SAFFI, Marco Aurelio
– Nacque a Forlì il 13 ottobre 1819, primogenito del conte Girolamo (1795-1841) e di Maria Romagnoli (1796-1855), appartenenti al ceto possidente locale.
La coppia ebbe altri quattro figli. L’ambiente familiare in cui crebbe il giovane Marco Aurelio Saffi era permeato dalla cultura napoleonica: Antonio (1767-1808), padre di Maria Romagnoli, aveva partecipato ai Comizi di Lione. Il figlio di lui, Giovanni (1797-1861), detto il Romagnolino, laureato in legge, aveva preso parte all’associazionismo a sfondo liberale e carbonaro forlivese, stringendo amicizia con il quasi coetaneo Piero Maroncelli, per poi riparare in Toscana e in Francia fino al 1830. Sarebbe stato il primo sindaco della città dopo il plebiscito d’annessione al Piemonte (1860). Un altro fratello di Maria, Eugenio (1807-1883), partecipò alla rivoluzione del 1831 per poi esulare e legarsi all’attività cospirativa della Giovine Italia.
Anche il nonno paterno di Aurelio, Tommaso Felice (1735-1803), aveva fatto parte delle prime municipalità d’età rivoluzionaria e i suoi figli erano stati educati al classicismo e ai costumi tipici delle élites di sentimenti riformatori. Il primogenito Pietro Francesco (1790-1822) aveva ospitato, presso la villa suburbana di San Varano, il 20 luglio 1817, la costituzione della vendita carbonara dell’Amaranto; il fratello Girolamo, padre di Aurelio, versato nelle discipline scientifiche, avrebbe voluto intraprendere il mestiere delle armi, se la caduta dell’impero non glielo avesse impedito, inducendolo a occuparsi dell’azienda agraria e a insegnare fisica al ginnasio forlivese. La rivoluzione del 1831 lo sospinse di nuovo verso la politica: appartenente all’ala più intransigente, quella della Vanguardia del generale Giuseppe Sercognani, per lui si dischiusero, per breve tempo, le porte dell’esilio, da Livorno a Bastia, alla Francia.
Aurelio fu inviato prima (1835) presso il collegio Campana a Osimo, poi (1837-41) a Ferrara a studiare diritto, nonostante le sue propensioni fossero prettamente umanistiche. Si laureò nell’estate del 1841, quindi si recò a Roma per far pratica presso un avvocato. I risultati non dovettero essere incoraggianti, se nel 1844 era di nuovo a Forlì, in cerca di occupazione. Nel marzo 1846 concorse al posto di segretario della commissione provinciale amministrativa, a ricoprire il quale fu chiamato il 25 novembre di quell’anno: un ruolo burocratico in un contesto, quello piononista, tutt’altro che statico.
Saffi mostrava interesse per quei temi di ‘economia sociale’ che in quell’epoca attiravano l’attenzione delle componenti più avvertite dell’élite liberale (andavano in questo senso la Rimostranza e Del Lavoro, entrambi del 1846). Si occupò, quindi, di lavoro, cioè del nodo ‘classico’ dell’economia del tempo: la qualificazione di un mercato degl’impieghi stanco, prevalentemente agricolo, senza spunti d’innovazione.
Alla vigilia del 1848, era dunque un tipico liberale riformatore pontificio, poco appassionato al tema della costituzione e molto più interessato a quello della liberalizzazione del dibattito pubblico. Fu il 1848 a cambiarlo. Candidato al Consiglio dei deputati di Roma in maggio, ma non eletto pur avendo riportato «moltissimi voti» (Ricordi e scritti, 1892-1905, I, p. 231), divenne in quell’anno collaboratore dell’Emilia, giornale liberale forlivese. La crisi militare del 1848 e poi lo sfaldamento delle posizioni nazional-riformatrici dopo l’allocuzione del 29 aprile e la sequela di ministeri fallimentari – Mamiani, Fabbri, Rossi –, lo fecero deragliare verso il radicalismo. L’assassinio di Pellegrino Rossi, il 15 novembre 1848, e la conseguente fuga di Pio IX a Gaeta, fra il 24 e il 25 novembre, resero lo Stato pontificio un Paese senza governo. A dare una scossa furono i circoli popolari, ossia le associazioni spontanee di notabili e di patrioti che non volevano rinunciare a battere la duplice via della nazionalizzazione della penisola e della democratizzazione delle istituzioni. Saffi riuscì a farli incontrare a Forlì, il 13 dicembre: essi, convenuti da Bologna fino a Fano, spinsero le deboli strutture provvisorie sopravvissute nella capitale a convocare per la fine di gennaio un’Assemblea costituente da eleggersi a suffragio universale maschile.
