GUAZZO (Guazzi), Marco
Nacque a Padova fra il 1480 e il 1485 da padre mantovano e madre veneziana, "l'uno e l'altra di nobile famiglia", come egli stesso scrive nella sua Cronica (Venezia 1553, c. 34v).
Il padre è stato identificato con un Crescimbeno Guazzi, mantovano, trasferitosi a Padova nel 1462 con la famiglia, circostanza da cui il G. derivò un'orgogliosa rivendicazione di Patavinitas (ibid.) che contraddice la dicitura "Marco di Guazzi Mantuano" con cui si presenta nei frontespizi delle sue opere d'esordio. Le fonti, del resto, si dividono su questo punto: Leandro Alberti lo menziona, già nel 1550, tra le maggiori glorie letterarie della città lombarda; il padovano Bernardino Scardeone - che il G. loda nella Cronica (c. 34) - lo dice invece "ex nobili origine Mantuana oriundus, ortus tamen Patavino patre iam ab ineunte aetate civitati donato".
In ogni caso, il G. si formò in ambiente padovano: rimasto orfano del padre, fu educato dal nonno materno, che lo avviò alle bonaeartes sotto la guida dei migliori maestri di retorica e di filosofia dello Studio. Al divampare delle guerre d'Italia il G. dovette tuttavia troncare abbastanza bruscamente gli studi regolari per seguire una prepotente inclinazione al mestiere delle armi, in cui si distinse al punto da potersi fregiare abbastanza presto, nei paratesti delle sue opere, dell'immodesta qualifica di "strenuo milite". In merito, le fonti insistono sulla sua prestanza fisica e sulla sua prodezza, ma sono piuttosto avare di particolari. Dallo Scardeone apprendiamo che fu la guerra mossa nella primavera del 1509 dalla Lega di Cambrai contro Venezia a strappare il G. agli studi; lo Zilioli aggiunge sbrigativamente che il G. "si trovò alla guerra della Toscana, di Piemonte, di Lombardia, di Napoli e altrove" (c. 100r). Poche altre informazioni si ricavano dalle opere del G.: egli fu, sì, "uomo d'arme" nell'esercito veneziano nel corso del 1509, ma è da escludere che abbia militato sin dall'inizio sotto le insegne della Serenissima. Fino alla rotta veneziana di Agnadello (14 maggio) egli fu probabilmente al soldo di Francesco II Gonzaga (che nell'agosto successivo fu fatto prigioniero dai Veneziani), e pertanto nell'esercito della Lega; solo in un secondo momento dovette passare dalla parte veneziana, forse indotto a rientrare in Padova dalla necessità di proteggere i propri averi nell'imminenza dell'assedio. L'anno dopo, in ogni caso, il ribaltamento delle alleanze dovuto alla politica di Giulio II rese sicuramente meno difficile la posizione del G., che poté tornare al servizio del Gonzaga allorché questi fu nominato gonfaloniere della Chiesa (3 ott. 1510) e assunse il comando generale dell'esercito veneziano. Ma l'incarico del marchese ebbe breve durata, e infatti, di lì a poco, troviamo il G. alla ricerca di "un novo capitano", come si legge nel suo Belisardo (Venezia, Zoppino, 1534, c. 74v [canto XIII, ott. 113]), e subito dopo agli ordini di un "alto signor" (ibid.). In ogni caso, egli era certamente al soldo dei Veneziani nell'ottobre del 1511, al momento del costituirsi della Lega santa fra Giulio II, Venezia e gli Spagnoli. La carriera militare del G. si chiuse probabilmente intorno alla metà del terzo decennio del secolo: egli si ritirò nella quiete della città natale, dove visse fino alla fine dei suoi giorni, dedicandosi a tempo pieno alla stesura di opere storiografiche.
