MARCOLA (Marcuola), Marco
Nacque il 31 marzo 1740 a Verona, nella parrocchia di S. Quirico, da Giovanni Battista; e fu senza dubbio il più autorevole membro di una numerosa famiglia di pittori e decoratori. Si formò nella bottega paterna insieme con i fratelli Nicola, Francesco e Angela; ma ben presto si rese indipendente e acquisì una posizione di maggiore rilievo, in virtù del suo essere "speditissimo nel lavorare, ferace nelle invenzioni" (Lanzi).
La sua attività si svolse prevalentemente lungo due filoni antitetici, eppure complementari: le scene di genere - al cui interno vanno collocate le "mascherate", il gioco d'azzardo e le scenografie teatrali - e le grandi figurazioni ad affresco, destinate agli interni delle prestigiose residenze di facoltosi committenti. Suo merito principale fu l'aver costruito un linguaggio libero e spregiudicato che utilizzò per fermare sui diversi supporti la personale visione del reale in una declinazione aneddotica, popolare, ma spigliata, condita da scioltezza e ironica arguzia.
La prima menzione del M. nei documenti (1764) si riferisce al pagamento per trentaquattro quadretti, perduti, destinati alla scuola di ostetricia di Verona. In data imprecisata, ma presumibilmente tra 1764 e 1766, sposò Marianna Zenti, che lo avrebbe reso padre di quattro figli. Fu forse proprio la prole numerosa a costringere il pittore a lavorare sodo "per guadagnarsi di che vivere alla giornata e non per la gloria […] cercando colla sollecitudine di procacciarsi più pronto guadagno" (Zannandreis). Risale al 1771 il contratto con il conte C. Allegri per la decorazione del palazzo familiare a S. Nazaro, poi divenuto istituto delle suore orsoline.
Dispersi a fine Ottocento undici pezzi dipinti (porte e ante di finestre) destinati alle camere del primo appartamento, è comunque significativo ciò che rimane. In una saletta del primo piano si trovano il Banchetto di Didone ed Enea e un Concerto; mentre sui soffitti di due ambienti adiacenti al salone principale sopravvivono due allegorie (la Fede coniugale e una Gloria). La scena con l'eroe troiano è un piacevole banchetto incorniciato da architetture levigate, popolato da figure variamente atteggiate come in una rappresentazione teatrale, peraltro suggerita dal sipario che sporge in alto a sinistra; tra gli edifici in costruzione dello sfondo di destra si scorge la tabella dipinta che reca data e firma dell'autore. Il M. sembra ispirarsi ai conviti del Veronese (P. Caliari) tramutati però in dilettevole tranche de vie allineata sulle posizioni del melodramma settecentesco, trasformati in arguta raffigurazione della società contemporanea. Non deve meravigliare il costante riferimento del pittore al mondo del palcoscenico; egli fu a più riprese stipendiato dal teatro Filarmonico, sia per opere di artigianato (1776: Sei scudetti recanti le armi araldiche dell'Accademia filarmonica) sia per lavori di restauro (1781: il telone del teatro) o per l'elaborazione di vere e proprie scenografie (1785). Da tempo è stata chiusa la loggia dell'edificio prospiciente il giardino del palazzo, decorata con il Baccanale del gnocco (festività tipica del carnevale veronese) che oggi si può giudicare soltanto attraverso una fotografia eseguita nel 1940. Protagonisti sono i cittadini, nobili o villani, accorsi in festa alla celebrazione carnascialesca dominata da un palco soprelevato. Tuttavia ciò che si vede è troppo poco per determinare se il disegno con il Baccanale del gnocco (Verona, Museo di Castelvecchio), con la sua teoria di cavalli, cavalieri e uomini in maschera possa riferirsi alla scena perduta ovvero al ciclo d'analogo soggetto che il M. realizzò per villa Canossa a Grezzano di Mozzecane.
L'ottavo decennio registra il coinvolgimento pressoché ininterrotto del M. in una serie di cicli decorativi, il primo dei quali è senza dubbio quello per gli interni di villa Dionisi Tacoli (1773), nella frazione di Ca' del Lago, presso Cerea. Negli anni precedenti altri membri della famiglia avevano operato nello stesso luogo: il padre, Giovanni Battista, aveva licenziato una pala per l'altare della cappella; mentre il fratello Nicola nel 1767 aveva dipinto assieme con il quadraturista G. Montanari sulla volta del salone e nella loggia del piano nobile.
