FOSCARI, Marco
Nacque a Venezia nell'estate del 1477 (così si ricava dal testamento) secondogenito di Giovanni del procuratore Marco, del ramo a S. Simeon Piccolo, e Paola Gritti di Triadano, zia del futuro doge Andrea Gritti.
La famiglia era ricca e aveva cospicui interessi nel mondo della mercatura, ma non risulta che il F. se ne sia mai direttamente occupato, preferendo invece impegnarsi in campo culturale e politico (e anche sotto questo riguardo la sua fu una concezione istintivamente aristocratica, certo a motivo dei prestigiosi natali: il nonno procuratore era stato infatti fratello del grande doge Francesco, e di recente uno zio paterno, Pietro, era divenuto cardinale; di scarsa o nessuna influenza dovette invece riuscirgli l'immagine del genitore, morto prima che il F. compisse quindici anni); ancora, a distoglierlo dalla pratica della mercatura non dovette essere estranea la guerra contro i Turchi, che provocò una lunga paralisi dei traffici.
Di tale sfavorevole congiuntura egli seppe peraltro abilmente (e spregiudicatamente) approfittare proprio agli esordi della carriera politica: savio agli Ordini per il primo semestre del 1500, fece sua la causa dei mercanti che speculavano sul rialzo dei prezzi dei grani, patrocinando la sospensione delle "mude" di Beyrut e di Alessandria.
Questo può forse spiegare la successiva nomina a provveditore all'Armar (30 genn. 1501), ma anche la mancata elezione, di lì a poco, ad ambasciatore presso Consalvo di Cordova (14 febbraio) e poi a Ferrara (31 dicembre). Lo scarso favore di cui il F. godeva presso i concittadini seguitò per lungo tempo a condizionare il suo cursus honorum; dopo avere sposato, il 1° marzo 1500, Orsa Cappello, da cui ebbe numerosi figli, il 23 sett. 1503 entrava a far parte degli auditori delle Sentenze Vecchie, ma neppure l'appoggio dei nuovi parenti valse ad assicurargli un sicuro inserimento nel corpo politico dello Stato: per quasi un decennio il suo nome sembra perdersi, e sappiamo dal Sanuto che solo il 15 luglio 1508 venne eletto senatore.
Bisogna pertanto attendere il maggio 1512 per ritrovare il F. nell'ambito dell'amministrazione statale, come ufficiale alla Camera degli imprestidi, donde passò alla Camerlengaria di Comun nell'agosto dell'anno seguente. Si tratta comunque di cariche di non grande respiro (dalla seconda delle quali, oltretutto, si dimise anticipatamente "visto le cose non era a suo modo", come riferisce il Sanuto); più importante appare invece un'annotazione dello stesso diarista alla data del 25 ott. 1513, in cui ricorda l'esibizione del F. di inviare a proprie spese 4 soldati alla difesa di Padova, dove la famiglia possedeva una struttura urbana di grande prestigio: l'Arena, presso la chiesa degli eremitani.
Gli ostacoli all'affermazione politica del F. si spiegano facilmente: troppo vistosi, accanto ai pregi, i difetti dell'uomo, soprattutto troppo intrisa di ostentata consapevolezza d'una presunta superiorità la sua figura, agli occhi dei concittadini, a cominciare dallo stesso Marin Sanuto, che dall'iniziale ammirazione sarebbe passato ben presto a un atteggiamento di palese insofferenza; il F. "sapeva riunire in sé, senza tentennamenti, un forte senso dell'autorità dello Stato e delle leggi all'affermazione spregiudicata della propria personalità e dei propri interessi particolari, con quella assoluta certezza del proprio diritto, con quell'istinto sicuro del potere che gli veniva dall'autoidentificazione nello Stato di un ceto dominante consacrato dalla superiorità sociale e da una tradizione plurisecolare all'esercizio del governo" (Ventura, 1981, p. XLIV).
Dati questi presupposti, non c'è dunque da stupirsi se l'affermazione del F. nell'ambito della politica veneziana venne costruita soprattutto fuori delle assemblee cittadine e delle stesse magistrature urbane, attraverso costosi difficili incarichi espletati all'estero o nelle province della Terraferma.
Il momento decisivo della sua carriera può essere individuato nella nomina all'avogaria di Comun, che peraltro egli dovette acquistare, il 5 apr. 1516, impegnandosi a versare all'Erario 2.000 ducati.
