GRADENIGO, Marco
Nacque a Venezia nel sestiere di S. Marco, il 14 ott. 1589, terzogenito di Gian Giacomo di Bortolo - capostipite del ramo in rio Marin - e di Maria Zen di Francesco. La famiglia del G. non era fra quelle ascrivibili al ristretto novero dell'oligarchia veneziana, né poteva vantare una particolare solidità economica. Tuttavia la formidabile quanto repentina ascesa sociale del padre, conseguita attraverso l'esercizio dell'avvocatura, accrebbe le ricchezze della casata e la sua influenza nella vita politica veneziana.
Il cursus honorum del G. ebbe inizio nel 1618, allorché fu eletto sopraprovveditore alle Pompe; nel 1620 fu uno dei tre ufficiali alle Cazude e l'anno successivo fu provvisore sopra Ori e monete. Nel 1622 occupò la carica di provveditore di Comun, mentre tra il 1623 e il 1624 lo troviamo tra i Dieci savi alle decime in Rialto. Trascorso questo primo periodo di tirocinio, il G. fu eletto nel 1624 avogadore di Comun, nel 1626 provveditore alle Fortezze e infine, nel marzo del 1627, ottenne dal Maggior Consiglio la carica di duca di Candia.
Raggiunse l'isola solamente nel febbraio del 1628 (vi era già stato in precedenza, ma non è chiaro se al seguito del padre quando questi aveva assunto la carica di capitano in Candia, oppure in qualità di provveditore alle Fortezze), sia per le difficoltà della navigazione invernale, sia per la costante minaccia rappresentata dai pirati, i quali sovente - come egli non mancò di scrivere al Senato - potevano contare sulla connivenza interessata dei governatori turchi, cui era demandato il comando delle piazzeforti poste lungo la costa greca.
Di indole risoluta, il G. cercò subito di affrontare e risolvere i problemi che affliggevano la città di Candia e il suo contado, primo fra tutti quello dell'amministrazione della giustizia, così da porre fine alle tirannie e ai soprusi che la riottosa nobiltà locale perpetrava nei confronti della popolazione cittadina e rurale, costringendola non di rado ad abbandonare quelle terre pur di sottrarsi alle continue minacce, violenze e ruberie di cui era oggetto. Esemplare fu la punizione inflitta al nobile Zorzi da Ca' Fradello, che il G. con energica determinazione ebbe il coraggio di far arrestare e giustiziare pubblicamente insieme con tutti i suoi "sanguinolenti bravi", guadagnandosi così ampio consenso e considerazione fra i sudditi. Ristabilita la sovranità statale su quelle terre, egli fu quindi finalmente libero di occuparsi di altre questioni.
Particolare impulso fu dato dal G. allo sviluppo urbano, assecondato anche dalle esenzioni fiscali che egli concesse ai forestieri intenzionati a praticare il commercio in quelle terre; inoltre fu ancora lui a ordinare il primo censimento della popolazione. L'intenso attivismo del G. e le sue continue visite condotte nel territorio ben presto ne indebolirono il fisico, tanto che le sue condizioni di salute peggiorarono repentinamente, al punto da essere costretto, alla fine dell'autunno del 1628, ad affidare la propria carica al capitan grande Piero Giustinian che ne resse le sorti sino al 25 dicembre di quell'anno, data in cui fece l'ingresso ufficiale il nuovo duca, Lazzaro Mocenigo.
Mentre giaceva malato in Candia, il G. fu raggiunto dalla notizia che il patriarca di Aquileia, Agostino Gradenigo, lo aveva indicato quale suo coadiutore con diritto di successione; la nomina fu formalmente ufficializzata soltanto il 13 sett. 1629, pochi giorni prima della morte di Agostino, avvenuta il 26 settembre.