In alcune figure dell'Apoteosi della famiglia Dionisi dipinta nella loggia si riconosce facilmente l'intervento del M. come collaboratore di Nicola ben prima del 1773: in particolare, nel gentiluomo con il tricorno calato sugli occhi, o nell'altro che stuzzica un cane mostrandogli una ciambella, ovvero in una damina e nel vecchio che si sporge per veder meglio con l'aiuto di una lente. Personaggi di corredo al tema encomiastico della famiglia committente (sviluppato con un Albero genealogico formato da tondi contenenti nomi), eppure non privi di grazia e di quella caratterizzazione che al M. riusciva facilissima. Di respiro diverso è l'affresco, del solo M., che raffigura L'egresso di Gabriele Dionisi dalla carica di capitano del Lago. L'ampio spazio a disposizione dà vita a una rappresentazione libera dai vincoli prospettici e dal rispetto delle proporzioni, in cui le figure sistemate su imbarcazioni si assiepano nel primo piano, al bordo della cornice. Il M. non si preoccupa nemmeno di fondere queste figure di nobili, ma dalla vitalità popolareggiante, con le più algide rappresentazioni della Fama, della Giustizia e della Pace che vigilano "in un cielo privo di profondità" (Romin Meneghello, p. 34). Qualche anno dopo, nell'ottobre 1778, egli avrebbe completato anche la loggia del piano inferiore con due Cavalieri della famiglia Dionisi a monocromo. Tipologie che si rifanno al Rinascimento, eppure cariche di ironia: nella metallica fissità dei condottieri e nella eccessiva grazia della postura di uno dei cavalli. L'ultimo dipinto per la famiglia, la tela con Dionisio Dionisi fonda l'Accademia filarmonica, porta la data del 1782 ed è ancora in situ, ma malridotto.
Altri luoghi conservano scene dipinte ascritte da tempo al catalogo del Marcola. Si tratta anzitutto di villa Perez Pompei Sagramoso a Illasi, all'interno della quale si trova una sala ornata dal Giudizio di Paride.
È soprattutto la figura di Marte, la cui spalla mal corrisponde a una esatta visione dal basso, a confermare l'attribuzione al M. e a richiamare alla mente l'analoga imprecisione che caratterizza uno dei Cavalieri della famiglia Dionisi, più precisamente quello che sorregge la lancia. Complessivamente, però, la scena sembra strutturata su una maggiore padronanza della prospettiva.
Altro edificio a ospitare sue pitture è villa Spolverini Buri a San Michele Extra, ove il M. eseguì diverse scene (tra le quali Trattenimento in giardino, Vendita dei cavalli e la Partita di carte, a monocromo).
Le pitture ben si adattano a una residenza di campagna, offrendo sfondi agresti popolati dagli svaghi della nobiltà, ancora una volta ingabbiata in galanterie e posture controllate seppur non esenti da soluzioni argute.
La vena documentaristica del M. trova invece libero sfogo sulle pareti delle salette a pianterreno di villa Canossa a Grezzano di Mozzecane, sfortunatamente poco leggibili. Il tema unico che si svolge in più ambienti è il Baccanale del gnocco, per la preparazione del quale la critica rende plausibile l'utilizzo dell'omonimo disegno conservato al Museo di Castelvecchio.
Colpisce l'intonazione generale poco allegra, priva della vitalità che invece comunicano le coeve descrizioni letterarie dell'evento. Sui soffitti delle medesime stanze che ospitano il soggetto carnascialesco il M. ha invece dipinto alcune Allegorie e Divinità mitologiche, in cui s'avverte il rapporto coi canoni tradizionali e ove trionfa la solida gestione di uno spazio celeste nel quale le figure si muovono con destrezza, talvolta assumendo atteggiamenti popolareschi (si veda la Giunone, con il gomito poggiato sull'anca, che sembra battibeccare con Minerva).
