FOSCARINI, Marco
Nacque a Venezia il 4 febbr. 1696 (e non 1695, come affermano alcuni recenti biografi non considerando che il febbraio 1695 more veneto corrisponde al febbraio 1696 del calendario gregoriano) da Nicolò, del ramo di S. Stae, e da Eleonora di Marco Loredan S. Marcuola, ultima della casa che aveva fatto costruire il magnifico palazzo Non nobis. Gli fu dato il prenome del nonno materno.
Trent'anni prima i Foscarini S. Stae avevano attraversato un periodo difficile: bandito dal Consiglio dei dieci, Nicolò, fratello del bisnonno del F., era morto in esilio a Mantova, mentre il nonno, anch'egli di nome Nicolò, era stato assassinato da un altro nobiluomo nel corso di una lite. Ma il prozio Sebastiano, più volte ambasciatore, e il padre Nicolò avevano in breve risollevato il prestigio politico della casa grazie all'aiuto di parenti influenti come il futuro doge Carlo Ruzzini, fratello della nonna paterna del F., e alle notevoli disponibilità finanziarie (nel 1715 Nicolò sarebbe diventato procuratore di S. Marco "per soldi").
Mentre al fratello maggiore Alvise furono affidati i compiti di consolidare il rango della casa con un matrimonio conveniente e di amministrarne il patrimonio, il F. fu destinato alla carriera politica. A nove anni entrò nel "S. Francesco Saverio", il prestigioso collegio dei nobili gestito dai gesuiti a Bologna: vi apprese, tra l'altro, il francese e lo spagnolo.
Al ritorno in patria si preparò alla vita politica prendendo parte, come voleva la tradizione patrizia, a molte accademie. In occasione di una di queste, tenuta presso la biblioteca paterna, il F. compose un Discorso sulla necessità della storia e della facoltà di ben dire per gli uomini di Repubblica (pubblicato a Venezia nel 1819), che dedicò a Nicolò.
L'esordio "pubblico" del F. illustrava non solo "la nettezza di una vocazione politica e culturale ferma e precocissima" (E. Leso), ma anche una concezione elitaria della politica, che affidava all'eloquenza il compito di guadagnare il consenso della "moltitudine" patrizia alle idee e alle strategie distillate dalla "prudenza" dell'"uomo savio".
I problemi dell'arte oratoria furono approfonditi dal F. in un altro scritto giovanile, Della improvvisa eloquenza, un trattato (pubblicato a cura di C. Milanesi, in Arch. stor. italiano, App. V [1847], pp. 201-257), che dedicò a un patrizio strettamente legato alla casa, Giovan Antonio Marco Ruzzini.
Nell'Improvvisa eloquenza, di cui completò solo la prima parte, il F. innalzava l'eloquenza a "misura della libertà di cui Venezia gode[va]" (L. Ricaldone). Nello stesso tempo l'arte oratoria era l'"aiuto più potente e più manifesto" che la Repubblica marciana poteva utilizzare per sopravvivere in un contesto internazionale sempre più minaccioso. "Governare placidamente i popoli", "pacificare i troppo funesti sdegni dei Re", "conservare ad Italia questo ritaglio di libertà": erano questi gli obiettivi che il F. indicava al Senato, sede istituzionale della retorica patrizia.
Nel 1721, raggiunta l'età canonica per il debutto nella vita politica, il F. fu eletto savio agli Ordini, indispensabile trampolino di lancio per la scalata ai vertici del potere. L'anno seguente condusse a termine Della perfezione della Repubblica veneziana, un'opera (pubblicata a Milano soltanto nel 1983) dedicata a Michiel Morosini, nipote del doge Francesco e membro del Collegio dei savi.
