monasteri napoletani (secoli XVI-XVIII), Milano 2001, ad indicem.