MARCO AURELIO
. Imperatore romano dal 7 marzo 161 al 17 marzo 180. Era nato a Roma da M. Annio Vero e da Domizia Lucilla il 26 aprile 121. La sua famiglia, illustre per onori pubblici ricoperti dal bisavolo, dall'avo e dal padre, era originaria della Spagna, nota perciò a Traiano e ad Adriano. Adriano ascrisse il fanciullo, a sei anni, all'ordine equestre e ad otto anni al collegio dei Salî. Egli si chiamava allora dal nome del padre e da quello dell'avo materno M. Annius Catilius Severus. Mortogli il padre pretore, fu preso in casa e adottato dall'avo paterno Marco Annio Vero, del quale prese allora il nome. Provvide il nonno a che il giovanetto ricevesse in casa un'accurata educazione e un'ampia istruzione: studiò lettere latine e greche, eloquenza, filosofia, scienze giuridiche e perfino pittura. Benché affezionatissimo a uno dei suoi maestri di retorica, Marco Cornelio Frontone, abbandonò la retorica per darsi tutto agli studi di filosofia. E delle dottrine stoiche in particolare fu preso così da volerne praticare, pur nella delicatezza della sua costituzione, tutte le austerità.
Non risulta che abbia esercitato comandi militari o altre cariche pubbliche gravi di responsabilità. Talché la sua corrispondenza con Frontone svoltasi tra il 143 e il 161 è quasi sconcertante, non parlandosi mai in queste lettere tra un futuro imperatore e un uomo consolare ed ex-governatore di provincie di nessuna grave questione politica, di nessun interesse dell'impero, di nessun avvenimento storico, ma solo di studi, di ricercatezze stilistiche, di malattie dei due corrispondenti e delle loro famiglie.
Adriano in ogni modo, che lo chiamava Annius Verissimus, aveva grande stima delle qualità morali di lui, e gli aveva destinato in moglie la figlia di Lucio Ceionio Commodo, designato quale erede al trono. Morto il 1° gennaio 138 questo presunto erede, Adriano adottò Tito Aurelio Fulvio Boionio Arrio Antonino (Antonino Pio) con la condizione che questi avrebbe a sua volta adottato Annio Vero e il figlio di Ceionio Commodo: L. Elio Aurelio Commodo (Lucio Vero). Antonino Pio adempì subito, appena asceso al trono, le volontà di Adriano e Annio Vero, adottato, prese finalmente il nome, col quale è passato alla storia, di Marcus Aurelius Antoninus. Poco dopo, Antonino Pio gli conferì il titolo di Caesar che equivaleva a una designazione al trono, lo nominò console, e gli diede in sposa la propria figlia Annia Galeria Faustina. Vicino all'imperatore, unito a lui dai vincoli più stretti di parentela e dalla più sincera e sentita devozione, è da credere che nei ventitré anni dell'impero di Antonino abbia potuto prendere quell'esperienza di governo, della quale invero seppe poi dare non dubbie prove, e che pareva gli dovesse far difetto e per il mancato esercizio di uffici pubblici e per le tendenze essenzialmente speculative del suo spirito.
Il lungo imperio di Antonino Pio aveva segnato uno dei periodi più prosperi e più beati della storia di Roma, e il felice imperatore aveva potuto a un tempo reggere con dignità e con fermezza lo stato, tutelarne con successo la sicurezza dei confini, la tranquillità interna, l'altissimo prestigio di fronte agli stranieri, senza venir mai meno a quella sovrana benignità, a quella suavitas morum che gli procurò l'affetto e l'ammirazione universale. M. A. non ebbe altrettanto lieto e facile compito; anzi pochi periodi furono più del suo ripieni di ogni sorta di calamità, sì che, nonostante tutta la saggezza e la tenacia dei suoi sforzi, proprio con lui può dirsi cominci il declinare dell'impero; che venne poi in sommo grado ad aggravarsi durante i dodici anni di governo del successore Commodo.
