DANDOLO, Marco
Terzo dei quattro figli maschi di Andrea di Benedetto e di Orsa Giustinian di Bernardo, dottore cavaliere e procuratore, nacque a Venezia il 25 marzo 1458.
Ricche e prestigiose entrambe le famiglie: il padre apparteneva al ramo che risiedeva nello splendido palazzo sul Canal Grande, a S. Moisè, la madre era pronipote del beato Lorenzo Giustinian; il D. visse dunque la sua giovinezza in un ambiente raffinato e profondamente religioso, che ne segnò per tempo il carattere. Ebbe come precettore l'alessandrino Giorgio Merula, uno dei principali esponenti dell'umanesimo veneziano, e a soli tredici anni, per esortazione del nonno materno (secondo la testimonianza del Priuli), fu mandato allo Studio di Padova, dove si addottorò prima in filosofia e poi in diritto civile e canonico. Frequentò anche i corsi di teologia (lo spiritualismo ascetico fu e rimase una componente fondamentale della sua religiosità), ma senza conseguire la laurea. Nello stimolante ambiente padovano il D. venne a contatto con quasi tutti i più illustri rappresentanti della cultura veneta, e si legò d'amicizia con Ermolao Barbaro, Girolamo Donà e Ludovico Davanzo, col bergamasco Raffaello Regio, col vicentino Pier Nicola Dal Lino, col toscano Filippo Buonaccorsi (Callimaco Esperiente), col ferrarese Battista Guarini.
Tornato a Venezia, il D. continuò a dedicarsi agli studi (fu presentato dal padre alla Balla d'oro nel novembre 1476, ma intraprese la carriera politica soltanto nell'85), perfezionando la conoscenza del greco; la sua vasta cultura, i titoli accademici, la fortuna delle sue orazioni politiche gli procurarono fama di erudito ed elegante autore, e diedero motivo al monaco cassinese Benedetto Guidi di scrivere una Vita Marci Danduli, che peraltro non ci è pervenuta, ed al Degli Agostini di dedicargli ampio spazio tra le sue biografie degli scrittori veneziani.
Senonché proprio quest'ultimo ci confessa che del D. ha potuto rintracciare una sola opera, e precisamente la celebre e più volte stampata, nel corso del XVI secolo, orazione da lui recitata a Napoli, il 29 genn. 1507, alla presenza del re Ferdinando II il Cattolico, presso il quale era stato inviato in qualità di ambasciatore per rallegrarsi della sua venuta in Italia in seguito alla conquista del Regno: attribuisce invece al D., sulla scorta del Sansovino, un'operetta in lode della Croce e la traduzione dal greco di cinquanta salmi. Effettivamente il Sansovino non si sbagliava, perché del D. tornò ad occuparsi, all'inizio del nostro secolo, il francese Picot, per informarci che il Praeconium Crucis fu composto durante la prigionia del veneziano in Francia, protrattasi dal 1509 al 1513, per ispirazione del religiosissimo maggiordomo del re, Georges d'Auxy, cui l'opera è dedicata, e che venne pubblicato per consiglio del celebre umanista e teologo Jacques Lefèvre d'Etaples nel 1514, quando il D. da prigioniero era divenuto ambasciatore della Repubblica presso la Corona francese. Ancora, qualche anno dopo, il Medin diede notizia di aver rinvenuto nella Biblioteca Marciana di Venezia (Mss. Lat.,cl. I, 33 [= 2133]) la seconda opera in questione, intitolata Catena seu expositio Graecorum Patrum in Psalmos, interprete Marco Dandulo Patricio Veneto; non solo, in un lungo articolo lo stesso Medin pubblicò una serie di epistole e documenti riguardanti il D. e confermanti la sua dottrina ed eleganza di scrittore. Di particolare rilievo un fascicolo di lettere latine, esistenti nell'archivio privato del Medin, scritte dal D. tra il 1493 ed il 1506 a diversi umanisti italiani e stranieri: tre sono dirette a Battista Guarini, considerato dal D. un maestro di latinità; due a Girolamo Donà; due a Paolo Pisani; due ad Antonio Orsato; una a Ludovico Cendrata; una a Filippo Buonaccorsi l'Esperiente; una a Croeslao Corosvanchio (Curoszwanky), cancelliere del re di Polonia; una a Nicolò Poscaro (Bozchai), arcidiacono di Erlau e ambasciatore a Roma del re d'Ungheria Mattia Corvino, nel 1488; una a Ludovico Davanzo; la dodicesima è anepigrafa. Sono lettere che il Medin definisce "notevoli", anche perché l'erudizione del D. non sconfina mai nella retorica, ed alla base di questi scritti non troviamo un mero esercizio stilistico - secondo il diffuso costume degli umanisti -, ma questioni di natura politico-diplomatica o concrete esigenze di studio. Il prevalere - comune a tutti i Veneziani del tempo - della sfera politico-economica su quella esclusivamente culturale è stato recentemente sottolineato dal Pastore Stocchi che, a proposito del D., osservò come l'umanesimo rimanesse pur sempre una scelta da compiere solo per "quantum publicarum rerum labor concesserat": di più non sarà dato, nel patriziato lagunare, se non a prezzo di profonde lacerazioni, di scelte di campo vissute da poche emergenze individuali, ma tra le quali il D. non può essere compreso.