L'ascesa del G. allo scranno patriarcale ebbe il merito di premiare gli sforzi della diplomazia veneziana, volti in primo luogo a scongiurare il pericolo che la S. Sede potesse assegnare tale carica a un candidato di parte imperiale, così come avrebbe voluto Ferdinando II d'Asburgo, il quale già nel 1627 aveva decisamente avversato l'elezione di Agostino, sostenendo la titolarità imperiale sulla nomina. Nel contempo, la scelta del G. riuscì a sbrogliare l'intricato nodo della successione ad Agostino, rimasto privo di eredi dopo la scomparsa del fratello Andrea: il padre del G., infatti, in qualità di lontano parente di Agostino, con grande abilità e profusione di danaro riuscì a inserirsi nel complesso ingranaggio che dava accesso alla carriera beneficiaria e ad accaparrarsi in tal modo la carica ecclesiastica più doviziosa messa a disposizione del clero veneziano.
Essendo il G. ancora laico, il suo insediamento non poté essere immediato, anche perché papa Urbano VIII, preoccupato di non esasperare ulteriormente i già deteriorati rapporti con la casa d'Austria, rese noto al Senato che la conferma del nuovo patriarca sarebbe avvenuta soltanto dopo che questi avesse indossato l'abito talare. Ottenuto il pallio il 14 marzo 1633, il 5 maggio il G. prese possesso del patriarcato nella chiesa collegiata di Udine, per mezzo di Gasparo Leonico, "senza alcun pregiudizio dei diritti capitolari e per questa volta tanto attesi i noti impedimenti": l'imperatore, infatti, al fine di evitare che egli potesse prendere possesso della basilica di Aquileia - così come aveva fatto nel 1627 il suo predecessore con un'abile sortita - aveva intimato ai propri sudditi di non riconoscerlo e ordinò che tutti i passi d'accesso al territorio aquileiese, posto sotto la sua giurisdizione, fossero presidiati da armati. Soltanto alcuni mesi più tardi il G. giunse a Udine dove, il 6 novembre, poté finalmente celebrare la sua prima messa solenne e recarsi quindi a Cividale per donare, com'era tradizione, la cappa patriarcale.
Sin dal suo insediamento, il G. si trovò alle prese con una serie interminabile di controversie che afferivano principalmente alla giurisdizione spirituale: nel 1634 una lunga disputa lo vide opporsi alle pretese del capitolo di Aquileia, determinato ad arrogarsi il diritto di istruire i processi riguardanti i religiosi che ne facevano parte. Nello stesso anno gli venne inoltre ordinato dal Senato di interrompere la visita nella propria diocesi, per recarsi in quella suffraganea di Verona, dove una disputa opponeva il vescovo Marco Giustinian al capitolo di quella città che, per antico privilegio, si diceva dipendente soltanto dal patriarca. Nel 1637 fu costretto a difendere i diritti del patriarcato dal vescovo di Como che, pur essendo un suffraganeo, intendeva disconoscere apertamente l'autorità del metropolita, mentre nel 1638 dovette ricorrere al Senato affinché Girolamo di Toppo, neoeletto canonico del capitolo di Aquileia, fosse costretto nei limiti delle sue competenze. Infine, tra il 1642 e il 1643, si trovò impegnato a dipanare l'annosa questione della collazione dei benefici uniti alla mensa capitolare, riuscendo a definire favorevolmente la vertenza, e ottenendo altresì che il Senato impartisse una severa ammonizione al capitolo aquileiese.