L'esordio letterario del G. ebbe luogo sul doppio fronte della poesia drammatica e del romanzo cavalleresco: nel 1525 a Venezia, per i torchi di Nicolò d'Aristotele de' Rossi detto lo Zoppino, uscirono prima una Comedia… intitulata Errori d'amore, e poi i primi tre libri del Belisardo fratello del conte Orlando. Nel periodo successivo il G. portò avanti parallelamente questi due filoni, ma mentre quello cavalleresco si sovrappose alla produzione storiografica degli anni Quaranta, la vena teatrale si esaurì presto, concentrandosi negli anni compresi fra il 1525 e il 1528: nel 1526, sempre a Venezia (ma per F. Bindoni e M. Pasini), uscirono una ristampa della commedia con "agionta" e una Tragedia… intitolata Discordia d'amore; nel 1528, a chiudere una sorta di "trilogia sui diversi effetti del sentimento amoroso" (Romanò, p. 144), per lo Zoppino uscì, insieme con le ristampe dei due testi precedenti, una Satira… intitulata Miracolo d'amore.
La commedia Errori d'amore, quasi interamente in terza rima, in quattro atti nella princeps, riarticolati in cinque nella seconda edizione, è di ambientazione contemporanea e padovana. Ne è protagonista Filarco, uno studente che, deciso ad abbandonare gli studi per seguire Amore, si mostra sordo agli inviti alla saggezza che gli amici, amanti disingannati, gli elargiscono; solo la scoperta della disonestà dell'amata lo porterà al rinsavimento finale. Si tratta senz'altro di una nostalgica "rivisitazione di esperienze giovanili" (Romanò, p. 145), non priva di spunti satirici nei confronti della cultura accademica patavina. Il motivo di maggiore interesse risiede, tuttavia, nella presenza di intermezzi rusticali in pavano, contrappunto popolaresco al registro più sostenuto dell'azione principale: una sorta di testo parallelo che, nella seconda redazione, il G. ampliò e rimodellò sullo schema tradizionale del contrasto fra villani rivali in amore (mariazo). È probabile che il G. abbia approntato tali intermezzi in breve tempo per una recita, mandandoli poi altrettanto frettolosamente in stampa senza revisione formale; ma l'ipotesi che essi risentano dell'influenza ruzantesca è, in definitiva, poco provata (Padoan, 1994, p. 225). Sulla base dell'efficacia e della facilità dimostrate dal G. nel maneggiare il dialetto nelle parti in pavano degli Errori è stata avanzata (Meneghetti, p. 39) la sua candidatura come possibile autore della coeva Bulesca.
Nella tragedia Discordia d'amore, anch'essa in terza rima, va sottolineato il carattere arcaizzante e ibrido, comune a non pochi altri prodotti drammaturgici del primo Cinquecento, i quali, pur uscendo sotto nome di tragedie, appartengono a una fase di graduale transizione da esperienze tardoumanistiche di carattere mescidato e semipopolare alla grande stagione della regolarizzazione aristotelica. Il dramma del G. non è privo di pretese classicistiche: è diviso nei canonici cinque atti (ma è privo di cori) e obbedisce alla prescrizione aristotelica della rimozione dalla scena delle azioni violente. Schiera tuttavia su di uno sfondo cittadino un cast di personaggi "borghesi", che dà vita a un intreccio amoroso e a situazioni tipicamente comiche. A decidere della tragicità di questo testo è dunque, in ultima analisi, il catastrofico finale (cinque morti); ma esso arieggia pure il "morality play" (Herrick, p. 36), con la prosopopea della Discordia amorosa che, anticipando l'esito nel prologo, imposta una struttura a tesi di derivazione novellistica (l'amore porta rovina).