Dopo che la pace di Passarowitz (1718) aveva suggellato la perdita della Morea e la rinunzia di Venezia all'egemonia nel Mediterraneo orientale, il F. riteneva opportuno riaffermare la mitologia politica veneziana di matrice rinascimentale, una mitologia sopravvissuta all'"ingiuria di tempi o calamità di fortuna", agli "innopinati e strani casi", che avevano colpito Venezia. La tesi di fondo del trattato era che a un livello "profondo" la forma del governo marciano era sempre rimasta la medesima. Gli "stabili incrementi" della Repubblica dovevano essere attribuiti alla forza "perpetua dell'osservazione delle sue Leggi, la quale, essendo eterna e invariabile, non fragile e mortale, non è poi meraviglia, che abbia prodotto effetti assai più costanti". Le leggi potevano cambiare, i Consigli e i magistrati perdere o acquistare importanza: ciò che contava era l'osservanza delle leggi, la "regolata autorità… degl'ordini", "certa subbordinazione e dipendenza d'un Magistrato all'altro": in poche parole, una struttura bene ordinata e fondata sulle virtù perenni dell'aristocrazia, la giustizia e la prudenza, l'onestà e la "cognizion delle cose passate".
La moderazione e la fortezza erano, secondo il F., le principali virtù della Repubblica. L'esaltazione della neutralità di Venezia - presentata non come un indice di debolezza, ma come una scelta virtuosa - e il richiamo alla necessità di "rinvigorire il commercio, da cui sempre mai è derivata l'opulenza de' sudditi e la grandezza" dello Stato, indicavano chiaramente che "la perduta grandezza di prima" era ormai considerata una meta irraggiungibile.
Nel 1724 il F. ritornò in Collegio quale savio di Terraferma, incarico che, fatta eccezione per gli usuali periodi di contumacia, conservò fino al 1731.
Redasse, in questi anni, alcune scritture di governo, tra le quali Di quanto è opportuno a promuoversi alla corte di Roma per onore e per utile della Repubblica veneta (a cura di N. Barozzi, Padova 1863); Sulla difesa degli Stati d'Italia per la parte di mare (a cura di Id., Venezia 1859); Delle franchigie concesse agli ambasciatori esterni residenti in Venezia (a cura di C. Milanesi, in Arch. stor. italiano, Appendice, IX [1853], pp. 499-537); Sopra le esecuzioni dei dazi agli ambasciatori dei principi stranieri (Venezia, Bibl. naz. Marciana, Mss. It., cl. VII, 609). Per un certo verso queste scritture possono essere viste come esercizi "pratici" in margine al binomio moderazione-fortezza sottolineato dalla Perfezione della Repubblica veneziana: la minaccia turca come l'invadenza romana (il F. si riconosceva pienamente nella tradizione giurisdizionalistica veneziana) e le ingiustificate pretese degli ambasciatori stranieri erano affrontate non solo sotto il profilo tecnico, ma anche nelle loro implicazioni ideologico-politiche.
L'attività pubblica non impedì al F. di misurarsi anche in campi assai lontani dalla politica. Pare che in questa fase intraprendesse, forse perché stimolato dalla frequentazione di Antonio Conti, un poemetto latino intitolato Coralia. L'influenza dell'abate "libertino" Conti e di altri letterati eterodossi (tra i quali il massone Francesco Algarotti e il "cinico" padre Carlo Lodoli) può essere intravista anche dietro le letture più o meno "avanzate", che avevano lasciato una traccia nella stessa Perfezione della Repubblica veneziana (Montaigne, Bayle), oppure erano state riprese e annotate in altri manoscritti (Pufendorf, Giannone). Pur senza abbandonare il solco della tradizione politico-culturale dell'élite patrizia veneziana, il F. rivelava un'indubbia attrazione per talune correnti razionaliste del pensiero contemporaneo, attrazione che sarà confermata anche nella maturità dall'insistenza sulla linea Sarpi - Locke e dai rapporti con l'"ateista" Francesco Griselini.
Nel 1732 fu inviato quale ambasciatore ordinario presso l'imperatore Carlo VI, un incarico al quale si era scrupolosamente preparato raccogliendo per tempo due codici di Notizie politiche, sommarii di dispacci da Vienna, 1728-1732 (Ibid., Mss. It., cl. VII, 6532). Gli avvenimenti del 1733 l'indussero a redigere due scritti in difesa della pace "perpetua" conclusa da Venezia con il Turco e a raccogliere materiali in vista di una Storia arcana dell'imperatore Carlo VI (in Arch. stor. italiano, V [1843]), il cui primo libro avrebbe voluto dedicare nel 1735 al doge Carlo Ruzzini, ma che, a causa dell'improvvisa morte del doge, finì per indirizzare al nipote di Carlo, a quel Marco pochi anni prima destinatario dell'Improvvisa eloquenza.
