OTTOBONI, Marco
OTTOBONI, Marco. – Nacque a Venezia nel 1554 da Marcantonio di Ettore e da Dianora Basalù.
Gli Ottoboni erano ‘cittadini originari’, membri cioè dell’élite, per così dire, dei veneziani non facenti parte del patriziato, che veniva chiamata a ricoprire i ruoli della burocrazia, compreso quello, rilevantissimo, di cancelliere grande. Per ben tre volte esponenti della famiglia ebbero tale carica.
Il primo degli Ottoboni a porsi in vista fu Antonio, che fu capitano di nave durante la guerra di Negroponte contro i turchi nel 1470. Suo figlio Stefano, in quella stessa veste e sempre durante una guerra contro gli ottomani, morì in battaglia nel 1499; la Repubblica veneta, nello stesso anno, per sostenere i nove figli del defunto, decise di affidare a uno di loro, Ettore, l’ufficio della Depositeria del sale. Il figlio di questo, Giovan Francesco, proseguì nella carriera burocratica divenendo nel 1533 segretario del Senato, nel 1544 segretario del Consiglio dei Dieci e nel 1559 cancelliere grande. Da un altro figlio di Ettore, Giacomo, nacque Leonardo, che replicò la carriera dello zio divenendo segretario del Senato nel 1570, nel 1588 segretario del Dieci e nel 1610 cancelliere grande (morì nel 1630).
Marco entrò in servizio quale straordinario di cancelleria nel 1576 (nel 1578 entrò tra gli ordinari) e, dopo aver svolto missioni in Germania e a Roma per conto della Serenissima, fu nel 1584 segretario del Senato. In seguito gli furono affidate diverse missioni, soprattutto quale segretario d’ambasciata, ma anche di inviato speciale, in Austria, a Costantinopoli, a Corfù, a Lubecca, in Inghilterra, e presso molte sedi italiane: nel 1597 era per esempio a Ferrara per convincere Cesare d’Este a non opporsi con le armi alla devoluzione del Ducato, pretesa e poi ottenuta da papa Clemente VIII. Fu anche a Roma in più occasioni.
Il successo di queste sue partecipazioni è testimoniato nella relazione al Senato degli ambasciatori straordinari che la Serenissima aveva inviato a Roma per l’elezione al pontificato di Paolo V: «havemo avuto con noi per secretario il Sig. Marco Ottobon […]. Del valore della intelligenza, della modestia et delle condizioni et nobilissime qualità […] non debbo entrare a discorrere». La relazione continuava ricordando come Ottoboni avesse accompagnato a Roma pure Leonardo Donà, prima che divenisse doge. Queste precedenti missioni, «avendo lasciato nome celebre et di gran prudenza», avevano fatto sì che ora, ossia nel 1605, egli fosse «stato veduto et riconosciuto con gran contento da molti Cardinali et personaggi grandi di quel tempo come huomo di grandissimo valore». Ciò che però aveva colpito di più gli inviati veneziani era il «contento» che avevano espresso nel vederlo, in una tappa del viaggio, il granduca di Toscana, sua moglie, il figlio e tutta la corte a Firenze. Il granduca in particolare aveva espresso all’ambasciatore tutta la sua ammirazione per un uomo che non aveva uguali per prudenza, giudizio «et perfetta intelligenza». E la relazione finiva così: «della sua longa servitù et dei viaggi che ha fatto per servitio della Repubblica per tutto il mondo non occorre che ne parli […] et al presente, con tutti li interessi di casa sua, essendoli in questi giorni morta la madre, non riguardando ad alcuna cosa, ritorna prontamente a servir l’Ill.mo Sig. M. Duodo in quest’ambasceria di Roma» (Relazioni, 1877, pp. 77-78).
La familiarità di Ottoboni con l’ambiente romano lo avrebbe poi spinto a investire sulla carriera curiale del figlio Pietro, destinato infine, coll’elezione a papa come Alessandro VIII al più alto traguardo. Intanto lo portò a redigere, senza pregiudicare le sue relazioni nell’Urbe, un resoconto degli eventi seguiti alla condanna papale all’Interdetto della Repubblica veneta, dal titolo Sommario del maneggio avuto dal Senato veneziano all’occasione dell’Interdetto fulminato da Paolo V contro la Repubblica.