La produzione cavalleresca del G. iniziata nel 1525 con il Belisardo, poema dedicato a Federico Gonzaga e diviso in tre libri (ma con numerazione progressiva dei canti, 29 in tutto), proseguì l'anno successivo con la stampa, sempre per lo Zoppino, della Fine di tutti i libri de Lancillotto, "giunta" di tre canti al Libro terzo et ultimo del innamoramento di Lancillotto e Ginevra… di Niccolò Degli Agostini. La stesura del Belisardo ebbe inizio probabilmente qualche anno prima del costituirsi della Lega di Cambrai e proseguì fino al 1522 circa; nel 1534 il poema venne ristampato, ma nel frattempo erano usciti a parte, con il titolo Opera nova… de antiqui cavallieri d'armi e d'amore intitolata la Fede (Venezia, F. Bindoni e M. Pasini, 1528), i nove canti del quarto e ultimo libro (a loro volta aperti).
Nel Belisardo il G. si autorappresenta espressamente nei panni del poeta-guerriero, dichiarando in prima battuta di avere per guida Amore e per ispiratrice la donna amata, ma di servire anche Marte, e di volere pertanto cantare fra i clangori della battaglia, e non "con la cetra in braccio / como usono i poeti di cantare" (p. 1 [canto I, ott. 6]). L'intera narrazione è infatti scandita da allusioni a fatti bellici contemporanei, e il primo libro si interrompe per l'inizio di una guerra (senza dubbio quella cambraica) che costringe il poeta all'azione. Evidente - e tuttavia non dichiarato - modello del Belisardo è M. Boiardo, e all'Orlando innamorato è altresì riconducibile la stessa strategia encomiastica del poema, che viene, però, esperita a esclusivo vantaggio dei Gonzaga: l'eroe eponimo è infatti destinato a dare origine alla dinastia mantovana, ruolo analogo e alternativo a quello che l'illustre modello aveva assegnato a Ruggero rispetto agli Estensi. Il terzo libro del Belisardo si apre nel nome di Federico Gonzaga, principe che il narratore, perduta la "stella" amata, ha assunto a proprio "sole". Il filo della narrazione viene ripreso senza soluzione di continuità nella Fede, libro dedicato alla memoria dell'antica ispiratrice.
Nel 1531 apparve, ancora per lo Zoppino, la prima parte dell'Astolfo borioso, 14 canti dedicati al giovane Guidobaldo Della Rovere, che riprendono esplicitamente la materia del Furioso.
Progressivamente più netta è la presenza dell'Ariosto nella prima ristampa della prima parte (Venezia, Guglielmo da Fontaneto, 1532), nella seconda parte (ibid., Zoppino, 1533, cc. 15-28), nella seconda ristampa della prima parte (ibid. 1539) e nell'edizione definitiva del 1549 (Venezia, Comin da Trino), accresciuta di quattro canti (ma ancora incompiuta). In quest'ultima il frontespizio dichiara piena conformità "alla profondissima historia del divino Ariosto in condurre ad effetto molte degne imprese" (oltre a esibire la novità rappresentata dall'applicazione di "allegorie" moraleggianti "ad ogni canto"). L'Astolfo borioso è da considerarsi l'opera di maggior successo del G., se ancora nel 1607 e nel 1623 se ne stampavano a Venezia due grossolane edizioni.
Se è degno di fede l'accenno poco lusinghiero presente in una satira di Ercole Bentivoglio databile al 1531-32 ("Spesso insieme ridiam di Marco Guazzo", V, 95), l'Ariosto conosceva e teneva in assai scarsa considerazione il Belisardo, e forse anche l'Astolfo; e tuttavia è stata avanzata l'ipotesi, sia pur in assenza di "coincidenze formali strette" (Casadei, 1997, p. 33 s.), che una pagina del primo poema del G. (ed. 1534, c. 102v, canto XIX, 1-4) abbia lasciato una traccia sensibile nella famosa invettiva ariostesca contro le armi da fuoco (Furioso, XI, 22-28).