La Storia arcana non intendeva includere "né battaglie, né assedi, né veruna altra azione di strepito o di fama pubblica", ma voleva invece offrire "una spezie di storia civile" incentrata sui "costumi" dell'imperatore, sul "talento di coloro ch'egli adoperò circa le cose dello stato" e sulla maniera con la quale le avevano gestite. Nello stesso tempo il F. si proponeva di "disvelare i mancamenti delle monarchie, esposte a perire sotto i vizi di pochi" e di utilizzare le cronache internazionali come un negativo, che per contrasto facesse emergere più nitidamente le "buone leggi" della Repubblica marciana.
Gli studi storici e il prestigio politico del F. fecero sì che quando, nel 1735, morì lo storiografo pubblico Piero Garzoni, la carica fosse dal Consiglio dei dieci affidata a lui. Il F. si pose subito al lavoro, affrontando e risolvendo alcune importanti questioni preliminari - di stile, di lingua, di metodo e di contenuti storiografici - nelle conversazioni che ebbe, di ritorno a Venezia, con l'abate Conti e in tre lettere indirizzate a Domenico Passionei, a Scipione Maffei e a un ignoto interlocutore.
Desideroso di "aprire quasi una scuola comune della civile dottrina", il F. optava per una storia scritta "nella lingua comune ai più" e in uno stile adatto "alla popolare intelligenza": una scelta che rispondeva non solo alle finalità civili, ma anche a quelle propagandistiche della storiografia pubblica veneziana. Quanto al metodo storiografico, il F. si rifiutava di avallare l'idea della politica cara ai "seguaci di Tacito", ai machiavelliani idolatri della ragion di Stato. La "vana prudenza" dei "politici specolativi" attribuiva un ruolo preponderante all'"umana ragione", alla quale imputava "quasi tutte le origini degli accidenti civili". In realtà "la maggior parte delle rivoluzioni più strepitose e dei fatti più grandi [era] proceduta in ogni età da cagioni minutissime". La stessa descrizione degli eventi bellici non doveva risolversi in "dimostrazioni geometriche" o "assottiglia[rsi] in differenze teoriche", ma offrire "una tessitura continua di azioni, dove l'ingegno umano e la prudenza non si contemplano già per principi, ma per atti soggetti al senso": d'onde una storia basata su "un metodo… tutto filosofico" e pronta, tra l'altro, a "trattare insieme coi domestici i fatti stranieri" in modo da "formarne un corpo solo".
A Roma, dove il F. fu tra il 1737 e il 1740 ambasciatore presso il papa, questo programma storiografico entrò ben presto in crisi. Dopo aver raccolto alcune Notizie concernenti la sollevazione di Roma 1736. Con alcuni lumi concernenti l'istoria generale delle cose d'Europa degli anni addietro (Venezia, Bibl. naz. Marciana, Mss. It., cl. VII, 6761), il F. decise di abbandonare la tradizionale storia politico-diplomatico-militare commissionatagli dal Consiglio dei dieci (il patrizio avrebbe dovuto narrare le vicende della Repubblica a partire dal 1714, anno sulla soglia del quale s'era fermato, perlomeno nell'opera a stampa, il Garzoni) e di cui egli stesso nelle tre lettere metodologiche non aveva tanto contestato la legittimità quanto esplicitato in chiave "filosofica" le implicazioni.
La storia politica fu accantonata a favore di una storia della cultura veneziana dalle origini a metà Seicento, e cioè di una storia "letteraria" della quale il F. diede un saggio nel Ragionamento intorno alla rinascenza e al decadimento de' buoni studii d'Italia e particolarmente in riguardo alla letteratura della nobiltà veneziana (pubbl. in Della letteratura veneziana ed altri scritti intorno ad essa, Venezia 1854) redatto verso la fine del soggiorno romano (nel 1740 curava anche la stampa, sempre a Roma, delle Rime di sessanta gentiluomini veneziani) e dedicato ai nipoti Sebastiano e Giovanni. Il nuovo progetto storiografico fu insieme causa ed effetto di un'inclinazione erudita rilanciata dalle opportunità offerte dalle biblioteche e dal mercato antiquario romano. A Roma, infatti, il F. incrementò notevolmente, con acquisti di libri e di codici, la biblioteca di casa facendone uno strumento funzionale alla redazione delle "memorie della letteratura veneziana".
