CORNER, Marco
Primogenito di Alvise di Marco, di un ramo a S. Samuele detto "dal zenevre", e di Cassandra Cavalli di Corrado di Nicolò, nacque a Venezia il 26 luglio 1526. Pur non appartenendo al nucleo più influente della famiglia, quello della regina di Cipro, la casa godeva di considerevoli ricchezze, che consentirono al C. di sposarsi assai giovane (1548), prima ancora di aver ottenuto incarichi politici, con Elisabetta Malipiero di Michele, e poi nel 1556 con Lucrezia Zen di Carlo: entrambi i matrimoni risultarono però sterili, e toccò all'unico fratello, Carlo, il compito di assicurare la continuità della famiglia.
Notevole, seppure non prestigiosa, la carriera politica del C., caratterizzata da diversi rettorati ricoperti nelle principali città della Terraferma, dopo aver percorso il normale tirocinio del giovane patrizio nelle magistrature giudiziarie ed amministrative: avvocato presso le Corti dal 21 ott. 1549 al 20 ott. 1552, il 21 marzo 1552 fu eletto savio agli Ordini e l'anno successivo ufficiale alla Messettaria; nel '57 fece parte della zonta dei Pregadi, nel '60 fu dei dodici Tansadori della città. Poi, il primo importante incarico: tra il '65 ed il '66 fu capitano a Vicenza, dove ebbe come collega Francesco Giustinian.
La provincia non presentava particolari problemi: attenuatisi gli umori antiveneziani della riottosa nobiltà locale, le principali occupazioni del C. furono rivolte ad un discreto controllo sull'operato del vescovo circa l'applicazione dei deliberati tridentini, alla manutenzione delle fortificazioni militari e - ma soprattutto - alla fondamentale questione della Camera fiscale. Nel 1560, infatti, i dazi della Terraferma erano stati aumentati nella misura di tre soldi per lira (circa il 15%), con l'inevitabile conseguenza di un forte incremento dei contrabbandi.
I provvedimenti attuati dal C. risultarono semplici palliativi, ma la sua prudente gestione amministrativa riuscì ugualmente a riscuotere il consenso del Senato, per cui di lì a qualche anno gli venne affidato un altro e più importante reggimento: quello di podestà e capitano a Crema, che egli ricoprì dal 16 ag. 1571 al 15 dicembre dell'anno successivo.
La città costituiva allora una piccola enclave veneziana circondata da ogni parte dai territori della Lombardia spagnola: di qui l'assidua attenzione del podestà verso l'efficienza delle strutture difensive e, più in generale, dell'apparato militare; di gran lunga meno assillanti risultarono invece le sue cure per l'amministrazione finanziaria della provincia, nei cui confronti il governo veneto usava tradizionalmente mano leggera e mitezza esemplare: anche il "sussidio estraordinario" di 100.000 ducati, votato dal Senato il 12 giugno 1572 per le emergenze della guerra contro il Turco, venne ripartito tra le città suddite in modo da non gravare troppo su quelle lombarde.
Tornato in patria, nel '73 il C. divenne senatore, ma la sua permanenza tra le lagune fu di breve durata: il 27 sett. 1576 era infatti nominato luogotenente della Patria del Friuli, e ad Udine egli sarebbe rimasto dal 24 febbr. '77 al 25 maggio del '78, a cimentarsi con i problemi di sempre, militari e finanziari, ma questa volta aggravati dall'infuriare della peste, dalla vastità del territorio, dalla miseria di quegli abitanti, taglieggiati da una feudalità ancora forte, potente e di sentimenti notoriamente filoimperiali.