La particolare attenzione del G. al modello ariostesco è inoltre confermata dalla sua partecipazione in veste di correttore, nel gennaio 1537 (1536 m.v.), a un'ambiziosa ristampa zoppiniana del Furioso del 1532, più volte ripresa anche da altri stampatori negli anni successivi: sua è la tavola di Notazioni, che, in appendice, segnala tutte le giunte del terzo Furioso. Del resto, il G. non è nuovo a questo tipo di collaborazioni editoriali: nel 1530 aveva curato, prima per Bindoni e Pasini, e poi "a complacentia" del prediletto Zoppino due edizioni del Filocolo di G. Boccaccio; la seconda è presentata come la più attendibile in circolazione, certo in polemica con quella approntata nel 1527 da Gaetano Tizzone. Nel 1530 escono pure, "con ogni diligenzia […] corrette" dal G., le Opere d'amore di Antonio Tebaldeo (Venezia, A. Bindoni) - edizione che (come pure la ristampa zoppiniana del 1534) contribuisce a inquinare la tradizione delle rime del poeta ferrarese proprio perché dominata dall'arbitrio correttorio del curatore.
Nel 1535, con la pubblicazione di una Gionta (XVIII libro) a un'edizione in volgare del monumentale Supplementum chronicarum di Giacomo Filippo Foresti da Bergamo (Venezia, F. Bindoni), il G. debutta come storiografo. Il suo interesse per la storia contemporanea si era tuttavia manifestato molto prima: già nel Belisardo egli si riprometteva, infatti, di lasciare gli "antiqui cavaglieri" per dedicarsi al racconto della "modernità" (c. 86r [canto XVI, ott. 2]). Nel 1540 uscirono, per lo Zoppino, le Historie di tutte le cose degne di memoria…, il cui prolisso frontespizio segnala che l'opera copre un arco temporale che va dal 1524 "sino a questo presente": si tratta in realtà di una ristampa appena ritoccata - e aggiornata - della Gionta alla cronaca del Foresti.
Il progetto storiografico annunciato in esordio appare piuttosto impegnativo: il G. dichiara di prendere idealmente le mosse dall'anno del "diserramento" del "tempio di Giano" (1494) per un'opera divisa "in tre volumi", di cui questo sarebbe "l'ultimo a nascere et il primo alla luce posto" (c. 1r). Le Historie furono ristampate più volte a Venezia: nel 1544 e nel 1545 da Comin da Trino, nel 1546, nel 1549 e nel 1552 da G. Giolito, con sistematici aggiornamenti progressivi.
Frattanto, erano usciti, a Venezia, per B. Bindoni nel 1540, un altro volume di Historie… ove se conteneno le guerre di Mahometto imperatore de' Turchi… (ristampato nel 1552); e nel 1547, all'insegna di s. Bernardino, le Historie… ove se contengono la venuta, et partita d'Italia di Carlo ottavo re di Franza…, con dedica a Cosimo de' Medici.
Il volume, presentato dal G. come frutto delle ore sottratte all'"arte militare" e trascorse "fra huomini signalati, fra libri, carte, ingiostro e molti fatti" (c. 1r), altro non è che un "insigne plagio" (Fulin, p. 7) perpetrato ai danni di un'opera rimasta manoscritta del cronista veneziano Marino Sanuto il Giovane (morto nel 1536): una vera e propria trascrizione continuata, viziata peraltro da fraintendimenti e omissioni. Altri plagi meno eclatanti del G. - tra cui uno dalle Lettere dell'Aretino - sono stati indicati da Zanette (pp. 597, 599 s.).
Nel 1548, a chiudere (sia pur non perfettamente) il cerchio temporale della narrazione programmata dal G. sin dal 1540, esce un volumetto di Historie… di tutte le cose degne di memoria… qual hanno principio l'anno MDIX… (Venezia, Comin da Trino), un supplemento alle prime Historie che si apre con il racconto della guerra cambraica e arriva fino alle nozze di Luigi XII con Maria Tudor (1514). Nel 1553 il G. pubblicò, sempre a Venezia, per F. Bindoni, un grosso in folio pomposamente dedicato a Cosimo de' Medici dal titolo Cronica… ne la quale ordinatamente contiensi l'essere de gli huomini illustri antiqui, e moderni, le cose, et i fatti… occorsi dal principio del mondo fino a questi nostri tempi.