Nell'ultimo scorcio dell'ambasceria romana il F. riuscì, grazie alla mediazione papale, ad aprire la strada al ripristino - dopo un lunghissimo intervallo - delle relazioni diplomatiche tra Venezia e il re di Sardegna che lui stesso, in veste di ambasciatore straordinario a Torino, suggellò nel 1741. La relazione che nel 1742-43 dedicò al Piemonte di Carlo Emanuele III rappresenta uno dei capolavori della tradizione diplomatica veneziana: al centro dell'esame del F. erano, più che il discusso problema della collocazione internazionale del Regno nella prima fase della guerra di successione austriaca, "gli ottimi ordinamenti" che Vittorio Amedeo II aveva dato allo Stato sabaudo. Il F. era stato colpito, in particolare, dalla "semplicità del sistema economico sì nel raccoglimento come nella distribuzione del pubblico denaro", un sistema che aveva permesso di raddoppiare le entrate del Regno.
Al ritorno in patria dopo dieci anni trascorsi nelle ambasciate il F. non solo fu riammesso nel Collegio in qualità di savio del Consiglio, il seggio che contava maggiormente nel governo della Repubblica, ma fu anche eletto procuratore di S. Marco "per merito", dopo il dogado la più prestigiosa tra le cariche vitalizie. Nel ventennio seguente il F. cumulò di regola il saviato del Consiglio con altre incombenze strategiche (riformatore dello Studio di Padova, deputato alla Pubblica Libreria, savio alla Mercanzia, deputato alla Provvision del danaro), facendosi strada anche nei retroscena del potere: fin dal 1743 l'ambasciatore francese a Venezia lo indicava come "chef d'un parti", il partito dei "signori", delle case più ricche del patriziato e delle loro clientele.
Questa leadership fece di lui il regista della politica veneziana dai primi anni 1740 alla morte, con l'esclusione del biennio 1750-51, quando, approfittando della crisi di Aquileia, una coalizione di avversari del procuratore guidata da Giovanni Emo, il principale punto di riferimento del patriziato medio e basso, riuscì a ribaltare i rapporti di forza. La preminenza del F., evidente - nel lungo periodo - sul piano politico e su quello culturale, fu consolidata anche sotto il profilo economico dalla decisione di un lontanissimo parente, il ricchissimo Pietro Foscarini ai Carmini, morto nel 1745, di lasciare a lui il grosso dei suoi beni, a patto che abbandonasse il palazzo di S. Stae per quello dei Carmini e che la casa assumesse quest'ultima specificazione.
Sotto la direzione del F. la Repubblica marciana tenne, sul piano internazionale, una rotta assai prudente (la neutralità e la pace furono preservate non solo "fra le armi vicine" delle grandi potenze europee, ma anche pagando le taglie imposte dai corsari barbareschi) e scarsamente incisiva su quello interno. La preoccupazione di non proporre nulla "che no sia da gran tempo introdotto e provà nella Repubblica" e, soprattutto, di non incrinare gli equilibri politico-sociali del corpo aristocratico indussero il F. a mettere la sordina ai propositi di riforma suggeritigli, tra l'altro, dall'esempio sabaudo. Pur apparendo, in forza dei suoi continui interventi in Senato, "autor di troppe cose", in realtà il F. di regola non andò al di là di un moralistico tentativo di svegliare dalla "comun sonnolenza" il governo veneziano e di richiamare "le cose ai so principii" in modo da salvaguardare, più nelle forme e nelle coscienze che nei fatti, l'"interna reputazion" rimasta alla Repubblica dopo la "molta perdita de potenza".
