MARCO di Giovanni Battista (Marco Pino)
Nacque a Siena, dove fu battezzato il 3 febbr. 1521, figlio di Giovambattista da Costalpino (borgo del Senese da cui deriva il soprannome di Marco Pino). Nel 1537 si trovava già da qualche tempo nella bottega di Domenico Beccafumi (ove, quindi, dovette svolgersi per intero la sua formazione di pittore), se il 16 giugno di quell'anno riscosse per conto del maestro un acconto di 8 soldi da parte dell'Opera del duomo di Siena relativo all'esecuzione degli affreschi dell'abside. M. risulta ancora investito di un'analoga responsabilità il 23 ag. 1538 (14 soldi), il 12 genn. 1540 (20 soldi) e infine il 21 giugno 1542 (14 soldi), a riprova di una stretta continuità di collaborazione con quello che all'epoca era di gran lunga l'artista più prestigioso attivo nella città toscana, nonché il più originalmente partecipe delle innovazioni della maniera italiana moderna (Zezza, M. Pino…, 2003, p. 353: a questo saggio si rimanda per ogni altro riferimento ove non diversamente indicato).
È stato proposto a più riprese, con fondati argomenti stilistici ma senza il supporto di evidenze incontrovertibili, di riconoscere interventi di un certo significato di M. in varie opere eseguite da Beccafumi a Siena tra il 1536 e il 1542, a testimonianza di un rapporto fra i due artisti che negli anni sarebbe evoluto in una collaborazione sempre meno rigorosamente subordinata dell'allievo nei confronti del maestro. In particolare, si è ritenuto di poter distinguere la mano di M. nella Discesa al limbo per la chiesa di S. Francesco (circa 1536), oggi nella Pinacoteca nazionale di Siena; nella pala dell'oratorio di S. Bernardino raffigurante la Madonna con Bambino e santi (circa 1536-37); negli affreschi dell'abside del duomo (1536-38); nell'ancona con l'Incoronazione della Vergine per il monastero di Ognissanti (circa 1540), oggi nella chiesa di S. Spirito. Di certo, la lunga esperienza beccafumiana fissò nel linguaggio del giovane artista un'impronta stilistica destinata a persistere in tutta la sua produzione successiva, definendo un termine di paragone che M. non lascerà decadere nemmeno nei suoi approdi più maturi e idiomatici. Per quel che concerne l'attività indipendente del giovane M. nella sua città natale, tra le opere che gli sono state assegnate con gli argomenti più convincenti si possono considerare i tre tondi raffiguranti la Madonna col Bambino e i ss. Galgano e Paolo della Pinacoteca nazionale di Siena, la Madonna con Bambino e s. Giovannino dello Staatliches Lindenau Museum di Altemburg, la Sacra Famiglia con s. Giovannino della collezione del Monte dei paschi di Siena, nonché la Sacra Famiglia con s. Francesco del Museo di Montalcino (proveniente dalla pieve di S. Pancrazio ad Argiano). Devono, infine, essere inclusi all'interno dell'aurorale periodo senese del pittore l'affresco recentemente ritrovato in palazzo Francesconi raffigurante Tre storie del profeta Giona, databile intorno al 1540, e l'affresco col Sacrificio di Ifigenia in palazzo Mignanelli, presumibilmente eseguito subito prima che M. muovesse in direzione di Roma.
Tra il luglio 1542 e l'ottobre 1544 (allorquando, il giorno 4, versò la quota di iscrizione in qualità di pittore all'Accademia di S. Luca) M. si trasferì a Roma: a tentar fortuna, come ebbe a commentare Giulio Mancini. La più antica opera realizzata nella città capitolina fu quasi certamente la Visitazione posta nella controfacciata di S. Spirito in Sassia, eseguita con ogni probabilità nello stesso 1545 in cui Pedro Rubiales (Roviale Spagnolo) datò il dipinto raffigurante la Caduta di Saulo, che si trova al lato opposto dell'ingresso della chiesa, entro un'edicola identica a quella che ospita la tavola di Marco.