Il suo girovagare si interruppe nel 1619, quando entrò tra i segretari del consiglio dei Dieci. Continuò a porsi in evidenza anche in questa veste ma nel 1630 fallì l’elezione a cancelliere grande, carica vacata per la morte del cugino Leonardo. Si rifece qualche anno più tardi, nel 1639, venendo eletto con soli 19 voti contrari. Però, di fatto, non riuscì mai a svolgere a pieno le sue funzioni. Nel 1644, il figlio Marcantonio scriveva che egli, ottantottenne, non usciva da più di un anno da casa e che a causa di ciò l’attività della Cancelleria ducale era compromessa; Marcantonio era comunque riuscito a sventare un tentativo di eleggere un vicecancelliere grande, cosa che avrebbe messo in evidenza l’inabilità del padre.
Alla carriera prestigiosa e sostanzialmente lineare di Marco si affiancarono, come naturale, le responsabilità private, di capo della ‘fraterna’ Ottoboni, che, egli in vita, continuò a condividere lo stesso tetto – e rigorose regole – nel palazzo di Campo San Severo nel sestiere di Castello.
Dalla moglie Vittoria Tornielli (che morì nel 1635) ebbe nove figli: i maschi Marcantonio, nato l’11 marzo 1596; Giovanni Battista, nato il 26 settembre 1605; Agostino, nato il 31 luglio 1608; Pietro, nato il 22 aprile 1611; e le femmine Serafina, che andò monaca nel 1628 prendendo il nome di Francesca e morì nel 1663; Dianora, che sposò nel 1619 Bartolomeo Ruoda e morì nel 1649; Caterina, che sposò Lorenzo Agazzi; Andreina (e non Adriana come dà Litta, 1834), che sposò Marcantonio Padavin; Cristina, che sposò Giovan Battista Rubini e morì nel 1635.
La ‘fraterna’ era un modello di organizzazione familiare tipico in Venezia, caratterizzato dalla convivenza dei componenti maschi di uno stesso gruppo familiare che amministravano congiuntamente i beni, divisi in parti uguali tra gli eredi (e per quel che riguarda gli Ottoboni si trattava di amministrare un patrimonio cospicuo nella zona di Treviso, ma anche in quella di Pordenone). Il padre capofamiglia o di norma il primogenito erano gli amministratori della fraterna: tenevano i conti e regolavano l’agenda familiare. Tutto doveva essere infatti condiviso. Dal vitto agli investimenti economici, dai matrimoni alle scelte di carriera e di vita dei singoli componenti della fraterna, non esisteva di fatto destino individuale che potesse considerarsi slegato da quello, prevalente, del gruppo. Così nel 1630 venne mandato a Roma Pietro, per completare gli studi giuridici, ma soprattutto per entrare in prelatura. A tal fine poté godere di una dotazione di 1300 scudi annui, ma da Venezia, su sua richiesta, potevano venire spediti quadri, tappeti, bicchieri, orologi, spezie, prodotti alimentari raffinati quali bottarga o uccelletti di Cipro utili per qualche regalo che potesse favorire avanzamenti. Nelle sue continue comunicazioni col figlio Ottoboni, ma anche i fratelli, discutevano di ogni dettaglio, impegnandosi spesso a moderare le richieste del curiale. Quando nel 1643 parve per Pietro prospettarsi l’impegno di un’onerosissima nunziatura, il padre gli scrisse: «voglio aiutarvi [ma] so che voi non volete rovinarci» (Menniti Ippolito, 1996, p. 23). Quando poi il figlio mostrava impazienza e volontà di agire o di reagire con troppo impeto, Ottoboni lo invitava alla calma: in un’occasione gli disse che da «un principe» era opportuno ricevere il pugno e dopo di ciò baciargli la mano (Bibl. apostolica Vaticana, Ottob. Lat. 3028, t. 1, cc. 127-128). L’investimento romano non costituiva del resto solo un impegno significativo per le casse della fraterna; nella congiuntura di quegli anni, caratterizzata dagli strascichi della cosiddetta crisi dell’Interdetto, l’avanzamento in Curia di Pietro Ottoboni, che dopo essere divenuto referendario di Segnatura era divenuto uditore di Rota, poteva creare in Venezia sospetti e porre in cattiva luce l’intero clan.