Vestì i panni del moralizzatore, dimostrando quantomeno un ottimo fiuto politico. Perché di onestà allora s'avvertiva un gran bisogno, a Venezia, dove il forte incremento demografico fatto registrare dal patriziato nel corso del XV secolo, e il moltiplicarsi degli uffici - conseguente alla conquista della Terraferma e alla concomitante flessione dei traffici - avevano conferito dimensioni sino allora sconosciute alla pratica clientelare e agli intrighi del broglio.
Il 20 ott. 1516, scrive il Sanuto, parlò "con gran atention de tutti… alegando Aristotile nel quinto di l'Eticha", e pur "zovene de anni" riuscì a trascinare in giudizio Giovanni Emo, accusandolo di peculato. La moglie del F. e quella dell'Emo erano sorelle, per cui una siffatta esibizione di imparzialità riscosse il consenso di tutti; pertanto si guardò con fiducia a lui e al collega Lorenzo Orio, quando a fine anno lasciarono la città per recarsi a ispezionare le Camere fiscali della Terraferma, dissestate dalla guerra, in qualità di avogadori straordinari.
Il 28 dicembre i due erano a Padova, quindi si recarono a Treviso, Belluno, Brescia, Crema, Bergamo, Verona e Vicenza, alternando il rigore alle blandizie. Nel rispetto del tradizionale empirismo cui s'ispirò la prassi amministrativa veneziana, la loro opera consistette nel sanzionare praticamente la fine di una fase di eccezionali sconvolgimenti e il ritorno alla normalità, ripristinando la certezza del diritto e dell'autorità politica che ne era garante: è, in fondo, la strategia che essi raccomandarono al Senato al termine della loro fatica, durata quasi sei mesi, e che conosciamo attraverso la relazione letta dal F. il 14 giugno 1517, riassunta dal Sanuto, che per la ricostruzione della sua vita costituisce la fonte principale.
Il F. fu lodato "sommamente" per quanto operato e di lì a qualche giorno venne eletto savio di Terraferma per il secondo semestre dell'anno. Era all'apice del prestigio e della popolarità, e non mancò di sfruttare da par suo l'occasione. Fece propria, ancora una volta, la causa moralizzatrice nella quale pareva ormai identificarsi, interpretando il diffuso sentimento di riprovazione per la corruttela politica.
Anche in Sanuto troviamo l'espressione del consenso che ne sottese l'azione: alla data del 13 sett. 1517 il F. è ormai divenuto "quel dignissimo senator [il quale], visto questa propinqua ruina" caldeggia l'istituzione di una nuova magistratura, classicamente denominata dei Due censori, cui tocchi il compito di vigilare sulla correttezza della prassi amministrativa, di ancorare a rigorosa osservanza le coordinate dell'etica politica.
Naturalmente il F. fu il primo a essere eletto all'alta carica e ancora venne chiamato a ricoprirla nell'agosto del 1519, alternando il ruolo con quello di savio di Terraferma, che tenne dall'ottobre 1518 al marzo 1519 (e ancora, per lo stesso semestre, nel 1519-1520 e nel 1520-1521), adoperandosi in un'intensa attività che spaziava dalla repressione suntuaria alla denuncia del broglio, del peculato, della malversazione, con particolare riguardo alla gestione delle Camere fiscali delle province di Terraferma.
Divenne così - per una breve stagione - quasi il simbolo delle speranze e delle tensioni che dopo tante guerre accompagnarono il rinnovamento dello Stato marciano, e a sottolineare ancor più l'importanza della funzione espletata gli vennero affidati prestigiosi compiti: nel gennaio 1519 fece parte della delegazione incaricata di conferire con l'inviato del sultano Selim; un anno dopo (21 marzo 1520) fu tra i nobili inviati a incontrare il cardinale Ippolito d'Este che tornava da Buda, e nel gennaio del 1521 venne destinato a trattare con l'ambasciatore del re d'Ungheria, per via di un prestito richiesto da quest'ultimo alla Signoria.
Né s'interrompeva la sua azione: nel novembre 1520 fece respingere la revoca per denari da un bando d'esilio triennale comminato a un ebreo, ricordando che "non è da vender la justitia per danari", e un anno dopo come avogador di Comun non esitò a trascinare in tribunale quel singolare (e per tanti aspetti straordinario) personaggio che fu Giovanni Contarini "Cazzadiavoli", reo di aver fornito biscotto avariato agli equipaggi dell'armata marittima. Sempre in veste avogaresca nel dicembre 1521 si oppose nuovamente a Giovanni Emo, che esibiva 4.000 ducati per la revoca dell'esilio comminatogli: stavolta però la grazia fu concessa.