La pala presenta anche una predella con due storiette a monocromo: l'Annunciazione e la Presentazione della Vergine al tempio. Se la Visitazione testimonia brillantemente, con la sua fluidità danzante e la sua studiata monumentalità, l'attenzione somma con cui M. si rivolse immediatamente alle prove romane di Michelangelo e Raffaello (nonché, in subordine, Pietro Buonaccorsi detto Perin del Vaga e Francesco Salviati), la predella esplicita il deciso retroterra beccafumiano che accompagnava M. al suo esordio sul palcoscenico capitolino. Stando a Mancini l'opera fu così apprezzata che, dopo averla vista, "Michelangel Bonaroti gli pose amore e pigliolo in protezione".
L'anno successivo M. fu all'opera nella sala Paolina di Castel Sant'Angelo, sotto la direzione di Perin del Vaga, dipingendo ad affresco sulla volta sei Storie di Alessandro Magno, che gli meritarono l'unica citazione (ma indubbiamente tempestiva) riservatagli da Giorgio Vasari nella prima edizione delle Vite.
Perino era rientrato a Roma nel 1538 dopo un lungo soggiorno genovese, guadagnando rapidamente una posizione di leadership artistica oltreché i favori della famiglia Farnese e dello stesso papa Paolo III. Impegnato in molte delle commissioni principali realizzate nell'Urbe tra la fine del quarto decennio e la sua prematura scomparsa nel 1547, nonché responsabile di una bottega in cui transitarono i migliori giovani pittori residenti a Roma, Perin del Vaga impresse il proprio marchio stilistico di grazia, scioltezza disegnativa, facilità inventiva, brillantezza decorativa (qualità in certo modo complementari a quelle paradigmaticamente incarnate dal "divino" Michelangelo) sulla produzione pittorica dell'epoca, influenzando in termini decisivi l'evoluzione creativa di M.: nella maniera di Perino, così direttamente discendente dal modello raffaellesco, egli riconobbe infatti una polarità dialettica particolarmente propulsiva, come dimostra la Sacra Famiglia con s. Giovannino, della Collezione Chigi Saracini di Siena, databile proprio a ridosso degli affreschi di Castel Sant'Angelo e chiaramente debitrice della Sacra Famiglia di Perino conservata al Musée Condé di Chantilly.
Il primo pagamento relativo a lavori eseguiti da M. a Castel Sant'Angelo risale al 19 genn. 1546: 12 scudi versati "a maestro Perino del Vaga […] per due storie di Alisandro Magno che lui ha fatto fare da maestro Marcho senese pictore" (p. 353). Gli ulteriori pagamenti a M. si ebbero il 12 marzo e il 22 maggio dello stesso anno. In ciascuna di queste tre circostanze gli furono saldate (sempre tramite Perino) due storie già affrescate per la medesima somma di 6 scudi a storia (ibid.). Dopo quest'importante cimento, M. venne coinvolto da Daniele Ricciarelli detto Daniele da Volterra negli affreschi della cappella Della Rovere in Trinità dei Monti, verosimilmente tra la fine del 1548 (l'anno in cui la cappella fu concessa a Lucrezia Della Rovere) e il 1551; alla realizzazione dei dipinti parteciparono anche il quasi esordiente Pellegrino Tibaldi, il volterrano Giovan Paolo Rossetti e lo spagnolo Gaspar Becerra.
D'accordo con l'indicazione di Vasari (peraltro sorprendentemente avaro di informazioni sull'artista anche nell'edizione del 1568 delle Vite), che gli riferì parte delle Storie della Vergine dipinte sulla volta, spettano con ogni probabilità a M. l'Incontro di Gioacchino e Anna e l'Incoronazione della Vergine; ma è stato suggerito di riconoscere una sua preponderante autografia anche in altri affreschi della cappella (Riposo durante la fuga in Egitto e Incoronazione della Vergine: pp. 64-66, 279 s.). Degne di massima considerazione sono anche le proposte critiche volte a riconoscere interventi non trascurabili di M. in altre importanti imprese artistiche eseguite nel corso del quinto decennio sotto la direzione di Daniele da Volterra: in particolare, il fregio con Storie di Fabio Massimo nel salone di palazzo Massimo alle Colonne e, soprattutto, il fregio con Storie bacchiche in una sala d'angolo al primo piano di palazzo Farnese, che vede l'alternarsi di affreschi e stucchi a costituire un complesso decorativo tra i più raffinati realizzati a Roma intorno alla metà del secolo (pp. 60-64, 281 s.). Potrebbe spettare a M., infine, l'affresco con l'Arme di Giulio III sostenuta da due angeli, in cima alla scala d'accesso alla stanza di Cleopatra nel palazzo Vaticano, che faceva parte di una serie di decorazioni che il papa aveva commissionato a Daniele ("per mezzo di Michelagnolo Buonarroti", giusta Vasari, VII, p. 57) proprio a cavallo fra quinto e sesto decennio (pp. 282 s.).