Le consultazioni popolari, il 21 gennaio 1849, furono un successo per i patrioti, che, in un clima di sfiducia e di ripiegamento psicologico del fronte liberale, riuscirono tuttavia a portare alle urne circa 250.000 persone. Saffi risultò primo degli eletti nel collegio di Forlì con 6924 voti. Deliberata la Repubblica romana, il 9 febbraio, il comitato esecutivo chiamato a guidarla – formato da Carlo Armellini, Aurelio Saliceti e Mattia Montecchi – appariva ancora molto ‘romano’, cioè interno all’ambiente della Dominante; ma non ci volle molto a capire che i rappresentanti più dinamici erano quelli delle Legazioni, disposti a prendere contatti con gli altri gruppi della penisola in vista di un rilancio dell’azione liberal-nazionale. Saffi fu quindi nominato il 14 febbraio ministro dell’Interno, carica che conservò anche a marzo, dopo che Giuseppe Mazzini era giunto a Roma e dopo che fu costituito (29 marzo) un triumvirato, esplicitamente democratico, formato insieme a lui dallo stesso Mazzini e da Armellini.
Saffi dovette barcamenarsi in un ambiente difficile: alcune aree del Paese erano fuori controllo, soggette a rivolte o a illegalità diffuse. Il Nord era minacciato dagli austriaci. A Roma, occorreva supportare una condizione d’emergenza, senza tuttavia rinunciare al presupposto della libertà. In poco tempo, si legò a Mazzini, che vedeva come il leader in grado di rendere il caso romano un modello italiano se non europeo («io mi sentii come in compagnia di amico conosciuto da tempo, e si formò in breve fra noi quel legame d’affetto, che più non si sciolse», Ricordi e scritti, cit., IV, p. 5): condivise con lui la resistenza all’assedio francese, dalla fine di aprile in poi; quindi, da luglio, l’esilio.
Passò in Svizzera (1849-51), poi a Londra, dove si stabilì nella primavera del 1851. Divenne il più stretto collaboratore di Mazzini, da allora fino al 1872. Non tornò per molti anni a casa, nonostante, fra il 6 e il 15 febbraio 1853, fosse stato mandato in incognito a Bologna per sostenere dalle Romagne l’insurrezione milanese, poi fallita. Fu condannato in contumacia a vent’anni di fortezza, con sentenza del 4 febbraio 1854. Sua madre morì di colera nel 1855; le sorelle Anna Faustina e Virginia rispettivamente nel 1854 e nel 1858. I legami con Forlì si fecero più tenui, immancabilmente.
Tornato in Inghilterra, assecondò la sua natura riflessiva e studiosa, trasferendosi a Oxford. Propose un primo articolo – Religion in Italy – alla Westminster Review, apparso nell’ottobre 1853, poi – avrebbe scritto – «ingolfatomi in Oxford nella società inglese, tra professori e studenti, la loro favella mi divenne famigliare» (Ricordi e scritti, cit., IV, p. 52). Accolto presso la Taylor Institution come insegnante di lingua e letteratura italiana, nel 1857 poté dare pubbliche letture storico-politiche per la Società degli amici d’Italia, che gli procurarono grande successo fra Londra e la Scozia. Nello stesso tempo, aveva continuato a frequentare l’ambiente liberale e radicale di Mazzini. Conobbe precocemente, durante questi contatti, la famiglia Craufurd, sostenitrice della causa italiana, e s’innamorò di Giorgina Janet (1827-1911), nata a Firenze da John e da Sophia Churchill, che sposò il 30 giugno 1857 a Londra, superando le resistenze dei genitori: fu un matrimonio lungo e felice.