Antonino Pio, colpito da grave malattia nel marzo 161, designò come suo successore M. A. e fece trasportare nelle stanze di lui la statua della Vittoria, segno materiale del trasferimento della potestà imperiale. Dell'altro figlio adottivo, L. Elio Aurelio Commodo, non fece parola, e perché più giovane, e forse perché aveva già dato segni poco promettenti per leggerezza di carattere e disordinato amore dei piaceri. M. A. volle ovviare a questa esclusione, e conferì al fratello, che prese allora il nome di L. Aurelius Verus, il titolo di Augusto, rendendolo in tutto uguale a sé, e portando per la prima volta sul trono due imperatori invece di uno solo. Il secondo imperatore non conferì molto alla salvezza dell'impero, e talvolta non mancò di dar dispiaceri al collega e di recar diminuzione all'alto ufficio per la poca serietà della sua condotta, ma fu deferente al fratello, e si tenne contento di recitare la seconda parte.
Spirito conservatore, M. A. si propose d'agire sempre per il maggior bene dei proprî sudditi e col massimo rispetto per le antiche istituzioni. Ebbe perciò singolare deferenza per il senato, procurando di accrescerne l'autorità e il prestigio, e per lo meno, se non era possibile chiamare a una più diretta e attiva partecipazione al governo l'intera assemblea, deferendo importanti uffici a singoli senatori, e usando loro ogni maggior riguardo. La stessa bontà, la stessa comprensione delle deficienze e delle miserie altrui, la stessa diligenza affettuosa e costante nel procurare il bene degli uomini egli dimostrò verso l'esercito e verso il popolo.
Cominciò presto la serie delle calamità. Rovinose inondazioni in Italia con conseguenti difficoltà di approvigionamenti, terremoti in Asia Minore con la distruzione di Cizico, irruzioni di Catti entro i confini della Germania romana e della Rezia, torbidi e guerriglie in Britannia e velleità dei legionarî di presidio in quella provincia di nominare imperatore il loro valoroso comandante M. Stazio Prisco, sono gli avvenimentì a noi cogniti del primo anno di regno. E ben presto vennero anche più gravi preoccupazioni. Le due questioni più gravemente minacciose per la sicurezza dell'Impero, quella del Danubio e quella del confine dei Parti, erano state affrontate da Traiano con vigorose offensive che avevano portato da un lato alla conquista e alla salda organizzazione della provincia di Dacia, dall'altro ad avanzate brillanti e rapide oltre l'Eufrate e anche a una creazione di tre nuove provincie: Armenia, Assiria e Mesopotamia. L'impresa però non solo non era finita, quando la morte colpì Traiano a Selinunte di Cilicia, ma anzi seriamente compromessa per una ripresa dei Parti e per una violenta sollevazione di Giudei alle spalle dell'esercito romano combattente. Adriano rinunciò senz'altro alle tre nuove provincie traianee, e tornò alla politica difensiva sulla riva sinistra dell'Eufrate. Adriano e Antonino Pio riuscirono ad evitare incidenti e rotture su ambedue le frontiere, ma la tranquillità aveva durato già troppo, perché non dovesse turbarsi, ed era troppo facile per mentalità barbariche attribuire l'inazione romana a debolezza e impotenza. Il primo cozzo si ebbe in Levante. Antonino Pio era riuscito a conservare il regno d'Armenia sotto l'influenza romana, dando agli Armeni un re da lui scelto, e obbligando alla rinuncia il candidato sostenuto dai Parti. Alla morte di Antonino i Parti credettero giunto il momento di reagire. Il loro candidato Pacoro sostenuto da truppe partiche cacciò il sovrano amico dei Romani, e s'impadronì del trono armeno.