Riguardo al decennio successivo i supporti documentari relativi a M. subiscono una drastica rarefazione. Si sa che il 20 ag. 1549 egli versò per l'ultima volta la sua quota all'Accademia di S. Luca e che nel 1552 si era già trasferito a Napoli, ivi essendosi unito in matrimonio con la napoletana Laura de Acillo. Risulta altresì che sei anni più tardi la moglie di M. intentò presso la curia arcivescovile una causa di separazione dal marito e che a quella data la coppia aveva quattro figli: Livia, Beatrice, Giovanni Battista e Giulia (p. 355).
Alla fase di esordio della sua lunga permanenza napoletana, e comunque prima del febbraio 1557 quando iniziò un'impegnativa commissione da parte dell'abbazia di Montecassino, risale la Madonna col Bambino e i ss. Giovanni e Andrea, oggi nella chiesa parrocchiale di S. Bartolomeo in Nocera Inferiore, ma realizzata per l'altare maggiore del monastero olivetano di S. Maria di Monte Albino: opera ancora immersa nella cultura figurativa di stretta attualità metabolizzata da M. negli anni romani e fedele espressione del debito contratto con Michelangelo, Perino, Salviati e Daniele da Volterra.
Dal 3 febbr. 1557 al 24 ag. 1558, M. attese a una complessa decorazione pittorica nella cripta dell'abbazia di Montecassino (tre cappelle e altri spazi, fra cui la volta dipinta a grottesche: tutti affreschi che vennero distrutti al principio del Novecento), che costituì in assoluto il cimento di maggiore entità di cui M. fu mai responsabile, nonché il primo che lo vide a capo di una propria squadra di aiuti. Coi lavori nella cripta di Montecassino si chiuse, in pratica, la fase della carriera del pittore sviluppatasi attraverso Siena e Roma, che grazie alla sua partecipazione ad alcuni fra i cantieri pittorici di maggiore rilievo e risonanza pubblica lo aveva visto affermarsi in primo luogo come specialista dell'affresco. Gli anni a seguire, infatti, ne avrebbero decretato una supremazia assoluta nel contesto napoletano, ma quasi esclusivamente come pittore di pale d'altare. Pur nella penuria di puntelli documentari che caratterizza anche il settimo decennio, come già il sesto, si può valutare quest'importante svolta nell'attività di M. attraverso un nucleo piuttosto nutrito di opere eseguite per chiese di Napoli.
Innanzitutto il Battesimo di Cristo della chiesa di S. Domenico, per il quale si può accettare una collocazione intorno al 1564 (la data indicata sull'iscrizione dedicatoria dell'altare), ancorché l'opera, nella sottigliezza dell'elaborazione anatomica, nell'eleganza delle linee serpentinate e nel gioco studiato dei contrapposti, evidenzi la persistente vividezza dei modelli tosco-romani assimilati da M. nei decenni precedenti: a dimostrazione che il suo orizzonte stilistico non aveva conosciuto modifiche sostanziali col trasferimento napoletano, al più giungendo a contemplare le suggestioni della matura attività meridionale di Polidoro da Caravaggio. Databili a loro volta attorno alla metà del decennio sono la Decollazione del Battista, firmata, oggi nel Museo nazionale di Capodimonte e forse eseguita per la chiesa di S. Agostino Maggiore, che ribadisce la medesima trama di riferimenti stilistici (con particolare riguardo a Daniele da Volterra), e l'assai deperita Madonna col Bambino in gloria con i ss. Antonio da Padova e Francesco di Paola, per l'altare della cappella Orioles in S. Giacomo degli Spagnoli.
Lo svolgimento dell'attività di M. nella seconda metà del decennio risulta di più agevole ricomposizione, potendosi avvalere di taluni decisivi cardini documentari, a cominciare dalle molteplici pale d'altare eseguite per la chiesa dei gesuiti (Gesù Vecchio).