Nonostante il continuo impegno militante, il talento di Saffi – come avrebbe osservato Aleksandr Herzen in Passato e pensieri – era soprattutto pedagogico, morale e speculativo: in questo, il suo carattere differiva assai da quello di Mazzini: «Essi [Mazzini e Saffi] non erano sulla stessa strada. La mente dell’uno cerca dei mezzi, su essi soltanto si concentra; e questa è una specie di evasione dai dubbi; ha sete soltanto di un’attività applicata, e questa è una specie di pigrizia. All’altro è cara la verità obiettiva, la sua mente lavora; inoltre alle nature artistiche l’arte è cara in se stessa, senza i suoi rapporti con la realtà» (1867, 1970, p. 120).
La fedeltà del giovane forlivese al maestro era tuttavia fuori discussione; e quando, nel 1859-60, la ruota dell’iniziativa patriottica riprese a girare, lo seguì di nuovo nella penisola e, conclusa la fase garibaldina, si prestò a presidiare l’opinione pubblica democratica napoletana, dirigendo con Filippo De Boni Il Popolo d’Italia (1860). Diversamente da molti mazziniani della prima ora, irruenti e litigiosi, il suo prestigio e la sua connaturata predisposizione alla pacatezza lo resero pronto per un esperimento parlamentare: dopo aver votato ufficiosamente dall’esilio al plebiscito emiliano del marzo 1860, nel maggio 1861 fu eletto nel collegio di Acerenza in Basilicata. I rapporti con Mazzini e anche con la moglie Giorgina, rimasta intransigente, si fecero più tesi sul terreno politico. La famiglia si riunì per qualche tempo a Torino nel 1862. Nominato a far parte della commissione d’inchiesta sul brigantaggio, passò diversi mesi nel Mezzogiorno. Rientrato nella capitale, fu travolto dagli scontri che dilaniavano le varie correnti democratiche. Si dimise dalla Camera con lettera del 2 gennaio 1864, sostenendo di non vedere più spazio politico per la sua parte e di essere più utile alla patria come semplice cittadino; da allora, non avrebbe messo più piede in Parlamento.
Dopo un primo ritorno a Forlì nel 1860, vi si stabilì a più riprese dal 1863 e in via definitiva dal 1867, nonostante una fase d’incertezza, durante la quale aveva risieduto a Genova e in Inghilterra, dove forse aveva immaginato per sé e per i suoi un avvenire diverso (Giuseppe Attilio, il primogenito, era nato a Londra nel 1858; Giovanni Emilio a Napoli, nel 1861; Carlo Luigi a Genova, nel 1863; mentre l’ultimo, Rinaldo Arturo, vide la luce nella villa di San Varano nel 1868). Poi, però, l’idea di contribuire alla rinascita dell’Italia lo portò di nuovo in Romagna. La rinuncia al contesto britannico per una periferia rurale appariva scarsamente comprensibile. Saffi, tuttavia, s’impegnò con la moglie alla costruzione di una sensibilità democratica dal basso, partendo dai comuni e dai contesti locali. Di qui, la sua franca ripulsa dei metodi cospirativi, che peraltro non aveva davvero mai amato, e il distacco da Mazzini, che gli rimproverava affettuosamente di andare «per tendenza contemplatrice, dove anda[va] Alberto Mario: aspettare che la Monarchia proclam[asse] la repubblica» (Mazzatinti, 1905, p. 326). Saffi replicava: «V’è da occupare, come facevano i cristiani nella società pagana, la cosa pubblica in tutto ciò che resta di popolare in essa, ne’ municipii, nelle associazioni operaie, nelle istituzioni di pubblica utilità [...]. Io non nego l’azione; ma non la credo efficace, non atta a riuscire, se non esce, come frutto maturo, dall’albero che si chiama Nazione, se si crede improvvisarla per fatto di frazioni di partiti, si chiamino queste frazioni dal tuo nome, o da quello di Garibaldi, o da altri nomi minori» (ibid., p. 331).