Il governatore della provincia di Cappadocia, M. Sedazio Severiano, accorso con una legione, fu sconfitto e ucciso a Elegeia, e il panico che si diffuse in seguito a questo disastro fu tale, che il governatore di Siria si ritirò con le sue truppe, lasciando aperta la sua provincia all'invasione partica. Alla situazione divenuta gravissima, M. A. non mancò di reagire con somma energia. Fece affluire rinforzi in Siria guidati da esperti generali, e affidò il supremo comando al suo collega Lucio Vero, che, per quanto privo di speciali doti militari, col prestigio della dignità imperiale poteva scuotere e impressionare il nemico e coordinare le azioni dei comandanti dei vari corpi di operazione. Marco Stazio Prisco, già legato di Britannia, chiamato a sostituire l'ucciso Severiano nel governo della Cappadocia, avanzò in Armenia, cacciò il re imposto dai Parti, ricondusse sul trono il re devoto ai Romani e lasciò guarnigioni nelle città forti del paese. Gl'invasori della provincia di Siria furono ricacciati oltre l'Eufrate da Publio Marzio Vero e da Avidio Cassio, e sotto il comando di quest'ultimo, eccellente capitano, fu iniziata una marcia entro il territorio nemico. L'esercito romano riportò grandi successi, espugnando le fortezze di Edessa, di Nisibi e raggiungendo con lunghe e aspre marce e dando alle fiamme e al saccheggio le due capitali del regno dei Parti, Seleucia e Ctesifonte. Ma alla definizione del grave conflitto orientale, che sarebbe stata possibile solo con l'eliminazione totale della monarchia dei Parti, ancora una volta non si riusciva a venire. Come già con Crasso, con Domizio Corbulone, con Traiano, come in seguito con Settimio Severo, con Giuliano, alle più ampie vittorie romane l'Oriente reagiva mediante le sue difese naturali: le immense zone deserte, il grave clima, la sete, le malattie. Questa volta fu la peste che impedì il conseguimento di più decisivi e più stabili successi, e che obbligò il vittorioso esercito a ripiegare, seminando di morti la via e riportando seco a fare strage in provincia la terribile malattia. Non ogni obiettivo però fu frustrato; l'Armenia rimase nelle mani di un principe devoto a Roma; la parte più alta del bacino dell'Eufrate, la Osroene, fu annessa alla provincia di Cappadocia, e Carrhae divenne colonia romana. Per tal modo Roma costituiva una testa di ponte sulla riva sinistra dell'Eufrate, appoggiandosi all'Armenia paese amico e alla Cappadocia provincia. L'organizzazione dei nuovi territori e la definitiva pacificazione dell'Oriente richiedeva l'opera di un condottiero esperto, e il grave incarico fu affidato con poteri straordinarî ad Avidio Cassio, che aveva dato così buona prova di sé restituendo bella efficacia militare alle indisciplinate e infiacchite legioni d'Oriente. I due imperatori trionfarono a Roma, e assunsero i cognomi di Armeniacus Maximus, Parthicus Maximus, Medicus Maximus, che M. A. volle poi lasciare alla morte di Lucio Vero.
Mentre le gravi questioni di Oriente si avviavano a una soddisfacente sistemazione, sorgevano però già e con eccezionale gravità pericoli sulla frontiera danubiana. La conquista e la sistemazione della Dacia avevano dato a quella frontiera un periodo di notevole tranquillità, continuatosi durante gl'imperi di Adriano e di Antonino Pio. Ma ora il movimento di popolazioni barbare e il tentativo d'invadere i territorî romani si manifestarono con straordinaria intensità. I Goti, popolazione forte e numerosa che abitava presso il Baltico, iniziarono una marcia verso il sud, cacciando innanzi a sé tutte le altre popolazioni germaniche e sarmatiche che vennero a urtare le frontiere romane. Non mai forse sinora si era manifestato in così vasta estensione un movimento di trasmigrazione, e la fama della vigoria fisica, della violenza, della ferocia degli invasori, la relativa prossimità del teatro di guerra all'Italia e a Roma causarono le più vive preoccupazioni nel mondo romano. Le truppe di copertura del limes, prr quanto assottigliate dai complementi che avevano dovuto inviare per la guerra d'Oriente, pure riuscirono a contenere per qualche tempo le ondate di assalto, finché nel 166 torme innumerevoli di barbari, operando simultaneamente su tutta la linea del Danubio, riuscivano a sfondare in più punti le difese romane e, poiché dietro quelle linee l'impero non aveva eserciti, a irrompere come un torrente distruggitore nelle provincie della riva destra del Danubio: in Rezia, nel Norieo, in Pannonia, in Mesia. Della coalizione facevano parte Iazigi, Ermunduri, Bastarni, Rossolani, Alani, Costoboci, ma soprattutto si trovavano impegnate due popolazioni che avevano raggiunto una certa maggiore coesione politica: i Quadi e i Marcomanni. Questi valicarono persino le Alpi, posero l'assedio ad Aquileia, distrussero Opitergium, e sconfissero le truppe della guarnigione romana recatesi a incontrarli, uccidendo anche il loro generale, il prefetto del pretorio Furio Vittorino. E altre schiere di barbari arrivavano sino all'Acaia e all'Asia Minore, mentre la peste non cessava d'infuriare fra le truppe romane che tornavano dall'Oriente.