La prima di esse fu la Trasfigurazione, compiuta entro il dicembre 1566, nella quale diveniva infine più esplicito il richiamo all'arte di Polidoro. Di poco successiva, la monumentale Circoncisione per l'altare maggiore, con le quattro storie della predella fra cui spiccano per qualità pittorica l'Adorazione dei pastori e l'Adorazione dei magi (tutto il complesso è oggi conservato nel Museo nazionale di Capodimonte). Quest'opera fondamentale (tra l'altro, la prima pala eseguita da M. per un altare maggiore), pur conclusa entro l'estate del 1568, fu messa in opera solo sul finire del 1569 (mentre M. si trovava a Roma), allorquando venne ultimata la gigantesca cornice, oggi perduta ma all'epoca ammiratissima (pp. 272-274, 355-357). Per la sua composita ancona M. ricevette un eccezionale compenso superiore ai 1000 ducati d'oro. Alla luce di un documento che attesta nel 1569 la lavorazione di una coperta per la pala (p. 357), si dovrebbe collocare verso il finire del settimo decennio anche il Battesimo di Cristo per l'altare maggiore di S. Giovanni dei Fiorentini, opera non esente da una certa macchinosità, che combina, con esiti variamente riusciti, il soggetto principale con una serie di episodi salienti della vita del Battista, ma nella quale s'impone il vasto e profondo paesaggio spiccatamente caratterizzato, frutto di un'attenta elaborazione di coevi modelli fiamminghi.
Nel pieno dell'attività e del successo, nell'agosto 1568 M. lasciò Napoli per tornare a Roma (si ha ragione di ritenere con l'intento di restarci a lungo, avendo contemporaneamente predisposto il successivo trasferimento nell'Urbe di tutta la sua famiglia). Il 31 di quel mese M., infatti, ricevette da Giovan Battista Capogalli l'incarico di decorare integralmente la cappella nella chiesa dei Ss. Apostoli di cui questi era titolare (pala d'altare, cinque riquadri ad affresco e stucchi).
La cappella fu distrutta all'inizio del XVIII secolo e in quella circostanza andò perduta anche la pala, raffigurante S. Giovanni Evangelista martirizzato nell'olio bollente. Ma l'impresa maggiore, e più celebrata, realizzata da M. in questo secondo soggiorno romano fu l'affresco della Resurrezione di Cristo nell'oratorio del Gonfalone (con le corrispondenti figure di Profeta e Sibilla nel riquadro soprastante). Pur mancando l'avallo di dati documentari certi, si registra un largo consenso su una datazione intorno agli anni 1569-70, nella fase iniziale dei lavori di arredo pittorico dell'oratorio, ed è lecito immaginare che M. ricevesse la commissione per il tramite di Capogalli, che era tra i confratelli della Compagnia del Gonfalone. Nella Resurrezione, oltre a rinsaldarsi il riferimento all'arte di Francesco Salviati, si fa strada un'attenzione nuova alle opere di Taddeo Zuccari (morto da pochissimo e le cui imprese romane erano tutte state compiute dopo il trasferimento di M. a Napoli) e al michelangiolismo revisionato che ne derivava. Risulta consequenziale stimare la trasparente parentela stilistica e compositiva della Resurrezione su tavola conservata alla Galleria Borghese di Roma come frutto di una stretta contiguità cronologica con l'affresco del Gonfalone. In entrambe le opere si evidenzia quella commistione di sinuosa fluidità lineare, ai limiti dell'estenuazione decorativa, e di dinamismo frenetico e sin quasi spiritato, che sarebbe divenuta una sigla irrinunciabile dell'estrema produzione del pittore. Fra gli ulteriori e ragguardevoli esiti pubblici del passaggio romano di M. sul finire del settimo decennio, si dovrebbero infine considerare, pur in assenza di appigli documentari dirimenti, il Compianto sul Cristo Morto per S. Maria in Aracoeli, e il Noli me tangere conservato nella chiesa dell'Immacolata Concezione dei cappuccini.
Mentre si trovava a Roma, il 30 maggio 1570, M. ricevette 100 ducati da parte dei governatori della chiesa dell'Annunziata di Aversa come anticipo per la pala dell'altare maggiore raffigurante la Deposizione dalla croce che egli avrebbe dovuto eseguire per un compenso complessivo di 400 ducati. Contestualmente il pittore veniva invitato a recarsi nella città campana, non solo al fine di avviare la commissione appena ricevuta ma anche per stimare il lavoro dell'intagliatore Sebastiano Caputo, che aveva da poco ultimato l'ancona lignea destinata a contenere il monumentale dipinto. La pala sarebbe stata portata a termine e datata l'anno successivo, e oggi si trova nel transetto destro della chiesa. Nei dodici anni che gli restavano ancora da vivere, che restarono assai intensi dal punto di vista professionale, M. non si sarebbe più spostato da Napoli.