A Chievo, negli interni di villa Marioni Pellegrini Pullé, si riuniva l'aristocrazia colta della città discettando dei più vari argomenti, ma soprattutto di musica; il M. intorno al 1779 poté dedicarsi all'argomento con una serie di raffigurazioni ben congegnate, che preludono al ciclo di Rovereto, senza rinunciare ai soggetti mitologici a lui tanto cari.
Nella scena di Apollo e Pan sembra ispirarsi alla decorazione barocca e giunge ad aggettare le figure al punto da far esorbitare dalla cornice le zampe di Pan e un amorino con cetra. L'impianto prospettico è saldamente governato; e i personaggi acquistano una volumetria nuova e una inedita definizione anatomica.
Nel medesimo 1779 a Rovereto, nel salone principale di palazzo Alberti, il M. dipinse accanto al fratello Francesco, che vi svolse il ruolo di quadraturista.
È forse la prova pittorica in cui più forte è l'influsso di uno stile classicheggiante: Divinità mitologiche entro nicchie, Busti, Trofei sulle pareti e un Giudizio di Paride sul soffitto. Insolita è la volumetria della Minerva che fuoriesce dalla nicchia con elegante archement di sapore tardogotico, così come maestoso è l'atteggiamento delle figure che affollano la decorazione sommitale.
Confortato dall'aiuto del fratello Francesco per le quadrature in stile ionico, tra 1785 e 1790 il M. decorò la loggia del seminario vescovile di Verona.
Inedita la scelta dei temi: Astronomi dipinti a grisaille sulle pareti, Figure allegoriche e Strumenti astronomici nelle sovrapporte e una immensa Cosmogonia per il soffitto. Nonostante quest'ultimo soggetto fosse stato già sviluppato in precedenza da altri e in altri luoghi, è ancora una volta la scelta personale e autonoma del M. a prevalere, mirante a restituire l'idea di uno spazio senza regole né proporzioni. Nell'Ottocento il concittadino D. Macanzoni avrebbe ricopiato la decorazione per gli interni di villa Nogarola Violini a Castel d'Azzano.
Il M. affrontò in più occasioni anche soggetti sacri, in gran parte ancora visibili.
L'esempio più interessante è rappresentato dal soffitto della chiesa veronese di S. Teresa degli Scalzi, con l'affresco raffigurante la Gloria della santa riferibile al 1790-91. L'intonazione generale comunica un pathos piuttosto moderato; mentre sapiente è la resa prospettica affidata ai piani intermedi costituiti dalle nubi, su cui poggiano angeli e santi dalle movenze addolcite. Non va poi dimenticato che il M. fu autore anche di pitture murali esterne, delle quali è oggi conservata la sola Felicità ritrovata nello studio (Verona, palazzo Carli, su un muro di cinta); impossibile da giudicare per le disastrate condizioni di conservazione, il dipinto rivela tuttavia il tentativo di aggiornare la secolare tradizione del finto rilievo a monocromo, con esiti di discreta eleganza.
All'inizio dell'ultimo decennio del secolo il M. si spostò a Brescia, a palazzo Fe' d'Ostiani, ove gli era stata richiesta l'ornamentazione del salone delle feste e del locale a esso adiacente (eseguita nel 1791 e firmata). Egli optò per un florilegio dall'Eneide e per il Mito di Icaro, scene che costituiscono senza alcun dubbio il capolavoro della sua fase tarda.
Nel vero e proprio ciclo dedicato a Icaro, la tragedia finale è anticipata da alcuni episodi di formato esagonale popolati da figure in scala piuttosto grande; tuttavia l'apice del dramma avviene sul soffitto e gli scorci sono audaci tanto quanto la soluzione compositiva di raggruppare "a piramide" su uno sperone di roccia alcuni spettatori della Caduta di Icaro. Ancor più avvincenti sono le scene che animano il secondo ambiente, incorniciate da monumentali quadrature. L'inclinazione all'aneddoto e il gusto per il "registro basso" non sono che un pallido ricordo, talvolta insopprimibile, come nel caso del re che assiste allo scontro tra Turno e Pallante comodamente assiso a gambe incrociate e con il mento poggiato sul pugno chiuso.