Il compito d’amministrare la fraterna si complicò nel 1645 quando si sparse voce in Venezia che, per reperire risorse per combattere il turco, si sarebbe proceduto ad aggregare famiglie al patriziato in cambio di un esborso di 100.000 ducati. Gli Ottoboni non potevano sprecare l’occasione, ma le loro disponibilità di liquidi erano limitate, dati i vincoli di fedecommesso che gravavano sulle proprietà, fortemente minacciate dalle richieste provenienti da Pietro e, si scoprì, per di più compromesse dagli imbrogli e dagli errori di gestione commessi da uno dei figli di Ottoboni, Giovan Battista. Il capofamiglia assisteva sgomento a tutto ciò, consolato solo dall’esito della votazione del Pregadi che il 18 agosto 1646 (il Maggior Consiglio s’espresse il successivo giorno 25) aggregò la famiglia al patriziato in cambio di 60.000 ducati versati a fondo perduto e altri 40.000 depositati in Zecca. Per raccoglierli la famiglia aveva venduto tutto ciò era possibile alienare e altro denaro aveva preso a prestito. Un successo, ma gli Ottoboni, da esponenti di punta del ceto dei cittadini originali divenivano ora dei semplici patrizi di recente aggregazione, perdevano le loro provvigioni e dovevano oltretutto pensare a sostenersi negli incarichi pubblici: il loro esponente principale diveniva ora di fatto Pietro, avviato, anche grazie alla nobilitazione del clan, verso il cardinalato (ciò avvenne nel 1652).
Marco si dimise subito, il 31 agosto, dalla carica di cancelliere grande, ma per celebrare il suo prezioso servizio, il Consiglio dei Dieci deliberò gli venissero lasciate «le insegne, gli honori, le regalie et li funerali in morte soliti di tal dignità» (Menniti Ippolito, 1996, p. 100). Soddisfazione di rilievo, ma che dovette anche essere l’ultima della sua vita.
Le dispute all’interno della fraterna, aggravate dalla situazione debitoria dovuta all’affare dell’aggregazione, finirono col condurre all’aborrito esito della divisione dei beni. Le trattative durarono tutto il 1647 e le spartizioni si definirono via via nei primi mesi dell’anno che seguì. Le lettere familiari mostrano in tutto questo un Ottoboni smarrito, novantacinquenne, insidiato da questo o quel figlio per condizionarne le estreme volontà. In una lettera del 16 gennaio 1649 Giovan Battista descriveva il padre come ridotto a pelle e ossa e deformato.
Il 30 gennaio 1649 sempre Giovan Battista informava il fratello Pietro degli avvenuti funerali del padre.
Fonti e Bibl.: Relazioni degli stati europei lette al Senato dagli ambasciatori veneti nel secolo decimosettimo, a cura di N. Barozzi - G. Berchet, ser. 3, Italia, Relazioni di Roma, I, Venezia 1877, pp. 77 s.; M. Casini, Realtà e simboli del Cancelliere Grande veneziano in età moderna (secc. XVI-XVII), in Studi Veneziani, n.s. XXII (1991), pp. 235 s., 250; A. Zannini, Burocrazia e burocrati a Venezia in età moderna: i cittadini originari (sec. XVI-XVIII), Venezia 1993, ad ind.; A. Menniti Ippolito, Fortuna e sfortune di una famiglia veneziana nel Seicento. Gli Ottoboni al tempo dell’aggregazione al patriziato, Venezia 1996, ad ind.; P. Litta, Famiglie celebri italiane, V, Ottoboni di Venezia, Milano 1834.