Sempre nel 1571 eseguì due fra i capolavori del suo tardo stile: l'Assunzione della Vergine e l'Adorazione dei magi per la chiesa partenopea dei Ss. Severino e Sossio. Se la prima rielabora in senso monumentale suggestioni raffaellesche, sottomesse dal pittore alla propria idiomatica elaborazione esasperatamente manierista, la seconda presenta un'affollata composizione brillantemente virtuosistica, in cui memorie di Albrecht Dürer e Polidoro, ma anche di Raffaello, Perino e Salviati, cultura antiquariale e paesaggio alla fiamminga, intenso patetismo e sfarzo decorativo, trovano il loro punto di fusione grazie a una sintassi manierista magistralmente padroneggiata, che esemplifica quella peculiare combinazione di grazia e furia fissata icasticamente da una formula felice e fortunata di Giovan Paolo Lomazzo. Nella stessa cappella Alberini che ospita l'Adorazione dei magi M. realizzò con la larga partecipazione della bottega anche la sontuosa decorazione del soffitto, mista di stucchi, affreschi narrativi e grottesche, che rappresentò il punto di massima tangenza registrabile nelle sue realizzazioni napoletane con una formula decorativa così tipicamente romana. La stessa data 1571 si leggeva (giusta De Dominici, p. 798), sulla ben più composta, essenziale e michelangiolesca Crocifissione in S. Giacomo degli Spagnoli, a evidenziare la straordinaria rapidità di esecuzione di M. ma anche il suo sempre più sistematico ricorso agli aiuti.
Sino alla metà dell'ottavo decennio l'attività di M. fu ancora serratissima. Nel 1573 licenziò ben quattro grandi pale d'altare per importanti chiese napoletane.
Fra esse, oltre all'Incredulità di s. Tommaso per il duomo e all'Adorazione dei pastori oggi nell'antisagrestia del Gesù Vecchio, opere entrambe di nobile fattura e alto magistero formale, si contano due dei suoi capolavori: l'Annunciazione di S. Giovanni dei Fiorentini, d'impaginazione calibratissima e insuperabile raffinatezza grafica, e il S. Michele Arcangelo di S. Angelo a Nilo, ennesimo trionfo della linea serpentinata, "una delle più belle espressioni della poetica artificiosa e antinaturalistica di M. […] manifesto del suo manierismo estremo, fiammeggiante" (p. 90). Sulla stessa linea si può considerare la Conversione di s. Paolo (Palermo, Galleria regionale della Sicilia), firmata e datata 1574, invenzione stralunata e visionaria, attraversata da un impulso dinamico febbrile.
Nelle opere eseguite dopo la metà degli anni Settanta M. lasciò spesso ampio spazio all'intervento della sua bottega, di norma standardizzando gli assetti compositivi e reiterando con poche varianti un solido repertorio di rodate formule figurative. Un gruppo di pale d'altare dipinte nel suo periodo estremo, nondimeno, rivela un'indubitabile prevalente autografia e un pieno controllo artistico, presentando un'intatta energia pittorica e un estro inventivo ancora brillante.
Rientrano in tale ambito il S. Michele Arcangelo che libera le anime del purgatorio della chiesa dei Ss. Apostoli, le due Crocifissioni conservate nelle chiese di S. Maria del Popolo agli Incurabili e di Ss. Severino e Sossio (entrambe firmate e datate 1577), la Madonna con Bambino e santi che appaiono alle anime del purgatorio del 1578 (oggi nel Museo nazionale di Capodimonte, ma proveniente dalla chiesa domenicana di S. Severo) e soprattutto l'estatica Trasfigurazione, accesa di misticismo, della chiesa del Corpus Domini di Gragnano, datata 1578. L'ultimo frutto della maturità di M. dovrebbe essere l'Adorazione dei pastori ancora per la chiesa napoletana dei Ss. Severino e Sossio, che secondo l'indicazione di De Dominici recava la data 1581.
L'ultimo documento che coinvolge direttamente M. risale al 18 genn. 1583: morì a Napoli tra quella data e il 1° aprile seguente, quando un atto notarile lo dice da poco defunto (p. 368).
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