In realtà dietro l'episodio si celava il tentativo di porre un freno all'opera del F. (il 17 marzo 1522 Sanuto parla dell'aperta rivolta di numerosi patrizi "venuti con furia in Pregadi"), e infatti la magistratura dei Censori venne soppressa per un triennio. Del resto, taluni sconcertanti atteggiamenti dello stesso F., non mancando di suscitare perplessità e riserve, ne intaccarono il prestigio: il grande moralizzatore, infatti, sembrava non considerare che le leggi potessero riguardare anche la sua persona; non quelle suntuarie, almeno, visto lo sfarzo esibito in occasione del matrimonio della figlia Maria con Pietro Grimani (1519), ma neppure quei regolamenti che lui stesso aveva fatto approvare in materia di broglio, che non rispettava quando si trattava di favorire qualche amico, specie se del novero delle grandi casate "ecclesiastiche", come i Corner, i Grimani, i Pisani.
Una delle procedure invalse nel patriziato veneziano suggeriva che, quando si voleva colpire qualcuno, gli si conferisse un incarico lontano dalle lagune: e così il 22 ag. 1522 il F. venne eletto tra i sei oratori "d'obbedienza" al papa Adriano VI; inoltre, essendo risultato il più votato gli sarebbe poi toccato restare a Roma in qualità di ambasciatore ordinario.
Dopo la sconfitta francoveneta patita in aprile alla Bicocca, la posizione della Repubblica nei confronti delle mire imperiali sul Milanese s'era fatta alquanto delicata e molto sarebbe dipeso dall'atteggiamento del nuovo pontefice. La legazione tuttavia tardò a partire a causa della peste che serpeggiava a Roma, sicché il discorso ufficiale venne pronunciato dal F. soltanto il 20 apr. 1523.
Giusto un mese dopo Andrea Gritti saliva al dogato e questo rafforzò ulteriormente il prestigio del F. (erano cugini, figli di sorelle), che riuscì ad accelerare le trattative segrete che sfociarono nell'alleanza con la S. Sede e l'Impero (29 luglio 1523); tuttavia la prematura scomparsa di Adriano VI impedì al F. di concludere le trattative, parimenti importanti per la Repubblica, miranti a ottenere il riconoscimento della giurisdizione veneziana sul Golfo e su Cervia e Ravenna, e la sua attenzione fu naturalmente assorbita dal lungo conclave, che ben presto si ridusse allo scontro tra i fautori e gli oppositori di casa Medici: "Lì dentro - scriveva al Senato il 6 novembre, stigmatizzando l'intransigenza dei prelati, che ne causava la segregazione in spazi angusti - è grandissima puza e stanno mal a destro; pur sono più obstinati cha mai".
Nel nuovo eletto, Clemente VII, il F. avrebbe trovato un valido interlocutore, sia perché allora gli interessi tra la Repubblica e la S. Sede convergevano, sia per l'intesa personale tra i due. Il F. riuscì a conquistare la fiducia del papa, e ad allontanarlo progressivamente da Carlo V di mano in mano che le sconfitte patite da Francesco I ne indebolivano il ruolo di garante dell'equilibrio politico nella penisola.
Se ancora nel marzo del 1524 il F. scriveva che "il papa dà parole a franzesi, ma è tutto imperiale", dopo la battaglia di Pavia l'adesione a Carlo V parve finalmente venir meno: il 22 maggio 1525 - riferisce il Sanuto - "l'orator nostro fo dal Papa, et stete con Soa Santità per spacio di tre hore, poi vene fora molto aliegro", sicché il 10 dicembre il F. poteva scrivere al Consiglio dei dieci che proprio "quel giorno havia concluso col Papa e sottoscritto li capitoli di la liga diffensiva, e il Papa ha promesso e stipulà come procurator di fiorentini; siché è stà zurada, stipulata e confirmata". Un mese dopo la pace di Madrid finiva di spianare la strada al consolidamento dell'alleanza antimperiale di Cognac (22 maggio 1526), ma a quella data il F. era già rientrato a Venezia, pago del servizio espletato e, a dire il vero, non solo di quello: infatti, subito dopo aver lasciato Roma (18 aprile), informato che il vescovo di Torcello era in fin di vita, era tornato indietro col pretesto di certe novità concernenti la Francia, riuscendo a ottenere dal papa la nomina al vescovado del proprio figlio Girolamo.