A tale catena di sciagure, che avrebbe forse abbattuto e scoraggiato uomini di guerra audaci e sperimentati, M. A., lontano per temperamento e per educazione da cose di guerra, seppe opporre la serenità incrollabile delle sue convinzioni filosofiche, la saldezza eroica del suo sentimento del dovere, l'altezza rara del suo carattere. Le notizie della Historia Augusta e del sunteggiatore di Cassio Dione ci lasciano appena indovinare la prodigiosa mole di provvedimenti che l'imperatore dovette prendere. Dalle solenni e inusitate cerimonie religiose per risollevare la fede e lo spirito dei popoli alla ricerca degl'ingenti mezzi finanziarî necessarî a tante sciagure, ricerca che arrivò sino a vendere all'asta preziose suppellettili e tesori artistici dei palazzi imperiali, dalle straordinarie misure prese per combattere l'epidemia, affidate in special modo alla dottrina di Galeno, alla costituzione di nuove legioni e di nuovi corpi ausiliarî, tra i quali ascrisse persino gladiatori e schiavi, nulla fu trascurato. E infine, scelti valorosi generali agli eserciti, i due imperatori stessi si recarono alla fronte. La sola notizia dell'avvicinarsi dei rinforzi condotti dagl'imperatori liberò Aquileia dall'assedio, e consigliò gl'invasori a ripassare le Alpi e a fare atti di sottomissione. Lucio Vero insisteva, perché, liberata ormai l'Italia settentrionale, s'intavolassero trattative di pace coi barbari. E nell'inverno del 169 egli aveva già preso la via del ritorno, quando, colpito da apoplessia in viaggio, dopo tre giorni morì ad Altino. La guerra riprese nell'autunno del 169, essendo stato M. A. sempre persuaso che le richieste di pace o erano espedienti dilatorî dei nemici, o, se presentate in buona fede, non avrebbero vincolato che per poco le mutevoli nature dei barbari, e non avrebbero tolto loro consapevolezza d'avere potuto impunemente violare le frontiere dell'impero.
Le operazioni belliche che si svolsero specialmente contro i Quadi e i Marcomanni durarono oltre cinque anni, e furono oltremodo dure e pericolose per le diffìcoltà del paese boscoso e paludoso in cui si svolsero, per gli aspri disagi del clima, per la tenace difesa del nemico. E invero l'esercito romano ebbe a subire anche gravi perdite; M. Claudio Frontone, governatore delia Dacia, e M. Macrinio Vindice, prefetto del pretorio, furono uccisi sul campo in due grosse battaglie. L'imperatore, che aveva posto il suo campo a Carnuntum, diede prova, nonostante la delicata salute, di saper resistere alle fatiche, ai disagi di una così lunga guerra. Della quale purtroppo pochissimo narrano le fonti scritte, e nel loro silenzio è insufficiente documento la colonna istoriata del Campo Marzio. I Marcomanni chiesero la pace nel 172, i Quadi nel 174, gli Iazigi solo nel 175. L'imperatore assunse il titolo di Germanicus Maximus. In conformità delle condizioni di pace i barbari si ritiravano per una fascia di alquanti chilometri dalla sponda sinistra del Danubio, consegnavano le armi e i prigionieri, riconoscevano un protettorato romano, e ammettevano guarnigioni romane a nord del grande fiume. Ad alcune migliaia di barbari fu concesso di stabilirsi entro i confini dell'impero, nelle provincie confinanti e persino nell'Italia settentrionale, con l'obbligo di fornire milizie ausiliarie. L'esperimento non ebbe buon risultato: i Marcomanni stanziati in Italia si manifestarono turbolenti e tentarono persino un colpo di mano su Ravenna.