Il C. cercò anzitutto di far fronte al dissesto finanziario: bisognava colpire il contrabbando, che vanificava l'odiosissimo, ma fondamentale dazio macina, con l'esportazione clandestina dei grani nei territori arciducali o nei feudi montani dei Savorgnan; ma ogni provvedimento riuscì inutile per l'esiguità dei mezzi di cui il luogotenente disponeva. Il 28 febbr. 1578 il C. ammetteva apertamente la propria impotenza in una lettera agli avogadori di Comun, che lo sollecitavano ad inviare truppe al podestà di Monfalcone per assicurarsi di alcuni ebrei: i soldati erano pochi, mal pagati, impegnati in continui logoranti servizi fuori città. Se dunque non era in grado di espletare neppure le pratiche minori, come avrebbe potuto il rappresentante veneziano fronteggiare le turbolenze e le prevaricazioni nobiliari? A questo proposito è illuminante il carteggio intercorso con il Consiglio dei dieci nell'autunno del '77: al magistrato, che gli ordinava la traduzione a Venezia dei più autorevoli esponenti delle famiglie Partistagno e Rinoldo, le quali da dodici anni travagliavano il territorio con le loro risse, il C. opponeva una serie di difficoltà e chiedeva una dilazione dei termini accordati per convincere all'obbedienza titolari di vaste giurisdizioni, che egli sapeva in grado di manovrare "molte dependentie". La cosa si ripeteva, qualche mese più tardi, con Tullio Prodolone, che nel suo castello di Osoppo si sentiva tanto sicuro da non curare il bando comminatogli dal patriarca.
Tuttavia, la condotta del C. fu giudicata positivamente dalla Signoria, che anzi, dopo il suo rientro a Venezia, nel 1580 lo chiamò a far parte dello stesso Consiglio dei dieci e l'anno seguente gli affidò l'ultimo rettorato, stavolta nella più tranquilla sede di Padova.
Qui egli accolse, in qualità di podestà, Maria d'Asburgo, figlia di Carlo V e vedova di Massimiliano, che si recava dalla Germania nel Portogallo, dove era stata nominata reggente dal fratello Filippo II; le sue principali cure furono però rivolte a sopire le tensioni suscitate nell'angusto ambiente euganeo dallo spregiudicato insegnamento del celebre professore di anatomia Fabrizio Acquapendente. Il C. si schierò risolutamente dalla sua parte, agevolandone in ogni modo la costruzione del teatro anatomico, nonostante l'opposizione dei gesuiti, che chiedevano l'abolizione di pratiche ritenute sacrileghe, e le pesanti intimidazioni poste in atto da quegli abitanti contro la popolazione studentesca. Un'eco del malcontento cittadino ci è conservata da due astiosi componimenti anonimi che stigmatizzavano l'operato del podestà e ne attaccavano duramente la condotta privata.
Al termine del mandato, il C. fu eletto consigliere ducale per il sestiere di Santa Croce (1584), e poi governatore delle Entrade. Morì a Venezia nel febbraio 1587 e fu sepolto nell'isola di S. Giorgio in Alga, dove possiamo ancor leggere la scritta funeraria posta sulla sua tomba dai nipoti ed eredi.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Venezia, M. Barbaro, Arbori de' patritii, III, p. 96; Ibid., Segr. alle voci. Elez. dei Pregadi, reg. 1, c. 31; reg. 2, cc. 56, 99; reg. s, cc. 139, 166; Venezia, Bibl. d. civ. Museo Correr, Cod. Cicogna 3781: G. Priuli, Pretiosi frutti…, I, cc. 204v-205r; Venezia, Bibl. naz. Marciana, Mss. It., cl. VII, 15 (= 8304): G. A. Cappellari Vivaro, Il Campidoglio veneto, I, c. 325v. Sul carteggio da Udine e da Padova col Consiglio dei dieci, Arch. di Stato di Venezia, Lettere di rettori ai capi delConsiglio dei dieci, cfr.rispett. v. 171, nn. 93-97; b. 84, nn. 104- 110, 114-115, 122. Le invettive contro di lui durante il rettorato a Padova, in Bibl. d. Civico Museo Correr, Mss. Correr 347, c. 68rv; G. F. Tomasini, Gymnasium Patavinum, Utini 1654, p. 424.