In effetti, dopo gli studi giovanili, gli interessi del D. vennero progressivamente assorbiti dalla vita pubblica: nell'85 sposò Lucia (non Laura,come si legge nelle genealogie del Barbaro e come ripete il Degli Agostini) Corner, figlia dell'ormai scomparso cavalier Marco e sorella quindi della regina di Cipro, Caterina, la quale gli recò una dote di ben 4.500 ducati e gli diede un figlio, che però morì ancor bambino; nello stesso anno (3 ottobre) fu eletto alla sua prima carica, quella di auditore alle Sentenze vecchie, a quei tempi indispensabile palestra per quanti aspirassero ai massimi onori. Il dolore causatogli dalla scomparsa del figlio e della moglie, susseguitesi nel giro di qualche anno, può forse spiegare la prolungata interruzione dell'attività politica seguita al primo incarico: nel '91, però, il D. si risposò con Nicolosa Loredan di Pietro di Lorenzo, da cui ebbe quattro femmine (tra le quali la famosa Zilia, o Egidia, che sposò Lorenzo Priuli e divenne dogaressa il 18 sett. 1557) ed un maschio, Matteo, che fece una brillantissima carriera e divenne cavaliere e procuratore; qualche mese dopo, il 9 febbr. 1492, il D. era eletto, con Paolo Cappello, ambasciatore a Ladislao II, re di Boemia ed assunto anche al trono d'Ungheria dopo la morte del Corvino, per congratularsi dell'avvenimento e della pace di Presburgo stipulata con l'imperatore Federico III e con Massimiliano re dei Romani.
Senonché, a causa delle agitazioni sociali che travagliavano l'Ungheria, le commissioni furono date ai due ambasciatori soltanto il 5 ottobre: il loro compito precipuo consisteva nell'esortare il re a muovere contro i Turchi ma senza offrirgli precise garanzie circa il prestito ch'egli aveva sollecitato dalla Repubblica. Gli ambasciatori erano da poco partiti quando giunse a Venezia la notizia che il fratello di Ladislao, Giannalberto, era successo al padre Casimiro IV al trono di Polonia; pertanto il 4 dic. 1492 ed il 22 genn. '93 vennero inviate ai due diplomatici ulteriori istruzioni, che prevedevano, una volta espletata la missione, di proseguire il viaggio "in Polloniam, pro congratulatione de introitu regis Alberti, dummodo hoc non sit cum displicentia regis Hungarie". Erano noti, infatti, i contrasti che avevano opposto i due fratelli in occasione della successione all'eredità paterna, ma l'accoglienza che Ladislao riservò ai Veneziani fu talmente rassicurante (il D., che recitò l'orazione ufficiale, venne creato cavaliere), ch'essi ritennero di poter proseguire per la Polonia, anche se il lungo viaggio, diffusamente narrato dal D. nelle lettere agli amici, non mancò di porre a dura prova la loro resistenza fisica.
Poco più di due anni dopo il ritorno in patria, il 23 nov. 1495, il D. fu eletto nuovamente ambasciatore, stavolta presso Ludovico il Moro, in un momento quantomai delicato: dopo Fornovo, Venezia aveva ottenuto i porti pugliesi, ma la situazione politica internazionale vedeva Francia e Impero guardare a Milano, chiave di volta di tutto l'equilibrio della penisola.