Nonostante la distanza politica, Saffi non abbandonò il suo vecchio amico. Collaborò, anzi, alla sua ultima fatica intellettuale, la rivista ‘ideologica’ La Roma del Popolo (1871-72), avviando una presentazione del pensiero del leader che avrebbe poi continuato, morto questi, curando l’edizione nazionale dei suoi scritti fino al 1890 e facendosene primo, autorevole interprete. Nello stesso tempo, in Romagna, a partire dalla sua città, aveva spinto i repubblicani a partecipare alle elezioni amministrative e a proporsi come valide ed efficienti alternative al governo dei moderati, puntando sulla modernizzazione delle aree urbane (scuole, cimiteri, strade). Nel 1872 aveva dato vita alla Consociazione delle società popolari della Romagna, primo tentativo di organizzare su scala regionale un partito politico democratico. I moderati, che vedevano in quel dinamismo un pericolo per gli assetti del potere locale, non esitarono ad associare strumentalmente la consociazione al nascente movimento anarchico, reprimendola duramente con gli arresti di villa Ruffi, a Rimini, il 2 agosto 1874: l’intera rete mazziniana ne uscì sconvolta. Saffi finì, insieme con altri importanti capi del movimento, in carcere a Spoleto e poi a Perugia. Alla liberazione, in settembre, oltre al ruolo indiscusso di capo influente del ‘partito mazziniano’ nazionale, riprese l’attività amministrativa e pedagogica che, in seguito all’avvento della Sinistra al potere, si estese all’insegnamento presso l’Università di Bologna.
Saffi, che si era trasferito nel capoluogo emiliano nel 1876 tornando in estate a San Varano, tenne corsi di storia del diritto pubblico come libero docente dal 1878. Quando fu istituita (1883) la Scuola libera di scienze politiche, ebbe (1885) la cattedra di storia dei trattati e della diplomazia, che conservò fino alla morte. Il mondo accademico felsineo, radicale e massonico (era stato iniziato a Torino nel 1862, ma riprese l’attività di loggia a Bologna dopo il 1880), gli si confaceva. L’amicizia di Giosue Carducci e di Giuseppe Ceneri, inoltre, rafforzava in lui il senso di un impegno formativo militante verso le giovani generazioni.
Dal punto di vista politico, le sue idee avevano subito un’evoluzione che non comprometteva la sua personale scelta repubblicana di gioventù. Nel 1882, in occasione delle prime elezioni a suffragio allargato, aveva teorizzato la necessità che i repubblicani andassero al voto, ma solo per condizionare l’affermazione dei deputati radicali dell’Estrema Sinistra. «Eletto non giuro, elettore voto», sarebbe stato, anche per lui, lo slogan più appropriato (Balzani, 1988, pp. 102 s.). Diverso il caso delle elezioni locali, dove non solo si poteva, ma si doveva cercare di conquistare la maggioranza. La tesi di Saffi non risultò prevalente in seno al movimento fedele alla memoria di Mazzini, fermo su posizioni intransigenti, ma indubbiamente egli aprì la strada alla legittimazione piena della componente democratico-mazziniana in ambito parlamentare, che sarebbe seguita nel decennio Novanta. Celebrato come l’«ultimo vescovo» di Mazzini (Spadolini, 1972, p. 60), fu inutilmente chiamato più volte a guidare l’Estrema Sinistra alla Camera.
Morì a San Varano il 10 aprile 1890.
È curioso osservare ancor oggi la natura del tutto peculiare della modesta villa suburbana, circondata da un giardino all’inglese voluto da Giorgina, che rinvia direttamente alla stagione transnazionale, romantica e umanitaria della democrazia europea, benché calata nell’ambiente mezzadrile, vernacolare e periferico della Romagna di allora.