Desiderio dell'imperatore sarebbe stato di raggiungere risultati del tutto definitivi con la costituzione di due nuove provincie che affiancassero la Dacia e si appoggiassero alla frontiera montuosa dei Carpazî, ma ad una sollecita conclusione delle operazioni militari dovettero indurlo cattive notizie che venivano dal Levante. Avidio Cassio, cui erano stati affidati straordinarî poteri per la pacificazione delle provincie orientali, si era proclamato imperatore, la Siria, paese natale dell'usurpatore, l'Egitto, gran parte dell'Asia Minore si dichiararono per lui; il pericolo pertanto poteva divenire molto grave. M. A. dovette abbandonare la frontiera danubiana e correre in Oriente. Già prima che egli arrivasse, Avidio Cassio era stato ucciso da un suo centurione dopo un regno di poco più che tre mesi; ma l'imperatore dovette trattenersi in Oriente, ricondurre l'ordine e la tranquillità nelle provincie perturbate e negli eserciti spergiuri, il che egli fece con mirabile indulgenza, rilasciando anche ai discendenti di Avidio Cassio i beni che il senato aveva loro confiscato. Nel viaggio di ritorno l'imperatrice Faustina che aveva accompagnato il marito, moriva in un villaggio d'Asia Minore.
Intanto in altre provincie dell'impero non mancavano tumulti e invasioni. I Catti forzarono la frontiera del Reno; i Mauri invasero la provincia Tingitaria e arrivarono saccheggiando sino in Spagna; in Britannia si ebbero insurrezioni e duri combattimenti con le tribù sottomesse. I governatori riuscirono a ristabilire l'ordine, ma la sensazione della pressione enorme, che esercitava il mondo esterno, doveva profondamente preoccupare chi era a capo dell'impero.
Anche nelle cure dell'amministrazione e della politica interna la saggezza paziente dell'imperatore filosofo non si smentl. Nel desiderio di rafforzare la compagine interna dello stato usò la più grande deferenza verso il senato, e ne desiderò un'effettiva e costante collaborazione specialmente nei problemi politici. Seguì invece la via già segnata da Adriano in quel che riguardava l'organizzazione amministrativa, che procurò di rendere ben definita, con chiare attribuzioni e saldo ordinamento gerarchico. E come forse i privilegi concessi all'italia di fronte alle provincie dell'impero finivano per renderne meno agile e meno idoneo l'ordinamento amministrativo e giudiziario e soprattutto meno tranquillo lo stato finanziario delle città, M. A., riprendendo un'innovazione adrianea, abrogata poi da Antonino Pio, suddivise l'Italia in quattro grandi distretti, preponendo agli affari amministrativi e giudiziarî di ciascuno un magistrato tolto dal rango dei praetorii col titolo di iuridicus. Molto difficile si presentò a M. A. la situazione finanziaria, aggravata da tante guerre e calamità. Nella rigida concezione dei suoi doveri imperiali non volle lesinare sulle spese che reputava utili al bene pubblico o solo confacenti al decoro imperiale. Non si tralasciarono né lavori pubblici, né distribuzioni di frumento, né spettacoli: le istituzioni benefiche per l'adolescenza povera furono aumentate con la creazione delle puellae Faustinianae, così dette in onore della moglie dell'imperatore (v. faustina); alle pubbliche calamità tennero dietro remissioni di tributi. Una più oculata amministrazione, la sostituzione della percezione diretta di alcune tasse all'appalto, la semplicità della corte imperiale, la vendita delle cose preziose della corona permisero al tesoro pubblico di tenersi in piedi.
