ATTILIO Regolo, Marco
M. Atilius M. f. L. n. Regulus, console per la prima volta nel 267, con L. Giulio Libone, vinse i Salentini e conquistò Brindisi. Console per la seconda volta nel 256 (suffectus in luogo del morto Q. Cedicio), prese il comando di una forte squadra romana e di un esercito da sbarco di quattro legioni, e si scontrò con la flotta cartaginese, proveniente da Lilibeo, all'altezza del capo Ecnomo (costa meridionale della Sicilia), riuscendo vincitore di una delle più grandi battaglie navali dell'antichità (330 navi romane e 350 cartaginesi, montate complessivamente da circa 300.000 uomini, secondo Polibio; cifre ridotte dai moderni a 230 e 250 e 100.000-150.000; v. G. De Sanctis, Storia dei Romani, III, 1, Torino 1916, p. 137 seg.). Conquistato così il dominio del mare, Regolo sbarcò in Africa, nella penisola del Capo Ermeo (Capo Bon), prese Clupea e ne fece la base delle sue operazioni contro Cartagine. Nell'autunno la flotta, tranne 40 navi, fu richiamata in Italia, e Regolo rimase in Africa con due legioni (15.000 fanti e 500 cavalli). Avanzatosi devastando verso l'interno, batté un esercito cartaginese che aveva tentato di sbloccare la città di Uthina (?) da lui assediata (v. adys), prese Tunisi e s'accampò in vista di Cartagine. Prorogatogli il comando per il 255, nelle trattative di pace iniziate dai Cartaginesi impose condizioni durissime, che questi respinsero, accingendosi ad un ultimo sforzo. Con arruolamenti di mercenarî, fra i quali era l'esperto ufficiale lacedemone Santippo, cui, forse esagerando, fonti greche attribuirono un'influenza decisiva, i Cartaginesi posero in campo all'aprirsi della primavera un nuovo esercito, molto superiore al romano per cavalleria (4000 cavalli), e in una fortunosa battaglia Regolo fu vinto e fatto prigioniero nella fuga, mentre solo 2000 dei suoi poterono rifugiarsi a Clupea. Dopo la battaglia di Palermo (250), nella quale molti Cartaginesi caddero in potere dei Romani, Regolo fu inviato dai Cartaginesi a Roma per trattare lo scambio dei prigionieri, o la pace; ma fu costretto a giurare che se le trattative fossero fallite egli sarebbe ritornato a Cartagine. Giunto a Roma, l'eroico console dissuase i Romani dall'accettare la pace o lo scambio dei prigionieri, svelando le tristi condizioni dei Cartaginesi stremati, e sostenendo l'inopportunità di ridare al nemico giovani e validi guerrieri in cambio di lui vecchio. Quindi, fedele al giuramento, ritornò a Cartagine, ove fu fatto perire fra tormenti atroci. Già gli eruditi del sec. XVII dubitarono della storicità di questo racconto per un passo di Diodoro (XXIV, 12), che pare attinto ad ottima fonte, secondo il quale la vedova di Regolo, ritenendo che il marito fosse morto "per mancanza di cure" (δι' ἀμέλειαν), e quindi non per tormenti, avrebbe lasciato senza cibo in una ristretta cella due nobili prigionieri cartaginesi a lei affidati, tanto che uno morì, finché, risaputasi la cosa, i magistrati romani minacciarono gli Attilî di pena capitale per avere disonorato con la loro ferocia il nome romano. Ora difficilmente il governo romano sarebbe intervenuto se gli Attilî avessero semplicemente esercitato il taglione sui due prigionieri. Inoltre Polibio, I, 35, dopo aver raccontata la catastrofe di Regolo in Africa, soffermandosi a fare varie considerazioni sull'instabilità della fortuna, non ricorda la tragica fine del console: un argumentum e silentio, ma che ha un certo valore. Pare quindi che la legazione e il supplizio di Regolo siano stati escogitati per spiegare la crudeltà della vedova contro i prigionieri, e siano rimasti nella tradizione, mentre fu eliminato il racconto del fatto che essi dovevano giustificare.
Bibl.: G. De Sanctis, Storia dei Romani, III, i, Torino 1916, p. 139 seg.; E. Klebs, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl. d. class. Altertumswiss., II, col. 2088. Tentò di difendere la storicità della fine di Regolo, E. Pais, I tormenti inflitti ad Attilio Regolo e l'autenticità della tradizione romana, in Ricerche sulla storia e il diritto pubblico di Roma, IV, Roma 1921, p. 411, ma egli è costretto a dare alle parole di Diodoro un significato che non possono avere.