BONIFACIO, marchese e duca di Toscana
Figlio del marchese canossiano Tedaldo, conte di Modena, Reggio, Mantova, Brescia e Ferrara, e di Willa "ducatrix" - della cui famiglia nulla si sa, ma il cui nome e il cui titolo hanno fatto pensare alla famiglia marchionale di Spoleto e di Toscana - fu figura di primo piano nella prima metà del secolo XI.
Non soggiacque infatti alla crisi di potenza cui andò incontro la grande aristocrazia laica italiana in questa età, esauritasi nella vana lotta per l'affermazione delle sue volontà autonomistiche di fronte ai sovrani tedeschi dopo la morte di Ottone III, e vittima dello stesso sviluppo di quelle forze particolaristiche sociali e politico-amministrative a cui si era appoggiata. Il realismo politico che sempre contraddistinse l'azione di B. infatti - calliditas e astutia gli attribuiscono le fonti - gli impedì di porsi, anche nei momenti di maggiore fortuna, traguardi utopistici e gli consigliò di non abbandonare mai sostanzialmente l'orbita e quindi l'appoggio degli imperatori e re tedeschi, in una età in cui la loro presenza era ancora significativa ed efficace: ciò gli consentì, tra l'altro, di operare senza scrupoli ed eccessive reazioni quella politica di conservazione e di ampliamento del proprio patrimonio, che, se gli meritò l'appellativo di "helluo bonorum ecclesiasticorum" da parte del Muratori (Antiquitates, III, col.182), e un generale giudizio moralistico negativo, gli consentì di dare concreto significato alle sue dignità d'ufficio, di dominare le forze contrastanti, e di avere quindi un peso effettivo nella vita e nelle vicende del Regnum Italiae.
B. visse i suoi primi anni in un periodo assai difficile, di grandi incertezze politiche e di fermenti sociali, apertosi negli ultimi anni del regno di Ottone III e resosi evidente all'indomani della sua morte (2, 3 genn. 1002). Le prime notizie che a lui si riferiscono sono in diretto rapporto con la situazione generale, e lo vedono porsi in posizione antagonista rispetto a un mondo di interessi vecchi e nuovi, rappresentato dalla grande aristocrazia italiana specie nordoccidentale, sua concorrente sul piano del potere, desiderosa di affermarsi, ostile ai re tedeschi, e a quanti a questi si appoggiavano, favorevole alle nuove forze della minore feudalità e della città in movimento verso nuovi ordinamenti sociali e politico-amministrativi; aristocrazia che ebbe nel marchese d'Ivrea, Arduino, e nel marchese di Torino, Olderico Manfredi dopo di lui, i suoi maggiori esponenti.
Il B. compare per la prima volta il 30 sett. 1001, giorno in cui risulta accanto al padre marchese Tedaldo in un placito a favore del monastero di S. Giulia di Brescia, tenuto a Carpi (comitato di Reggio). Tra il ioio ed il 1015 sposò la contessa Richilde, già vedova, figlia del conte di Bergamo e conte palatino Giselberto II e di Anselda, figlia del marchese Arduino Glabrione di Torino: il matrimonio fu combinato nel tentativo evidente di "catturare" altri grandi laici fino a quel momento su incerte posizioni, a un duplice scopo: da una parte spezzare la solidarietà che si era creata attorno al marchese Arduino d'Ivrea, incoronato re d'Italia dal 15 febbr. 1002, e ancora ben attivo, da parte dell'aristocrazia dell'Italia nordoccidentale (Aleramici, Obertenghi, conti di Castelseprio), e dall'altra rafforzare lo schieramento di quanti, come il padre di B., Tedaldo, si erano orientati verso il sovrano tedesco Enrico II, re d'Italia dal 12 maggio 1004, per la gran maggioranza appartenenti al ceto ecclesiastico.