Il D., la cui nomina conferma il grado di prestigio al quale era ormai pervenuto, partì da Venezia il 19 genn. 1496 ed arrivò alla corte dello Sforza quando pareva che Carlo VIII stesse per ripassare in Italia; il Moro, allora, si rivolse al genero, l'imperatore Massimiliano, ed alla Repubblica veneta, chiedendo uomini e mezzi. Massimiliano, stretto un accordo col papa, la Spagna, l'Inghilterra, valicò le Alpi alla volta di Milano: a Malles, in Val Venosta, lo raggiunse il D., che il 20 luglio '96 inviò a Venezia il primo dispaccio firmato anche da Francesco Foscari, ambasciatore presso Cesare: l'imperatore aveva manifestato la sua ferma intenzione di muovere "adversus Gallos" ed i loro alleati, il duca di Savoia Filippo Senzaterra ed i Fiorentini. Intanto chiedeva soldi, per convincere i suoi uomini (in un dispaccio al Senato del 21 luglio, il D. ed il Foscari concludevano: "Ben dechiarimo alla Cel.V. che niuno delli principi germani, né Conseieri de quelli, senteno questa venuta in Italia, et etiam deficiunt pecunie") ed assicurarsi una rapida vittoria "a beneficio commune".
Senonché la Repubblica non era affatto disposta a consentirgli di assoldare svizzeri, anche per non irritare eccessivamente i Francesi, che non parevano intenzionati a lasciare il loro campo di Lione; pure, nonostante i pretesti e gli indugi frapposti dal D. e dal Foscari, l'imperatore proseguì nell'impresa e a Vigevano, il 19 settembre, convocò a congresso i rappresentanti della lega; proseguì poi per Genova e Pisa, ma, privo dei mezzi tante volte sollecitati, ripassò le Alpi senza aver nulla ottenuto. Fu a questo punto che Carlo VIII inviò contro Genova Gian Giacomo Trivulzio, e soltanto di fronte ad un così grave pericolo il Senato veneziano, esortato a più riprese dai dispacci del D., si decise ad inviare rinforzi al Moro. La mossa sortì il suo effetto, e nel maggio 1497 il D. poté tornare in patria a ricevere l'elogio della Signoria.
Nell'agosto fu tra i patrizi che accompagnarono da Asolo a Brescia l'ex regina Caterina Cornaro, già sua cognata, e per due anni non ricoprì alcuna carica particolare, occupandosi soprattutto dei suoi studi e limitandosi a partecipare alle riunioni del Senato o, tutt'al più, ad uffici di rappresentanza e diplomazia, quali l'accogliere gli ambasciatori stranieri o fornire la propria consulenza a proposito delle questioni concernenti l'Ungheria e la Polonia. Nell'agosto 1500 fu eletto ambasciatore in Francia, ma rifiutò; un anno più tardi, invece (11 ag. 1501), non poté sottrarsi ad analoga nomina presso Alessandro VI, ma allorché si trattò di partire, nel gennaio 1502, "quello diceva non poter andar - così il Sanuto - si non li era cressuto più di ducati 100 al mexe per spexe, atento la gran carestia era, e non parendo al Colegio di cresserli, lui refudò tal legatione". Nuovamente eletto ambasciatore in Francia (16 giugno 1502), accettò per non incorrere nella pena prevista, e nell'agosto si recò ad Asti presso Luigi XII, con il quale poi raggiunse Lione.
Qui si fermò per circa due mesi, tenendo costantemente informato il Senato sui rapporti che intercorrevano tra il sovrano e Cesare Borgia, odiatissimo dai Francesi che pur fingevano di appoggiarlo: il 30 ottobre lo stesso cardinale di Rouen gli confessò che "Valentinum habet diabolum in corpore", della qual cosa, peraltro, non v'era chi non fosse convinto. Un anno dopo, nel dicembre 1503, era il sovrano a ribadire alla regina le sue perplessità circa le manovre del Borgia nel conclave seguito alla morte di Alessandro: "Quel fio di putana non ha voluto far Roan papa".
Le ricorrenti lagnanze del re per lo scarso appoggio fornito dai Veneziani alle truppe francesi che operavano in Puglia, e l'evolversi della guerra contro gli Spagnoli nel Narbonese, occuparono poi la maggior parte dei dispacci spediti dal D. al Senato nel corso della sua legazione, che lo vide quasi sempre a Lione o a Maçon fino al rientro in patria, avvenuto il 26 maggio 1504.