Il suo disinvolto opportunismo non si fermò qui: alla fine di settembre fu duramente accusato dal censore Francesco Valier di aver brogliato per farsi eleggere savio del Consiglio (gli si ritorceva contro proprio lo strumento che egli aveva ideato per reprimere la corruzione assembleare), e all'inizio del nuovo anno offriva ai concittadini nuovo motivo di mormorazione violando le leggi suntuarie con uno splendido banchetto in onore dell'adolescente Cosimo de' Medici e del cugino Lorenzino, riparati a Venezia con altri fuorusciti fiorentini.
C'era indubbiamente qualcosa di provocatorio nel comportamento del F., e questo gli valse l'elezione ad ambasciatore a Firenze, il 14 genn. 1527; era necessario, infatti, tener fermo nella lega il papa, che ne appariva l'anello più debole ora che i lanzichenecchi erano in Italia, per cui in realtà il nuovo incarico risultava una sorta di prolungamento dell'ambasceria romana. Il F. partì quasi subito, il 19 gennaio, e dieci giorni dopo era in Toscana, dove rimase giusto un anno: si sarebbe infatti presentato in Senato a riferire il 10 febbr. 1528.
Firenze era una città percorsa dall'odio antimediceo, alimentato dal ricordo della libertà perduta; donde, nell'instabilità della congiuntura politica, ricorrenti tentativi di sollevazione, che il F., coadiuvato dal provveditore veneziano Alvise Pisani, contribuì a sedare, finché il sacco di Roma (6 maggio 1527) non determinò il ristabilimento del governo repubblicano.
Ma più che per l'opera prestata a Firenze, questa legazione del F. è famosa per la relazione che egli ne fece dopo il rimpatrio: documento di grande bellezza e importanza, ricco di richiami e citazioni, segno di vasta erudizione e raffinata cultura. Il testo scritto non fu depositato in Cancelleria, e solo nel luglio del 1533, per obbedire a una disposizione di legge, egli ne consegnò un breve riassunto, giustificandosi col fatto che la caduta della seconda Repubblica e la restaurazione del governo mediceo rendevano inutile il ricordo di tante "particularità". Ma poi, fra il 1533 e il 1534, prese a circolare a Venezia, e nei principali centri d'Europa, l'ampia relazione che conosciamo e che fu evidentemente elaborata dal F. per fini diversi da quelli inerenti all'adempimento di una prassi burocratica. Lo scopo potrebbe essere stato suggerito dal desiderio di appoggiare il progetto di revisione giuridico-costituzionale promosso dal doge suo cugino e reso più vivo, nel corso degli anni Trenta, dalle conseguenze della pace di Bologna; un tentativo ispirato a una concezione oligarchica dello Stato, perfettamente in linea con la visione del Foscari. Si spiegherebbe in tal modo lo spirito che anima larga parte dello scritto, permeato da palese disprezzo verso gli elementi "popolari" presenti nella società di Firenze, dove "tutti sono artefici…, e li primi, che gubernano el Stato, vanno alle loro botteghe di seda e, gettati i lembi del mantello sopra le spalle, vanno alla caviglia e lavorano…".
Tuttavia la relazione del F. non si esaurisce nella polemica antifiorentina (del resto ricorrente negli scrittori veneziani): questo ne è certo l'aspetto più significativo - come hanno sottolineato, per limitarsi ai più recenti autori, A. Ventura e G. Corazzol - ma il valore del documento si estende anche ad altri temi, tra i quali spicca l'apprezzamento per i seguaci di G. Savonarola, su cui si è soffermato W.J. Bouwsma.
Certo risulta difficile comprendere come a un politico così fine e accorto potesse essere attribuito di lì a poche settimane un incarico di angusto respiro e di natura essenzialmente militare, tuttavia il 18 apr. 1528 il F. veniva eletto provveditore generale di Brescia, nel corso della guerra antimperiale che vide la spedizione di Odet de Foix visconte di Lautrec nel Meridione: se era normale nella prassi politica del patriziato l'avvicendarsi di compiti diversi, pure è altrettanto indubbio che il F. a Venezia non lo si voleva.