Resta da risolvere per il M. il problema delle opere da cavalletto realmente eseguite, distinguendole dalla produzione di artigianato minore uscita dalla assai produttiva bottega familiare. Sicuramente del M. è la Commedia dell'arte in Arena, firmata "M. M." e datata 1772, rintracciata da Pallucchini presso l'Art Institute di Chicago.
Nonostante una prevalente componente nobiliare, nel dipinto non manca qualche gusto so inserto popolare, quali i pochi venditori fuori della staccionata, sulla sinistra, e l'inserviente che gestisce l'utilizzo delle sedie, nel primissimo piano. Tutto è però raggelato, composto, privo di quel senso di moto che ci si aspetterebbe dalle scene di gruppo; prevalgono atteggiamenti rasserenati, un poco leziosi, tipici della società galante dell'epoca. A buon diritto lo scopritore dell'opera ne esaltò "la finezza del racconto […] figurativo, la smaliziata capacità di rappresentare con una certa eleganza episodi di vita contemporanea, secondo un filone che s'era andato costituendo nella tradizione veronese" (Pallucchini, 1972). Del dipinto si conosce anche il pendant, raffigurante Scena in una piazza veronese (nel 1974 era presso la galleria Previtali di Bergamo). Le due tele sono identiche per misura, formato e datazione.
Il M. morì a Verona il 14 ag. 1793.
Fonti e Bibl.: L. Lanzi, Storia pittorica dell'Italia, III, Milano 1831, p. 96; D. Zannandreis, Le vite dei pittori, scultori e architetti veronesi, a cura di G. Biadego, Verona 1891, p. 478; Disegni del Museo civico di Bassano da Carpaccio a Canova (catal.), a cura di L. Magagnato, Venezia 1956, pp. 77 s.; Disegni dell'Accademia Carrara di Bergamo, a cura di C.L. Ragghianti, Venezia 1962, pp. 36-38; Antichi disegni e stampe dell'Accademia Carrara di Bergamo, a cura di C.L. Ragghianti, Bergamo 1963, pp. 36 s.; E. Martini, La pittura veneziana del Settecento, Venezia 1964, pp. 240 s.; M. Precerutti Garberi, Affreschi settecenteschi delle ville venete, Milano 1968, pp. 419-422, 425-427, 436 s., 445 s.; R. Bassi Rathgeb, Un bozzetto autografo di M. M., in Studi di storia dell'arte in onore di A. Morassi, Venezia 1971, pp. 392-394; R. Pallucchini, Opere del Settecento esposte a Trieste, in Arte veneta, XXVI (1972), p. 305; Pitture, disegni e stampe del '700 dalle collezioni dei Civici Musei di storia e arte di Trieste (catal., Trieste), a cura di D. Gioseffi, Milano 1972, pp. 43 s.; A. Forner, Nuove attribuzioni al pittore veronese M. M. in margine alla Mostra del '700 a Trieste, in Atti e memorie della Soc. istriana di archeologia e storia patria, XX-XXI (1972-73), pp. 269-280; Id., Pittori veronesi del '700. M. M., in Vita veronese, 1974, nn. 1-2, pp. 24-26; P. De Landerset Marchiori, Alcuni affreschi del Settecento nel Veronese, I, Note su M. M., in Arte veneta, XXVIII (1974), pp. 291-294; L. Olivato, in Maestri della pittura veronese, a cura di P.P. Brugnoli, Verona 1974, pp. 401-410; R. Pallucchini, Un'altra scena di costume di M. M., in Arte veneta, XXVIII (1974), pp. 288-290; L. Romin Meneghello, M. M., pittore veronese del Settecento, Verona 1983, p. 34 e passim; G. Ericani, Una monografia per M. M., in Arte veneta, XXXVIII (1984), pp. 243-247; Id., in La pittura in Italia. Il Settecento, II, Milano 1990, p. 781; A. Romagnolo, Lo pseudo M. M. o Maestro del "Biribisso", in Pittura veneziana dal Quattrocento al Settecento. Studi di storia dell'arte in onore di E. Martini, a cura di G.M. Pilo, Venezia 1999, pp. 273-275; U. Thieme - F. Becker, Künstlerlexikon, XXIV, p. 75.