I limiti della sua strategia politica emersero chiaramente nel corso della crisi di Aquileia, quando, pur favorevole a un compromesso con il papa e con l'Impero basato sull'"estinzione" del patriarcato, rimase tuttavia impastoiato, una volta di più, dai "saggi esempi dei Maggiori" e finì per essere prima scavalcato e poi travolto dagli sviluppi dell'"affare". Respinto, nel 1750-51, ai margini del gruppo dirigente (nel biennio non fu riconfermato savio del Consiglio), il F. poté dedicare maggiore tempo e attenzione alla sua opera principale, Della letteratura veneziana, il primo volume della quale (l'unico edito) fu dato alle stampe a Padova nel 1752.
Nonostante la formula affatto eccentrica rispetto alla tradizione storiografica pubblica, il contributo del F. fu accolto e celebrato dal Consiglio dei dieci come se rispettasse i canoni della storia ufficiale. In tal modo, come ha sottolineato F. Venturi, la Repubblica riconosceva implicitamente che la sua "reputazion" non riposava più sulle glorie politico-militari, ma su una ricca e complessa cultura civile. "Lavoro ponderosissimo, frutto, si può ben dire, di una vita di ricerche e messo insieme con la partecipante collaborazione di vari eruditi" (E. Leso), tra i quali Apostolo Zeno, Girolamo Tartarotti, Marco Forcellini e, in modo particolare, Gasparo Gozzi, il primo tomo della Letteratura veneziana riguardava "le sole dottrine meglio conferenti allo Stato" e saldava strettamente l'erudizione alla politica, nella scia di una tradizione rinascimentale che sottolineava i legami delle "lettere coll'amministrazione dello Stato".
Il capolavoro del F. nasceva da "una visione più libera della ricerca storica come elemento indispensabile per affermare il diritto delle nazioni alla propria esistenza" (F. Venturi), ma nello stesso tempo ubbidiva a preoccupazioni culturali e politiche di segno conservatore. Il F. intendeva, da una parte, contrapporre il "patrimonio civile e culturale unico e originalissimo" di Venezia (E. Leso) alle influenze culturali transalpine (non a Montesquieu, ma a Sarpi ci si doveva rivolgere per conoscere "il vero spirito delle leggi") e dall'altra ispirare ai patrizi, soprattutto ai giovani, il rispetto degli "autori delle usanze del governo civile" e quindi impedire loro di "alterare" le istituzioni ricevute dagli "antichi". La "santità" del presente era garantita dal passato, dalla storia, che dimostrava la necessità di salvaguardare il tradizionale assetto dello Stato veneziano contro ciò che nel 1762 il patrizio bollerà come "vaghezza de cose nove".
Intanto il F. stava per ritornare alla guida del governo marciano. Dopo che nel marzo del 1752 il suo "partito" era riuscito a impedire al maggiore antagonista, l'Emo, la conquista del dogado, a dicembre il F. riotteneva il seggio di savio del Consiglio. Negli anni seguenti, pur continuando a essere il punto di riferimento dei "signori", cercò di intervenire nei dibattiti e nei conflitti più in veste di moderatore e di mediatore che di capo di un "partito": una strategia funzionale all'ultima meta politica che si era assegnata, l'elezione al dogado. Quando, nel settembre del 1754, il nipote Sebastiano lanciò un'offensiva giurisdizionalista facendo varare un decreto che rafforzava il controllo della Repubblica sulle "carte" della Curia romana, l'appoggiò senza molto calore; quattro anni più tardi era tra i più attivi a favore di una ricomposizione della crisi con il papa.