Copiosa e ispirata ai più elevati sentimenti di umanità fu l'opera legislativa di M. A. Mirò a reprimere ogni abuso di autorità a danno di cittadini e di provinciali, si occupò efficacemente della tutela dei minori, destinando un pretore agli speciali affari della tutela, combatté i delatori, punendo severamente le false denunce, stabilì norme di benevola larghezza verso gli schiavi, istituì un servizio completo di anagrafe per maggiore tutela dei diritti dei liberi, temperò alcune asprezze delle antiche leggi repubblicane rispetto alle eredità, concedendo ad esempio che il figlio potesse ereditare dalla madre morta senza testamento, e non i parenti della donna, ecc. E ammirevolmente compì il suo ufficio di giudice, sedendo alle volte intere notti prima di rendere la sentenza, esigendo il più grande scrupolo e la più attiva solerzia dagli altri magistrati giudicanti e sempre inclinando a benevola pietà piuttosto che a rigida applicazione della legge. Ma le leggi applicò, e quando credette di dovere colpire, colpì. Così avvenne rispetto ad alcuni procedimenti contro i cristiani. Imperatore, conservatore della prisca disciplina, M. A. non poteva considerare buoni cittadini coloro che rifiutavano il loro ossequio ai culti ufficiali dello stato, che si tenevano volentieri in disparte dalla vita pubblica, che proclamavano dottrine nuove ritenute pericolose, che al vago teismo degli stoici e perciò di M. A. opponevano la fede ben determinata ed esclusiva in un solo Dio. Nessuna filosofia antica forse era dal cristianesimo più lontana dello stoicismo. Né in un unico accenno che nei Ricordi M.A. fa ai cristiani egli dimostra d'avere compreso il valore morale della loro dottrina. La loro fermezza dinnanzi alla morte è per lui folle ostinazione o mania di teatralità (XI, 3). Conseguentemente, per quanto non pochi scrittori cristiani. dimostrino per M. A. grande rispetto e non vogliano includerlo tra i persecutori, pure non mancarono sotto l'impero di lui esecuzioni anche clamorose, sia pure suscitate da odio popolare e da imposizioni di piazza come quelle delle chiese di Lugdunum e di Vienna in Gallia, o provocate da torbidi e da violenze scoppiate in regioni d'Asia Minore in seguito alla propaganda montanista. E pure non volendo imputare al saggio imperatore alcuni eccessi di repressione, il pensiero di lui nella questione fu sostanzialmente quello di Traiano: i cristiani non si debbono ricercare, ma, se denunciati e invitati a sacrificare agli dei persistano nella loro fede, debbono essere puniti.
Tornato dalle provincie orientali senza la moglie Faustina, alla quale egli si dimostrò sempre sinceramente affezionato, nonostante i malevoli e salaci pettegolezzi di corte, il vecchio imperatore riprese la via della frontiera danubiana. Di nuovo infatti Marcomanni e Quadi erano insorti e avevano scacciato o massacrato le guarnigioni romane. Riarse la guerra, della quale sappiamo anche meno che delle precedenti, mancandoci anche il sussidio figurato della colonna. Si sa di difficoltà incontrate da due generali fratelli, Sesto Quintilio Condiano e Sesto Quintilio Massimo, si sa di una vittoria riportata da un altro generale, Tarrutenio Paterno. Ma la peste riprese a fare strage nell'esercito romano, e l'imperatore stesso, forse colpito dal male, morì nel suo campo di Vindobona il 17 marzo del 180. Designò come suo successore e raccomandò agli amici il figlio Commodo, pur sapendo i pessimi istinti di lui; strano procedimento, che sembrerebbe contraddire alla severa concezione dei suoi doveri, se forse non fu dettato dal timore di aver a provocare una guerra civile, qualora avesse privato il figlio del diritto al trono.