Opere. Imprescindibili sono i Ricordi e scritti, a cura del Municipio di Forlì, I-XIV, Firenze 1892-1905 (ed. anast., Bologna 1992).
Fonti e Bibl.: Bologna, Biblioteca comunale dell’Archiginnasio, Fondo speciale Aurelio Saffi, bb. 1-108; Forlì, Biblioteca comunale Aurelio Saffi, Raccolte Piancastelli, Carte Romagna, bb. 423-426.
A. Herzen, Passato e pensieri (1867), Milano 1970; La Consociazione romagnola e gli arresti di Villa Ruffi (1875), Bologna 1988; La mente e il cuore di A. S. X aprile MDCCCXC, a cura di P. Squadrani - G. Mazzatinti, Forlì 1891; G. Mazzatinti, Lettere di Giuseppe Mazzini ad A. S. e alla famiglia Craufurd (1850-1872), Roma 1905; G. Quagliotti, A. S. Contributo alla storia del mazzinianesimo, Roma 1944; A. Berselli, La ‘metamorfosi spirituale’ di A. S. dal riformismo al mazzinianesimo, in Nuova rivista storica, XL (1956), 1, pp. 48-72; A. Mambelli, A. S. e i suoi congiunti. Memorie storiche, Forlì 1961; A. Spallicci - I. Missiroli, A. S., Forlì 1961; A. Scirocco, I democratici italiani da Sapri a Porta Pia, Napoli 1969, ad ind.; i contributi di I. Missiroli, Mazzini e Saggi, di U. Marcelli, Aurelio Saffi a Bologna, tra insegnamento e politica (1876-1890), e di L. Montanari, Antonio Saffi nella vita e nelle lettere, in Studi romagnoli, XXIII (1972), pp. 103-188; G. Spadolini, I repubblicani dopo l’Unità, Firenze 1972, ad ind.; il fascicolo monografico dedicato ad Aurelio Saffi dalla rivista Archivio trimestrale, VI (1980), 4; R. Balzani, A. S. e la crisi della sinistra romantica (1882-1887), Roma 1988; M. Ridolfi, Il partito della repubblica. I repubblicani in Romagna e le origini del PRI nell’Italia liberale (1872-1895), Milano 1989, ad ind.; S. Tombari, A. S. da segretario a presidente della Provincia di Forlì, Forlì 1989; L. Gazzetta, Giorgina Saffi. Contributo alla storia del mazzinianesimo femminile, Milano 2003; M. Finelli, Il monumento di carta. L’edizione nazionale degli scritti di Giuseppe Mazzini, Verucchio 2004, ad ind.; R. Balzani, Una questione di affinità: A. S. e la cultura francese dell’Ottocento, in De Amicitia. Scritti dedicati a Arturo Colombo, a cura di G. Angelini - M. Tesoro, Milano 2007, pp. 375-387; E. Bertoni, A. S. L’ultimo ‘vescovo’ di Mazzini, Forlì 2010; G.L. Fruci, I plebisciti e le elezioni, in L’unificazione italiana, a cura di G. Sabbatucci - V. Vidotto, Roma 2011, pp. 246 s. Si vedano, inoltre, per un quadro più articolato della bibliografia disponibile: A. Vasina, Cento anni di studi sulla Romagna. 1861-1961, Bibliografia storica, II, Faenza 1963, pp. 246-251; F. Della Peruta, I democratici dalla Restaurazione all’Unità, in Bibliografia dell’età del Risorgimento in onore di A.M. Ghisalberti, I, Firenze 1971, pp. 340 s.; G. Luseroni, I democratici dalla Restaurazione all’Unità, in Bibliografia dell’età del Risorgimento, 1970-2001, I, Firenze 2003, pp. 390 s. Infine, per la breve esperienza parlamentare: Camera dei Deputati, Portale storico, http://storia.camera.it/deputato/aurelio-saffi-18191013#nav (5 giugno 2017).