L'aspettavano mesi di intensa attività, perché la discesa dal Tirolo dei lanzichenecchi spinse le popolazioni del contado a cercar riparo entro le città; donde ruberie, violenze, malattie e soprattutto problemi annonari dai quali il F., tormentato anche da dolori a un fianco e mal coadiuvato dai colleghi, sulle prime parve esser travolto: "Tutto questo paese è in fuga - scriveva il 28 maggio - et va in preda da questi pochi poltroni, et tanti cara di robe vien in questa terra che non si pol pensar; tuti fuzeno". Fortunatamente, almeno le città (soprattutto Bergamo era stata minacciata d'assedio) riuscirono a evitare l'assalto del nemico, grazie anche al valore dimostrato dal comandante delle truppe venete, Francesco Maria Della Rovere.
Tornato a Venezia nella prima metà di novembre, il 6 marzo 1529 fu eletto savio sopra il Sussidio della Terraferma e nei mesi seguenti si batté in Senato in favore della Francia: era convinto infatti della necessità di favorire un intervento in Italia di Francesco I, qualora Carlo V fosse sceso nella penisola.
L'avversione da cui continuava a essere circondato ci è testimoniata non solo dal Sanuto, assai freddo nei confronti del F., ma anche da una nuova elezione a provveditore a Brescia, verificatasi il 15 ag. 1529. Quel giorno il F. non era a palazzo perché ammalato; due giorni dopo, l'avogador Marino Giustinian riferiva d'averlo trovato a letto "con mala ciera per il dolor del fiancho, che l'havea lengua negra, et quando el stesse ben, fin 15 zorni non si poteva adoperar", sicché si dovette nominare altra persona.
Qualche mese dopo gli riuscì nuovamente di evitare una dispendiosa e faticosa missione fuori di Venezia: il 3 genn. 1530, mentre ci si accingeva a eleggere un ambasciatore da inviare presso Carlo V, il F. "andò in renga dubitando non esser fatto, et biasemò la parte…, dicendo non parla per lui perché, avendo negotià tanto a Roma contra, l'imperator non lo vederà volentiera".
Largo di nomine lontano dalla patria, il Senato gli negava invece l'accesso alle sedi ove si decideva la linea politica della Repubblica: tra il 31 marzo 1530 e il 26 marzo 1532, il Sanuto riporta per ben dodici volte la mancata elezione del F. a savio del Consiglio, nonostante questi non esitasse a tentare ogni mezzo, ricorrendo a "gran procura" per ottenerla.
Il 9 maggio 1530 fu nominato savio alle Decime, seguì poi un'altra ambasceria: l'11 ottobre 1532, insieme con Lorenzo Bragadin, Marcantonio Contarini e Girolamo Pesaro, il F. fu incaricato di accompagnare Carlo V nel suo passaggio per le province venete, nel corso del viaggio dall'Austria alla Spagna. L'incontro ebbe luogo a Pontebba e qualche giorno dopo (27 ottobre), a Spilimbergo, il F. - che nella circostanza risultò bene accetto all'imperatore - tenne l'orazione la quale fu "da tutti… comendata"; il congedo avvenne a Isola della Scala, presso il confine mantovano, il 6 novembre.
Stavolta giunse la tanto desiderata nomina a savio del Consiglio, ricoperta nel primo semestre 1533, e quindi l'elezione a censore, carica che tenne dal 30 sett. 1533 al 29 sett. 1534.
Nuovamente savio del Consiglio da gennaio a maggio del 1535, e poi ancora nel secondo semestre dello stesso anno, il 4 settembre era eletto ancora una volta ambasciatore - insieme con Tommaso Contarini, Giovanni Dolfin e Vincenzo Grimani - a Carlo V, reduce dalla vittoriosa impresa di Tripoli.
Compito della legazione (lasciò Venezia il 26 nov. 1535 e si ripresentò in Senato il 26 febbr. 1536) era di recarsi a Napoli per congratularsi con l'imperatore; dunque una missione di natura diplomatica piuttosto che politica, sennonché la sopravvenuta morte del duca di Milano, Francesco II Sforza (1° nov. 1535), caricò l'ambasceria di ben altra importanza: inutilmente, peraltro, poiché la Repubblica non riuscì a impedire l'annessione del Ducato milanese ai domini asburgici.
Rimpatriato, il F. divenne savio sopra le Leggi il 22 apr. 1536, poi savio del Consiglio dall'ottobre al marzo del 1537, quindi, quasi ininterrottamente, dall'ottobre 1537 al marzo 1538, e ancora dal 30 luglio a settembre dello stesso anno, poi nel primo semestre del 1539 e dal 13 luglio a fine settembre 1539; dopodiché venne eletto consigliere per il sestiere di Santa Croce, dall'ottobre del 1539 al settembre 1540.