Eletto savio di Terraferma il 27 dicembre di quello stesso anno e poi provveditore al Sale, il 21 maggio 1505 il D. era nominato membro del Collegio delle acque, per cui si recò in Polesine a riparare i danni causati dall'Adige, che aveva tracimato presso l'attuale Rotta Sabbadina, causando l'inondazione di migliaia di campi in una provincia che costituiva uno dei principali serbatoi alimentari della Dominante.
Nuovamente savio di Terraferma il 27 giugno 1506, il 7 ottobre veniva eletto ambasciatore straordinario a Napoli, assieme a Giorgio Pisani, per rallegrarsi con Ferdinando il Cattolico della conquista di quel Regno. Ancora una volta il servizio dello Stato richiedeva un uomo abile e colto, ed il D. lasciò la città il 27 novembre, portando con sé, in qualità di segretario, Gian Giacomo Caroldo.
A Ferdinando Venezia chiedeva aiuto per la guerra contro i Turchi, ma la missione non superò l'ambito di un mero ufficio diplomatico: l'orazione del D., recitata alla fine di gennaio del 1507, fu solenne e stilata nel pieno rispetto di tutte le norme retoriche; sebbene verbosa e soverchiamente ornata, piacque assai e, come si è detto, venne più volte stampata nel corso del secolo, quale modello di eleganza e dottrina. Il ritorno dei due ambasciatori avvenne in giugno: toccò al D. fare la relazione in Senato, e a testimonianza del pubblico aggradimento gli venne conferita la nomina a savio di Terraferma (1º luglio 1507).
Ma la permanenza tra i suoi affetti e gli interessi economici (la redecima del 1518 gli attribuisce notevoli proprietà fondiarie nel Padovano) doveva essere di breve durata: il 9 genn. 1508 il D. era eletto capitano a Brescia, un rettorato all'apparenza tranquillo, ma che invece avrebbe costituito la più difficile e tormentata prova della sua vita.
Quando infatti, dopo Agnadello, la città si diede ai Francesi, il D. si rinchiuse nel castello, rifiutando le onorevoli proposte di resa fattegli pervenire dallo stesso Luigi XII. Senonché i soldati lo tradirono: venne fatto prigioniero e condotto prima a Milano e poi in Francia, nella Piccardia. Soltanto il 14 nov. 1511 gli fu consentito di inviare notizie alla famiglia, ma nella lettera il D. aveva parole di riconoscenza verso i suoi custodi: "Me trovo sano apresso persone che certo con non minore amore et carità me tractano proprio come se fradello o fiol li fossi, in bon loco et perfecto aiere, che el tutto recognoso veramente esser processo da la bontà de Dio".
In effetti, il D. fu in Francia un rispettatissimo prigioniero, e poté scrivere e studiare; così, quando nel febbraio 1513 fu conclusa la pace e stipulata un'alleanza tra la Repubblica e la Francia, fu liberato e di lì a poco, per espresso desiderio del re, nominato ambasciatore presso la Corona francese. Da allora l'azione del D. fu volta a convincere prima Luigi e poi Francesco a passare in Italia; questo si verificò nell'estate del 1515, e fu merito del veneziano, che accompagnò il re al campo di Novara, la ricostruzione del ponte sul Lambro, che agevolò la vittoria di Marignano; tornò finalmente a Venezia "con optima ciera", e si presentò in Collegio il 5 dicembre. Quattro giorni dopo fu eletto capitano a Candia. Parrebbe incredibile come un uomo rimasto lontano dalla patria per 75 mesi si dichiarasse disposto ad allontanarsene di nuovo per un incarico che certo non si sarebbe rapidamente concluso, pure il D. accettò prontamente la nomina, a riprova di come gli orizzonti mentali di un veneziano spaziassero ancora, con pari interesse, dall'Europa al Levante.
Lasciò la sua città il 20 ott. 1516 e rimase nell'isola fino al maggio 1519, occupandosi soprattutto dell'arsenale e dei rifornimenti da allestire per i convogli che percorrevano le rotte di Beirut e di Alessandria; a partire dal luglio '17, inoltre, i dispacci del D. si intensificarono, a causa delle manovre della flotta turca e del sultano Selim, che da Aleppo o da Alessandria dirigeva le operazioni militari contro Egiziani e Siriani.