Il pensiero filosofico. - Com'è noto, la conoscenza dell'orientamento speculativo che fu proprio dell'imperatore deriva solo dalla raccolta delle riflessioni o Colloquî con sé stesso (Τὰ εἰς ἑαυτον, divisi poi in 12 libri), che egli venne man mano annotando in una specie di diario filosofico, e che nella tradizione italiana sono noti col titolo non troppo esatto di Ricordi (per il testo greco, v. le ediz. di J. H. Leopold, Oxford 1908, e di H. Schenkl, Lipsia 1913, e quella, con versione francese, di A.-I. Trannoy, Parigi 1925; versioni italiane: L. Ornato, Torino 1853, integrata nella ristampa fattane da G. Picchioni, Milano 1867; U. Moricca, Torino 1923; id., ivi 1924). Opera, quindi, non sistematica, e diretta non tanto a collaborare, col lento lavoro della riflessione, alla costruzione organica di un credo filosofico, quanto a rispondere, caso per caso, alle angosce del dubbio e del sentimento, in nome di una generale concezione speculativa.
Questa concezione è quella del tardo stoicismo, principalmente rappresentato, oltre che dallo stesso M. A., da Seneca e da Epitteto. E da quest'ultimo, che per rigore speculativo è dei tre il più notevole, dipende più direttamente M. A.: come risulta non solo dalla costituzione intrinseca della sua filosofia, ma anche dalla specifica attestazione con cui egli (nel primo libro del suo diario, dedicato alla candida e umile registrazione di tutti i suoi debiti intellettuali) rende grazie a Giunio Rustico, per avergli fatto conoscere l'opera di Epitteto. L'imperatore romano è così, quanto a concezione del mondo, scolaro di un liberto di Frigia, e guarda alla libertà spirituale con la stessa adorazione contemplativa che le rivolge quello schiavo emancipato. Nella sua filosofia rivive il grande dissidio tra originario motivo cinico e posteriore motivo stoico, che caratterizza la situazione dell'ultimo stoicismo nella sua insofferenza per le sintesi eclettiche della media stoa e nel suo intento di restaurazione della più antica fede, e che particolarmente costituisce il fascino e il dramma del pensiero di Epitteto. Ideale ultimo tanto del cinismo quanto dello stoicismo è quello dell'"adiaforia", o indifferenza, che il saggio oppone a qualunque cosa gli si presenti dall'esterno come degna di desiderio o di repulsione, e quindi come atta a farlo uscire, decidendolo all'interessamento e all'azione, da quell'immobile stato di sufficienza a sé stesso" (αὐτάρκεια) in cui consiste la divina perfezione e beatitudine. Ma il cinismo raggiunge questa adiaforia mediante la sua rigorosa svalutazione di tutto il mondo oggettivo, considerato come inessenziale e indifferente al soggetto, che non ha perciò motivo di volere ed è libero di una libertà che non si traduce in azione. Lo stoicismo, invece, presuppone l'ordinamento affatto razionale e provvidenziale del mondo, e la sua adiaforia discende dalla persuasione, esattamente antitetica a quella cinica, che tutto nel mondo va bene e che quindi non si deve (né sarebbe del resto possibile) intervenire comunque nel corso divinamente predestinato delle cose. L'uno è indifferente perché svaluta egualmente tutto, l'altro perché valuta egualmente tutto.