Infarcita di "fole" e "stravaganze" (Tommasini Mattiucci, p. 33), specie nella parte dedicata alla storia antica, quest'opera meriterà l'ironia del Manzoni, che nei Promessi sposi ricorda il nome del G. fra quelli dei più "riputati" autori di storia universale presenti nella biblioteca di don Ferrante. Ben più sprezzante era stato il giudizio formulato, già intorno al 1550, da P. Giovio - che pure dovette servirsi delle Historie (Scarano - Cabani - Grassini, p. 447) - sul G. storiografo, liquidato senza mezzi termini come capofila degli "imbrattatori di carta" contemporanei (Giovio, p. 166).
Il G., per parte sua, vanta più di una volta, nelle Historie, la propria speciale qualità di testimone oculare; e la sua professione dovette effettivamente metterlo nelle condizioni di poter ritrarre dal vero "i successi e le occorrenze" di molti "maneggi", specie di natura militare, cosa che egli fece "più tosto acuratamente che con molta eleganza" (Zilioli, c. 100r). Attendibilità e accuratezza d'informazione gli vengono del resto unanimemente riconosciute, ma quasi sempre a tale riconoscimento si accompagnano severe censure di natura stilistica e linguistica (Crescimbeni, p. 135; Soria, p. 323; Bongi, p. 115). L'"historia" del G. è essenzialmente cronaca "mondano-politica", oltre che bellica (Scarano - Cabani - Grassini, p. 446): nelle pagine dedicate a Carlo V in Italia, per esempio, la dimensione cerimoniale e festiva prevale sugli aspetti sostanziali degli eventi, e il piacere della descrizione sull'analisi, ma è proprio questo spiccato gusto per l'episodico che fa della sua narrazione una fonte preziosa per i "buoni scrittori" che se ne sono serviti (Bongi, p. 115).
Al catalogo delle opere del G. si può aggiungere una breve composizione in ottave (Hystoria nova del merchante Almoro e del camelier Durante…), che il frontespizio attribuisce allo "strenuo amico di messer Lorenzo Liombruno mantuano pictor dignissimo" (Wagner - Carrera, pp. 236 s.); l'identificazione di questo personaggio con il G. è confortata dalla presenza del suo nome sull'ultima carta, nell'intestazione di un sonetto che, essendo dedicato alla morte dell'amica, può considerarsi parallelo alle ottave (databili al 1510-16) che ne piangono la morte alla fine del l. II del Belisardo. L'opuscolo, piuttosto raro, conferma la familiarità del G. con la corte mantovana, di cui il Leonbruno fu pittore ufficiale fra gli inizi del secolo e il 1526. Altri rapporti interessanti del G. sono documentati dalla presenza di due suoi sonetti laudativi fra i paratesti del Triompho di Fortuna (Venezia, Agostin da Portese, 1527, c. [6r]; ed. anastatica a cura di A. Biondi, Modena 1983) del ferrarese Sigismondo Fanti, che fu al servizio di Venezia dal 1521 in qualità di ingegnere militare.
Il G. morì a Padova nel 1556, intossicato, assicura lo Zilioli, da "una medicina presa fuori di tempo credendo medicarsi d'una picciola doglia di stomaco" (c. 100r). L'erudito riferisce pure che gli eredi omisero di dargli decorosa sepoltura, ma l'informazione non è attendibile: la sua tomba (ora perduta) si trovava infatti nella chiesa padovana di S. Daniele, vicino a quella del Ruzante, e recava un'iscrizione con l'"autoepitaffio" (Zanette, p. 584) in distici pubblicato nella Cronica, c. 34v.
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