Intanto, nell'estate del 1537 i Turchi avevano aggredito Corfù, segnando così l'inizio di una nuova difficile guerra destinata a concludersi solo nell'autunno del 1540. Assai debole fu il soccorso prestato alla Repubblica da parte degli Stati cristiani, anche dopo la pace di Nizza; ma che Venezia sarebbe stata sola, il F. l'aveva capito da tempo: per questo egli assunse in Senato una posizione ispirata a grande prudenza, esortando a non spingere la flotta fuori del Golfo e a procurare la pace col Turco a ogni costo, mantenendo poi una condotta equidistante tra Francia e Impero.
Era la politica perseguita dal Consiglio dei dieci e da quanti si riconoscevano nelle sue tendenze oligarchiche; tra costoro, ovviamente, primeggiava il F., che anzi, convinto com'era che proprio in quella congiuntura fossero in gioco i destini della patria, minata dallo stesso male che aveva affossato la Repubblica fiorentina (il 20 sett. 1539 s'era deliberata la creazione degli inquisitori di Stato, per garantire meglio la segretezza delle deliberazioni assembleari), nello scorcio dello stesso anno si fece autore della "più scoperta proposta oligarchica della storia veneziana del Cinquecento" (Ventura, 1981, p. XLIX). Quando il 17 nov. 1539 il Consiglio dei dieci propose l'istituzione di una commissione di cinquanta senatori per trattare la pace con gli Ottomani, il F. (che faceva parte della zonta dello stesso Consiglio, nelle vesti di consigliere ducale) avanzò un emendamento che, rimettendo tale elezione appunto ai Dieci e alla loro zonta, anziché al Senato, tendeva a privare quest'ultimo del controllo sui principali organi dello Stato, e in particolare a escluderlo dalla guida della politica estera. In altri termini, il restringimento del potere decisionale, che già i Pregadi avevano attuato nei confronti del Maggior Consiglio, a parere del F. non era più adeguato alle necessità dei tempi, e andava ulteriormente perfezionato.
Il tentativo si risolse però in un fallimento, che il F. pagò duramente con l'emarginazione da ogni incarico: per più di un anno non fu più eletto ad alcuna magistratura e la sua stessa figura subì una sorta di damnatio memoriae. Secondo il Priuli il F. uscì "vilipeso" dalla vicenda, giocandosi per sempre il titolo di procuratore di S. Marco, e Paolo Giovio, che lo conosceva e lo stimava sin dal tempo dell'ambasceria romana, afferma esplicitamente di esser stato pregato di sopprimere, nelle sue Istorie, "le laudi date e scritte a honore del prudentissimo m. Marco Foscari…". Di contro, elogiarono l'operato del F. solo taluni pochi fautori della linea politica da lui invano perseguita, come Giovanni Maria Memmo e Pietro Giustinian.
Qualche mese prima, il 3 luglio 1539 il F. era stato eletto nuovamente ambasciatore presso Carlo V, ma era riuscito a evitare la nomina, che andò a Francesco Contarini; poi, come si è detto, si ebbe una lunga assenza dalla scena politica, conclusa con l'elezione a savio del Consiglio per il primo semestre 1542 e, dopo un altro intervallo durato un anno e mezzo, con la puntuale riconferma alla prestigiosa carica per il secondo semestre, dal 1544 al 1547 e nel biennio 1549-1550. Fece parte inoltre del Collegio delle fortezze (venne nominato il 5 dic. 1545), e fu nuovamente consigliere ducale dal giugno 1548 al maggio 1549 e dal febbraio 1551 sino alla morte, avvenuta peraltro pochi giorni dopo; il 31 genn. 1551 era stato inoltre eletto riformatore dello Studio di Padova.
Morì nel suo palazzo di Venezia il 27 febbr. 1551; nel testamento (steso pochi giorni prima), ricco di quelle citazioni bibliche e classiche che sempre gli furono care, il F. raccomandava ai "dolcissimi fioli" di perseverare nella concordia con cui sino ad allora erano vissuti "cum incredibile mia satisfactione", e affidava loro il compito di disporre della sua sepoltura, essendo la cappella di famiglia nella chiesa di S. Simeon Piccolo "si po dir ruinata".
Di questa, poi, ordinava la ricostruzione "nella forma ch'è fatta la cappella del SS. Sacramento in detta giesia".