Rientrato a Venezia, il D. fu subito eletto procuratore sopra gli Atti dei sovragastaldi, e il 6 ott. 1519 entrò a far parte della zonta del Consiglio dei dieci; poté finalmente godere di un poco di tranquillità: nel marzo '21 procurò il matrimonio del figlio Matteo con una sorella di Gasparo Contarini, che gli portò in dote 6.000 ducati; era infatti tra i più ricchi patrizi delle case "vecchie", e logicamente era schierato con gli esponenti del partito conservatore, come ebbe modo di dimostrare nel corso dell'elezione del doge Antonio Grimani (6 luglio 1521). Rieletto nella zonta del Consiglio dei dieci il 1º ottobre di quello stesso anno, il 22 ag. 1522 fu nominato dei sei ambasciatori straordinari per congratularsi dell'elezione al soglio pontificio di Adriano VI, ma la missione fu portata a termine solo nella primavera dell'anno seguente, a causa della peste che serpeggiava a Roma. Partecipò in seguito all'elezione del doge Andrea Gritti, al quale era legato da lunga amicizia; il 20 luglio 1523 veniva nominato savio del Consiglio ed il 16 ottobre entrava a far parte del Consiglio dei dieci; il 26 novembre risultava nuovamente tra gli otto ambasciatori straordinari a papa Clemente, ma la legazione non ebbe luogo, a causa delle guerre che rendevano assai problematico il viaggio.
Il fitto succedersi delle cariche più prestigiose dello Stato scandisce gli ultimi anni della vita del D.: consigliere ducale per il secondo semestre 1524, membro della zonta del Consiglio dei dieci dal 9 febbr. '25 e poi dal 2 ottobre dello stesso anno, eletto senatore il 1º ott. '26 ("ma è andato a Padova - così il Sanuto - perché non se cura di esser di Collegio"), ancora nella zonta del Consiglio dei dieci il 25 ott. '27. Fu nominato ambasciatore ordinario a Roma il 14 genn. 1528, ma rifiutò; accettò invece (30 marzo 1528) la carica di savio del Consiglio e, in dicembre, fu ancora della zonta del Consiglio dei dieci, nella qual veste, nell'aprile dell'anno successivo, gli fu affidato il compito di auditore presso l'ambasciatore francese, Teodoro Trivulzio, che chiedeva la restituzione di Cervia e Ravenna per conto del papa.
Nuovamente savio del Consiglio e della zonta del Consiglio dei dieci nella seconda metà del 1529, il 28 dicembre propose alla Signoria di inviare quattro ambasciatori a Bologna, per rallegrarsi con l'imperatore della pace stabilita e per "tenir el papa benivolo". L'indomani il suo nome risultò tra gli eletti: cercò di rifiutare, accusando salute malferma e precarietà finanziaria (aveva maritato tutte le figlie, con doti cospicue), ma il doge replicò duramente "che l'è una vergogna questa", ed il D. partì, portando con sé il figlio, Matteo, il 17 genn. 1530. La missione ebbe pieno successo, come risulta dalle numerose e lunghe lettere inviate nella circostanza da Matteo Dandolo al cognato Lorenzo Priuli, e diffusamente riportate nei Diarii del Sanuto.
Il 3 marzo il D. era nuovamente in patria; consigliere ducale nel secondo semestre dell'anno, savio alle Acque dal 29 dicembre, membro della zonta del Consiglio dei dieci (20 marzo 1531), savio del Consiglio (28 sett. '31), il 28 dic. '31 era nominato correttore delle Leggi e degli Statuti. Fu l'ultimo incarico, che sostenne per quasi due anni, occupandosi della ristrutturazione dell'apparato fiscale e giudiziario dello Stato. Vecchio e malato, rifiutò ogni altra nomina, alternando la sua presenza in Senato a sempre più frequenti e lunghe villeggiature nella sua villa di Padova.
Morì a Venezia il 15 maggio 1535 e fu sepolto nella chiesa di S. Moisè; il suo ritratto al naturale, opera di Tiziano, si conservò in palazzo ducale, nella sala del Maggior Consiglio, fino all'incendio del 1577.
Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Venezia, Miscellanea Codd. I, St. veneta 19: M. Barbaro-A. M. Tasca, Arbori de' patritii…, pp. 176, 197; Ibid., Avogaria di Comun. Balla d'oro, reg. 164, c. 108r; Venezia, Bibl. del Civ. Museo Correr, Cod. Cicogna 3781: G. Priuli, Pretiosi frutti...,cc. 230r-231v. Sull'attività politica: Arch. di Stato di Venezia, Segretario alle Voci. Misti, reg. 6, c. 105; reg. 8, cc. 50v, 100v; Ibid., Segr. alle Voci. Elezioni Maggior Consiglio, reg. I, c. 1; Ibid., Segr. alle Voci. Elez. Pregadi, reg. I, c. 39v. Per l'ambasceria in Ungheria e in Polonia: Ibid., Senato. Deliber. secreta, reg. 34, cc. 110v, 133rv, 141v-142r, 143rv, 144v-145r, 147v-148r; per la missione presso Massimiliano: Venezia, Bibl. d. Civ. Mus. Correr, Cod. Cicogna 2002: Dispacci al Senato di Francesco Foscari e di altri oratori all'imp. Massimiliano nel 1496, cc. 18v-21v, 25r-26v, 27v-29r (poi pubblicati in Arch. stor. ital., VII [1844], 2, pp. 763-70, 777-86); per le ambascerie presso il re di Francia nel 1502-04 e nel 1513-15: Arch. di Stato di Venezia, Lettere di ambasciatori ai capi del Consiglio dei Dieci, b. 9, nn. 15-21, 55-155, 160-172 bis; per l'ambasceria a Napoli del 1506-07: Ibid, b. 18, nn. 14-15; sul capitanato a Candia: Ibid., b. 28s, n. 18a; sull'ambasceria a Roma del 1523, un sommario del viaggio, probabilmente del collega Pietro Pesaro, in Relazioni degli ambasc. veneti al Senato, a cura di E. Alberi, s. 2, III, Firenze 1846, pp. 79 s., 85-120. Sulla situazione economica del D.: Arch. di Stato di Venezia, Dieci savi alle decime. Redecima 1518-23. Padova e Territorio, b. 418/1294. Sul D. la principale fonte è comunque M. Sanuto, Diarii, Venezia 1879-1903, I-VIII, XII-XIII, XV-XXXVII, XXXIX-LVIII, ad Indices; cfr. inoltre: D. Malipiero, Annali veneti dal 1457 al 1500, a cura di F. Longo, in Arch. stor. ital., VII (1843-44), pt. 1, pp. 407, 436; (1844), 2, p. 967; Ilibri commemoriali della Repubblica di Venezia. Regesti, a cura di R. Predelli, VI, Venezia 1903, pp. 132, 207. Si vedano ancora: F. Sansovino, Venetia città nobilissima et singolare…, Venezia 1663, p. 592; P. Bembo, Historiae Venetae, in Degli istorici delle cose venez., II, Venezia 1718, p. 236; P. Paruta, Historia venetiana, ibid., III,Venezia 1718, p. 171; M. Armellini, Bibliotheca Benedictino-Casinensis..., I, Assisii 1731, p. 98; G. Degli Agostini, Notizie istor-crit. intorno la vita, e le opere degli scrittori viniziani…, II,Venezia 1754, pp. 281-93; E. A. Cicogna, Delle Inscrizioni Veneziane, II, Venezia 1827, pp. 229 s.; III, ibid. 1830, p. 376; VI, ibid. 1953, pp. 16, 786; F. Gabotto, Lo Stato sabaudo da Amedeo VIII ad Emanuele Filiberto, III,Torino 1895, p. 19; E. Picot, Une édition inconnue du "Praeconium Crucis" de M. D., in Le Bibliographe moderne, IV-V (1903), pp. 301-06; A. Medin, Gli scritti umanistici di M. D., in Atti del R. Istituto veneto di scienze, lettere ed arti, LXXVI (1916-17),2, pp. 335-414; P. Donazzolo, I viaggiatori veneti minori, Roma 1927, pp. 89 s., 92; P. Paschini, Tre illustri prelati del Rinascimento. Ermolao Barbaro, Adriano Castellesi, Giovanni Grimani, Romae 1957, p. 16; A. Cronia, Fasti polacchi in Italia, in Relazioni tra Padova e la Polonia. Studi in onore dell'università di Cracovia nel VI centenario della sua fondazione, Padova 1964, p. 3; M. Pastore Stocchi, Scuola e cultura umanistica fra due secoli, in Storia della cultura veneta, 3, I, Dal primo Quattrocento al concilio di Trento, Vicenza 1980, p. 121.