Nel 1761 il F. fu costretto ad abbandonare il ruolo di autorevole ago della bilancia politica veneziana da una gravissima crisi istituzionale innescata dall'arresto dell'avogador di Comun Angelo Querini, uno dei leaders più combattivi della nobiltà giudiziaria, per ordine degli inquisitori di Stato. Poiché i "quirinisti" erano riusciti a bloccare l'elezione del Consiglio dei dieci, si istituì una magistratura straordinaria, i correttori delle leggi, con il compito di proporre delle riforme. Mentre la coalizione "quirinista" comprendeva in prevalenza patrizi della media e piccola nobiltà ai margini della classe dirigente, il fronte dei sostenitori degli inquisitori di Stato e, più in generale, dell'establishment, fece perno sul F. che fu eletto correttore unitamente ad altri due patrizi del suo "partito", mentre i "quirinisti" ottennero due seggi. Il successo arrise al procuratore in quanto, da un lato, riuscì a tessere trame clientelari così efficaci da dividere il fronte "quirinista" e attirare nella sua orbita parte del patriziato basso, e dall'altro seppe abilmente tradurre la strategia conservatrice dei "signori" in un linguaggio politico in grado di garantirgli - come egli stesso si era lucidamente proposto - "il favore dei poveri" e, più in generale, dei "chietini", della media e piccola nobiltà di orientamento "rustego" acriticamente aggrappata ai riti e ai miti tradizionali.
Nell'importante arringa del 10 marzo 1762 il F. sfiorò soltanto quelle argomentazioni di taglio "signorile", che pure aveva opposto agli avversari nella fase istruttoria della correzione, a favore di una perentoria e paradossale riaffermazione dell'uguaglianza del "corpo civil", della "sostanzial parità" che "correva" tra i patrizi, "parità coetanea alla nascita e che forma la base d'ogni governo aristocratico".
La proposta dei "quirinisti" di tutelare più efficacemente i loro capi istituzionali (gli avogadori di Comun e i capi delle Quarantie) nei confronti degli interventi arbitrari degli inquisitori di Stato e del Consiglio dei dieci fu bollata dal F. come un indebito tentativo di introdurre una "differenza tra nobili e nobili" e come un frutto di quell'insana "vaghezza de cose nove concepia per alcuni soto el finto nome de riforma". "Le antiche leggi e le costanti pratiche de cinque secoli" invitavano a "confessar la necessità del gravissimo Tribunal" degli inquisitori. In quel calcolato sistema di pesi e di contrappesi che era il regime veneziano, togliere una singola pietra dall'edificio che i maggiori avevano innalzato "con finissimo artifizio" voleva dire condannare la Repubblica alla rovina.
"La salvezza de la patria", ammoniva ancora il F., "no xe riposta nel nome e ne la magioranza dei consessi", nella "moltitudine" patrizia, "ma bensì nel ben conosser i bisogni de lo stato, misurai con la forza interior del governo e con l'indole dei nostri costumi": la "triplice autorità de la razon, de la storia e de le leggi" invitava a "lassar le cosse come le sta". Fu in questa politica del tutto impermeabile al rinnovamento istituzionale che il Maggior Consiglio finì per riconoscersi, decretando in tal modo il trionfo del "partito" del Foscarini.
Poche settimane più tardi moriva il doge Francesco Loredan. Il F., che proprio in vista della concorrenza al dogado aveva cercato di non aggravare la frattura tra i "tribunalisti" e i "quirinisti", fu il solo a candidarsi alla carica. Avendo distribuito, come esigeva la tradizione, parecchio denaro tra i patrizi "poveri", il 31 maggio 1762 fu eletto doge con una votazione quasi plebiscitaria.
Il F. morì a Venezia il 31 marzo 1763. Fu seppellito nella chiesa di S. Stae, nella tomba di famiglia.
Alla brevità del dogado e alla malattia che lo colpì fin dall'estate del 1762 i biografi del F. hanno attribuito la mancata realizzazione di un incisivo programma di riforme. In realtà, l'unico episodio significativo che connotò i trecento giorni che videro il F. alla testa della Repubblica fu di segno reazionario: nel settembre del 1762 i riformatori dello Studio di Padova, una magistratura che stava particolarmente a cuore al doge, convinsero il Senato a revocare l'importante riforma dell'università patavina, che un anno prima una terna "progressista" di riformatori aveva fatto approvare.
L'impermeabilità del F. nei confronti della cultura dei lumi e l'alleanza dei "signori" con i "chietini", ivi compresa la frazione filocuriale, rendevano assai improbabile una sua adesione a un progetto innovatore. Non a caso soltanto dopo la scomparsa del "gran doge" celebrato dalla musa popolare, di colui che era senza dubbio "un Ciceron, che gaveva la testa de Platon" (come riconosceva perfino il "quirinista" Giorgio Baffo [cfr. Da Mosto]), ma che era troppo legato a una visione "stazionaria" della politica e della storia veneziane, si affermerà, grazie alla regia del Tron, un programma di modernizzazione dello Stato veneziano.