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Venezia, Miscell. codd., I, Storia veneta 19: M. Barbaro - A.M. Tasca, Arbori de' patrizi veneti…, II, c. 513; Arch. Gradenigo rio Marin, b. 333: P. Gradenigo, Lavoro storico cronologico biografico sulla veneta famiglia Foscari, pp. 75 s.; Avogaria di Comun: G. Giomo, Indice dei matrimoni patrizi per nome di donna, s.v.Cappello Orsa; Arch. Gradenigo rio Marin, b. 373/I: Catastico Foscari, pp. 12-17, 19; b. 373/I: Catastico Foscari, ad Ind., b. 92/24; Notai di Venezia. Testamenti, b. 208/175; Segr. alle Voci, Misti, regg. 7, cc. 3v, 21r, 49r, 50r; 9, cc. 23v, 28v, 31v; Elezioni in Maggior Consiglio, regg. 1, cc. 5, 11; 2, cc. 3 s.; Elezioni in Pregadi, reg. "A", cc. 18r-19r, 56r; reg. 1, cc. 1, 3-7, 18 s., 22, 28, 30, 44, 63, 86; Consiglio dei dieci. Lettere di rettori, b. 80, n. 309; b. 19, n. 83; Ibid., Lettere di ambasciatori, b. 8, nn. 64 s.; b. 22, nn. 96-152; Senato. Terra, reg. 34, passim; Senato, Deliberazioni. Secreta, reg. 65, passim; Consiglio dei dieci. Secreta, reg. 5, cc. 24v-25r, 27rv, 30v; Dieci savi alle Decime in Rialto, Redecima del 1537, b. 100/96; Cancelleria inferiore, Doge, reg. II, c. 131rv; Venezia, Bibl. del Civico Museo Correr, Cod. Cicogna 3782: G. Priuli, Pretiosi frutti…, II, cc. 22v-23v; 3477/IV/22, 3418: Famiglie venete, s.v.; 3529: G.P. Gasperi, Catalogo della Biblioteca veneta…, II, p. 114; Mss.P.D. C 1372/2; C 1298/3; C 1337/6, cc. 19r-22r (notifica di redecima del 1514 compilata in unione al fratello Agostino), 23r-24r.
La relazione di Firenze, con cenni biografici, è in Relazioni degli ambasciatori veneti al Senato, a cura di E. Alberi, s. 2, I, Firenze 1839, pp. 7-96, corretta e ristampata a cura di A. Segarizzi, Bari 1916 (ristampa a cura di A. Ventura, Bari 1976, I, pp. LXXXVIII ss., 89-184; sul F. è fondamentale quanto scrive il Ventura nell'introduzione, pp. XXVI s., XLIII-XLVI, XLVIII-LVI, LXXV s.); la relazione di Roma è in Relazioni…, cit., s. 2, III, Firenze 1846, pp. 85-139: in particolare pp. 85-124, 137-139; G. Gullino ha rinvenuto l'originale relazione romana del F., scritta di suo pugno probabilmente nel maggio del 1526, ma non depositata nella Cancelleria e rimasta ignorata: consta di 49 fogli e si trova presso l'Arch. di Stato di Venezia, nel fondo Archivio Gradenigo rio Marin, b. 323/7. La relazione del provveditorato a Brescia è in A. Zanelli, La devozione di Brescia a Venezia…, in Arch. stor. lombardo, s. 4, XVII (1912), pp. 61-66.