Nonostante il G. facesse ormai parte della gerarchia ecclesiastica, non per questo venne mai meno in lui il senso di appartenenza al patriziato veneziano: ciò lo portò sovente a cooperare attivamente con i luogotenenti veneti in Friuli, così come lo indusse, durante la guerra combattuta da Venezia contro il Turco (1645-46), a contribuire in modo consistente a sovvenire le esauste finanze dello Stato con i proventi ricavati dalla diocesi. Tuttavia il suo energico temperamento lo condusse talvolta in netta antitesi con i magistrati veneziani - nel 1638 gli fu addirittura inibito di presentarsi in Collegio e al cospetto del doge senza esplicita licenza del Senato - così come fu strenuo difensore dei diritti giurisdizionali del patriarcato in ambito temporale. Insistentemente, seppure con scarso esito, egli richiese ai capi del Consiglio dei dieci, massimo organo politico della Repubblica, di veder ampliata e irrobustita la propria sfera giurisdizionale, così da poter rendere maggiormente incisiva l'azione di repressione nella zona di S. Vito e Trivignano.
Era infatti lo spirito del governatore, anziché quello del pastore d'anime, che il G. più spesso dimostrava di incarnare. Non di rado, infatti, nelle sue lettere si preoccupava di suggerire al luogotenente della Patria del Friuli i modi più appropriati per rendere maggiormente efficace la collaborazione tra i propri ministri e la squadra dei cappelletti posti agli ordini del rettore udinese. Mentre il G. governava con fermezza e determinazione la sua diocesi in territorio veneziano, a parte Imperii l'esercizio della giurisdizione spirituale era resa assai difficile dall'ostracismo degli Asburgo. Ferdinando II, che non aveva mai fatto mistero di volere un vescovado indipendente che sovrintendesse alla parte tedesca della diocesi, continuava a esercitare forti pressioni sul pontefice affinché questi nominasse, quale proprio rappresentante, il nunzio apostolico in Vienna. Nel corso del 1636 l'intransigenza austriaca parve tuttavia venire meno, ma si trattò soltanto di una breve parentesi, tanto che di lì a poco la corte viennese stabilì che la presentazione al patriarca dei benefici, spettanti per la maggior parte all'imperatore, non doveva essere fatta per alcun motivo, diversamente da come invece alcuni arcidiaconi avevano iniziato a fare. La situazione non migliorò dopo il 1637, con l'ascesa sul trono imperiale di Ferdinando III, tanto che nel 1648 la Reggenza di Graz, nel rinnovare l'ordine ai sudditi austriaci di disconoscere il patriarca veneziano, lo definiva addirittura "supposto o putativo", così da costringere il G. ad accettare che fosse il nunzio apostolico della S. Sede presso la corte asburgica a rappresentare la sua autorità in terra tedesca.
La sorda guerra diplomatica combattuta fra Roma, Venezia e Vienna, unita alle interminabili controversie che opponevano il capitolo di Aquileia a quello di Udine, non consentirono al G. di convocare, dopo una vacanza di ventitré anni, un sinodo diocesano, nonostante il suo deciso prodigarsi in tal senso. Tuttavia le continue questioni politiche che lo angustiarono nel ventennio del suo patriarcato, non gli impedirono di adoperarsi attivamente in funzione di un generale rinvigorimento del clero friulano e delle strutture preposte all'educazione dei religiosi. A partire dal 1638 egli iniziò infatti a dedicarsi attivamente al potenziamento del seminario di Aquileia, ampliandone lo stabile, dotandolo di un appropriato regolamento, risanandone la situazione contabile, stabilendo nuovi canoni disciplinari ed educativi, nonché provvedendolo di una nutrita biblioteca. Al G. si deve inoltre il restauro del monastero femminile di S. Nicolò di Udine, oltreché la traslazione, nel 1653, del corpo di s. Eugenio martire dalle catacombe romane al duomo udinese.
Nonostante il suo lungo impegno al servizio prima dello Stato e poi della Chiesa, il G. non trascurò mai di adoperarsi in funzione dell'accrescimento del patrimonio della propria casa attraverso numerosi acquisti di terre e stabili tanto nel Padovano quanto a Venezia, compresi buona parte di quelli in Rio Marin, sede dell'omonimo palazzo di famiglia.
Il 16 febbr. 1656 il G. morì a Venezia, senza aver mai potuto né visitare Aquileia né la sua diocesi in terra tedesca.
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