L'intuizione del mondo propria di M. A. è tutta permeata tanto di quel comune ideale dell'adiaforia, quanto delle antinomie intrinseche alla fondazione cinico-stoica di quell'ideale. Temperamento meno energico e sistematico di quello di Epitteto, egli lascia intravvedere assai più palesemente, nei suoi soliloquî, il contrasto dei motivi, e la sua riflessione ne assume non di rado un tono di scetticismo e pessimismo. Tipico a questo proposito è il modo (che costituisce insieme il più notevole dei non molti tratti originali del suo stoicismo), in cui egli riprende la concezione eraclitea del perpetuo flusso delle cose, sentendovi in primo luogo la morte e l'annientamento di tutto. Quell'idea di Eraclito era stata bensì a fondamento anche dello stoicismo classico, ma questo l'aveva più esattamente interpretata come coincidente col logos, divina ragione provvidente alle sorti del mondo: M. A. vi scorge invece il simbolo dell'inevitabile dissoluzione di ogni realtà. Ciò corrisponde, del resto, alla viva angoscia che l'assale di fronte al problema della morte, e che lo ravvicina sentimentalmente al platonismo, neppure del tutto estraneo anche ad alcune sue deviazioni dalla classiea psicologia stoica, come quella ond'egli distingue nettamente il νοῦς, l'"intelletto" dal complesso psicofisico della ψυχή e del σῶμα, dell'anima e del corpo. Ma se tale separazione è inizialmente dettata dal dualismo platonico (quale interveniva nello stoicismo di Posidonio), la sua forma concreta è poi piuttosto aristotelica, e non lascia quindi adito all'idea dell'individuale immortalità dell'anima. Di qui l'incertezza di M. A. di fronte al problema della sopravvivenza, affermata da Seneca, ma in realtà trascurata o limitata dallo stoicismo classico, e la sua intima tendenza a rifugiarsi piuttosto nella meno luminosa ma anche meno incerta idea dell'insensibilità, con cui la morte affranca da ogni dolore. Idea che, originariamente socratica, era stata poi pienamente valutata e messa in luce dall'epicureismo: anche in M. A. si può quindi constatare, come già in Seneca, la singolare coincidenza onde alcuni motivi pessimistici del più tardo ascetismo stoico vengono a incontrarsi con motivi analoghi di quello epicureo.
Iconografia. - Della figura fisica dell'imperatore abbiamo abbondante e sicura testimonianza in numerosi e buoni ritratti (statue, busti, rilievi, monete). Di grandi monumenti che ne celebrano i fatti ricordiamo, oltre la colonna,. undici grandi rilievi rettangolari pertinenti a un arco trionfale (otto riadoperati a decorare l'arco di Costantino, tre nel Palazzo dei Conservatori), un monumento a Efeso, i cui grandi rilievi decorativi sono ora a Vienna, e l'arco di Tripoli tuttora in piedi, per quanto in parte spoglio delle sue decorazioni.
Fonti: Oltre i Ricordi, si vedano: Cornelio Frontone, Epistolae ad M. A. imp. et invicem; Historia Augusta, Vitae Marci, Luci Veri, Avidi Cassi; Cassio Dione, LXXI (il solo riassunto di Xifilino); C. F. Hänel, Corpus legum ab imperat. Rom. ante Justinianum latarum, Lipsia 1857-60.
Bibl.: G. Zeller, M. A. A., in Vorträge und Abhandlungen, Lipsia 1865, pp. 82-107; H. Schiller, Geschichte der röm. Kaiserzeit, I, ii, Gotha 1883, pp. 635-660; E. Renan, M. A. et la fin du monde antique, 2ª ed., Parigi 1882; A. Calderini, E. Petersen, A. v. Domaszewski, Die Marcus-Säule, Berlino 1896; G. G. Fusci, La filosofia di Antonino in rapp. con la fil. di Seneca, Musonio ed Epitteto, Modica 1904; F. W. Bussell, M.A. and the later Stoics, Edimburgo 1910; M. Eberlein, Kaiser M. A. und die Christen, Breslavia 1914; H. Sedgwck, M. Aurelius. A biography, Oxford 1921; P. P. Matheson, Marcus Aurelius and its task as emperor, Cambridge 1922; U. v. Wilamowitz-Moellendorf, Kaiser Marcus, Berlino 1931; L. Homo, Hist. rom. Le Haut Empire, Parigi 1932, pp. 554-588.