Fonti e Bibl.: I codici redatti dal F. o comunque appartenuti alla sua biblioteca si trovano quasi tutti a Vienna, nella Handschriftensammlung della Nationalbibliothek. La raccolta è stata descritta da T. Gar in Arch. stor. italiano, t. V (1843), pp. 281-476, in un volume che propone, tra l'altro, la Storia arcana e le lettere metodologiche al Maffei e al Passionei; un elenco delle carte del F. tuttora inedite figura nell'appendice bibliografica all'Introduzione di L. Ricaldone a M. Foscarini, Necessità della storia e Della perfezione della Repubblica veneziana, Milano 1983, pp. 70-74. La maggior parte degli scritti del F. fu pubblicata nel corso dell'Ottocento: un catalogo delle opere a stampa ibid., pp. 67-70; la stessa Ricaldone ha di fatto completato, con l'edizione della Perfezione della Repubblica veneziana, la stampa degli interventi più significativi del Foscarini. Più che dalle scarne Memorie d'alcune cose della mia vita, appunti del F. in vista d'una autobiografia editi da E. Morpurgo in M. F. e Venezia nel secolo XVIII, Firenze 1880, pp. 347-351, la sua vita politica e culturale emerge dagli elogi dei contemporanei (cfr. quelli di V. Zaguri, S. Molin, L. Flangini e L. Arnaldi, in Orazioni, elogi e vite scritte da letterati veneti patrizi in lode di dogi…, Venezia 1796, pp. 235-319; F. Scarselli, Nella elezione a doge di Venezia del serenissimo principe M. F., Bologna [1762]; D. Michelessi, Laudatio in funere…, Venetiis 1763; C. Sibiliato, De eloquentia M. F. Venetorum ducis, Patavii 1765) e dai contributi degli storici: la Prefazione di T. Gar al cit. tomo dell'Arch. stor. italiano (1843), pp. IX-XLI; F. Berlan, Dei meriti letterari e politici di M. F., Venezia 1867; E. Morpurgo, M. F., cit.; F. Gandino, M. F. Ambasceria di Vienna (1732-35), in Arch. stor. lomb., s. 2, XIX (1892), pp. 776-862; Id., Ambasceria di M. F. a Torino (1741-1742), in Nuovo Arch. veneto, II (1892), 2, pp. 387-452; Id., Ambasceria di M. F. a Roma (1737-40), in Misc. di st. veneta, s. 2, II (1894), pp. 1-79; C.A. Levi, Lo storico M. F., Venezia 1907; A. Bozzola, M. F. politico, storiografo, diplomatico, in Boll. stor.-bibl. subalpino, XL (1938), pp. 88-128, 163-220; XLI (1939), pp. 38-96; A. Da Mosto, I dogi di Venezia, Milano 1960, pp. 496-510; F. Venturi, Settecento riformatore. Da Muratori a Beccaria, Torino 1969, pp. 276-292; Id., Utopia e riforma nell'Illuminismo, Torino 1970, pp. 44-48; E. Leso, Nota introduttiva a M. F., in Dal Muratori al Cesarotti, V, Politici ed economisti del primo Settecento, Milano-Napoli 1979, pp. 167-202 (cfr. la recensione di P. Del Negro, in Riv. stor. italiana, XCII [1980], pp. 793-803); F. Venturi, Venezia nel secondo Settecento, Torino 1980, pp. 7 s., 16-32; P. Del Negro, Politica e cultura nella Venezia di metà Settecento…, in Comunità, XXXVI (1982), 182, pp. 404-420; L. Ricaldone, Introduzione a M. F., Necessità della storia, cit., pp. 7-65; P. Del Negro, Proposte illuminate e conservazione nel dibattito sulla teoria e la prassi dello Stato, in Storia della cultura veneta, 5, Il Settecento, II, Vicenza 1986, pp. 127 ss., 137.