Inoltre: Calendar of State papers… relating to English affairs, existing in the archives… of Venice…, a cura di R. Brown, III, London 1869, ad Ind.; IV, ibid. 1871, pp. 6, 64; M. Sanuto, Diarii, II-IV, VII, XI, XVII, XVIII, XX-LVIII, Venezia 1879-1903, ad Indices; I libri commemoriali della Repubblica di Venezia. Regesti, a cura di R. Predelli, VI, Venezia 1903, pp. 176 s., 181 s., 191, 193; J. Burchardi Liber notarum…, a cura di E. Celani, in Rer. Ital. Script., 2ª ed., XXXII, 1, vol. 1, p. 306; P. Giovio, Lettere, a cura di G.G. Ferrero, I, Roma 1956, p. 267; Nunziature di Venezia, a cura di F. Gaeta, II, Roma 1960, pp. 45, 49; V, ibid. 1967, p. 212 (vi è annunciata la morte del F.); Relazioni di ambasciatori veneti al Senato, II, Germania (1506-1554), a cura di L. Firpo, Torino 1970, pp. XIV s.; P. Paruta, Dell'historia vinetiana…, in Degl'istorici delle cose veneziane…, III, Venezia 1718, pp. 354, 356, 426, 613, 641; IV, ibid. 1718, p. 16; A. Morosini, Historia veneta…, ibid., V, ibid. 1719, pp. 7 s., 33, 153, 378, 412, 467 s., 487 s., 551-554; G. Degli Agostini, Notizie istorico-critiche intorno la vita, e le opere degli scrittori viniziani, II, Venezia 1754, p. 273; E.A. Cicogna, Delle inscrizioni veneziane, Venezia 1827-1853, II, p. 66; III, p. 512; V, p. 594; VI, pp. 280, 603, 676; Id., Di Stefano Piazzone da Asola…, Venezia 1840, pp. 7, 13 ss.; P. Molmenti, La storia di Venezia nella vita privata…, II, Bergamo 1906, p. 471; L. von Pastor, Storia dei papi…, IV, 2, Roma 1912, pp. 162 ss., 194; V, ibid. 1914, pp. 25, 181, 802; P. Donazzolo, I viaggiatori veneti minori…, Roma 1927, p. 103; C. Volpati, Paolo Giovio a Venezia, in Archivio veneto, s. 5, XV (1934), pp. 139, 154; M. Brunetti, Il capitano "Cazzadiavoli" (Giovanni Contarini, di Marcantonio), ibid., s. 5, LVI (1955), p. 25; F. Bennato, La partecipazione militare di Venezia alla Lega di Cognac, ibid., s. 5, LVIII (1956), p. 79; F. Gaeta, Un nunzio pontificio a Venezia nel Cinquecento (Girolamo Aleandro), Venezia-Roma 1960, pp. 59, 110; W.J. Bouwsma, Venezia e la difesa della libertà repubblicana…, Bologna 1977, pp. 80, 90, 156; A. Ventura, Il dominio di Venezia nel Quattrocento, in Florence and Venice: comparisons and relations…, a cura di S. Bertelli - M. Rubinstein - C.H. Smyth, I, Quattrocento, Florence 1979, pp. 168, 175 s.; U. Tucci, La psicologia del mercante veneziano nel Cinquecento, in Mercanti, navi, monete nel Cinquecento veneziano, Bologna 1981, p. 45; A. Ventura, Scrittori politici e scritture di governo, in Storia della cultura veneta, 3, Dal primo Quattrocento al concilio di Trento, III, Vicenza 1981, pp. 531, 542, 549, 555 s., 558; R. Perchioli, Dal "mito" di Venezia all'"ideologia americana"…, Venezia 1983, pp. 34, 38, 42; F. Ambrosini, Immagini dell'Impero nell'ideologia del patriziato veneziano del '500, in I ceti dirigenti in Italia in età moderna e contemporanea…, a cura di A. Tagliaferri, Udine 1984, p. 75; Id., Profilo ideologico di un patrizio veneto del '500, in Studi veneziani, n.s., VIII (1964), p. 89; M. Tafuri, "Renovatio urbis". Venezia nell'età di Andrea Gritti (1523-1538), Roma 1984, p. 16; G. Cozzi, Venezia, una Repubblica di principi?, in Studi veneziani, n.s., XI (1986), p. 148; G. Del Torre, Venezia e la Terraferma dopo la guerra di Cambrai. Fiscalità e amministrazione (1515-1530), Milano 1986, pp. 53, 65, 184 s., 222; Carte Foscari sull'Arena di Padova. La "Casa grande" e la cappella degli Scrovegni, a cura di E. Bordignon Favero, Venezia 1988, pp. 36, 39, 48, 61, 63, 66, 70, 73, 85, 88 s., 98 ss., 106; G. Gullino, I rapporti tra la Repubblica veneta e la sua nobiltà con il potere imperiale, nel corso del Cinquecento, in Andrea Palladio: nuovi contributi, a cura di A. Chastel - R. Cevese, Milano 1990, p. 24; G. Corazzol, Per l'attribuzione a Donato Giannotti della "Scrittura di N. Secretario della Repubblica di Firenze", in Studi veneti offerti a G. Cozzi, Venezia 1992, pp. 187-192 (sulla composizione della relazione di Firenze); P. Litta, Le famiglie celebri italiane, s.v., tav. II; G. Mazzatinti, Inv. dei manoscritti delle Bibl. d'Italia, IX, pp. 60, 80, 171; X, p. 51; XI, pp. 11, 26, 57, 61, 143; Diz. biogr. degli Ital., XXVIII, p. 129.