Sembra essere questa la più probabile interpretazione d'un matrimonio che legava B. non solo alla famiglia dei Gisalbertini di Bergamo, ricoprente importanti posizioni e cariche nel Regnum, ma rinnovava a distanza di due generazioni l'alleanza tra Canossiani e marchesi di Torino: sia B. che Richilde, infatti, erano cugini primi dell'allora marchese di Torino Olderico Manfredi. Per quanto non sia possibile precisare con più esattezza la cronologia di questo avvenimento - il 10 ott. 1010 Richilde, già vedova, non appare legata a B., nel 1015 è già sua "coniux" - è assai probabile che il matrimonio si celebrasse, o fosse combinato, vivente ancora il padre di B. Tedaldo, certo vivo ancora nel luglio 1012, e per sua opera, visti gli stretti legami che lo univano alla casa torinese (la sorella Prangarda era la madre di Olderico Manfredi). Tedaldo, come è noto, si era chiaramente espresso a favore di Enrico II, di cui aveva concretamente appoggiato la candidatura alla corona d'Italia, unico grande laico ricordato dalle fonti in questa posizione, e che ad Enrico "diu expectato" era andato incontro a Verona nella primavera del 1004, con il suo esercito, "gaudens tempus advenisse quo secretum bonae voluntatis sibi liceret huic aperire" (Thietmari Chronicon, p.136).
Al motivo politico si unì il motivo patrimoniale: notevole fu l'entità dei beni portati da Richilde a B., provenienti certo anche dal patrimonio del defunto marito (del quale peraltro nulla si sa), nei comitati bresciano, mantovano, ferrarese e reggiano, di cui Tedaldo era titolare, e nei territori cremonese e veronese. Alcuni di questi beni erano in posizione di particolare importanza, e molto convenivano al rafforzamento della famiglia canossiana, o perché situati lungo il Po, via di comunicazione, specie per i territori canossiani, di cui è superfluo sottolineare l'importanza politica ed economica (sulla sinistra Casteldidone e Correggioverde, sulla destra beni nel Reverese); o perché erano punte avanzate e fortificate nella Bassa veronese, via di sbocco necessaria per chiunque venisse dal nord delle Alpi (a Nogara una corte cum castro;ad Angiari, sull'Adige, analogamente una corte cum castro; per questi beni cfr. soprattutto l'atto di acquisto, in realtà forse un recupero di beni, fatto da Richilde il 10 ott. 1010, in Falce, Documenti inediti, n. VII, pp. 19-24; cfr. ibid., pp. 17 s., e Overmann, Gräfin Mathilde, pp. 7, 18, 19 n. 2, 20, 24, 25, 36).
In rapporto al momento di grande insicurezza anche interna, è da porsi inoltre il modo, significativo e illuminante, con cui avvenne il trapasso di poteri tra Tedaldo e B., disposto saggiamente dal padre prima della morte. Sembra infatti che si possa accettare nella sua interezza la testimonianza di Donizone, il cantore delle glorie canossiane, che narra come Tedaldo "moriens", "post se precepit maior ut esset / ... Bonefacius ... / cui iuraverunt patre tunc: vivente fideles / Servi, prudentes proceres..." (Vita Mathildis, p.22). È chiaro lo scopo di Tedaldo, mediante la designazione contro ogni uso d'un unico erede con l'esclusione degli altri figli - Tedaldo (che tuttavia era chierico e fin dal 1006 si trovava ad Arezzo coadiutore del vescovo di quella diocesi) e soprattutto Corrado, allora assai giovane -, di assicurare una posizione di forza a B. e, mediante un rinnovato preciso giuramento di fedeltà richiesto ai suoi "fideles servi" e "prudentes proceres", di scongiurarne pericoli di insubordinazioni in tempi a queste così favorevoli. Tedaldo morì il 18 maggio d'un anno tra il 10 13 ed il 1015, ma con ogni probabilità nel 1013 (cfr. Colorni, Il territorio. pp. 14 e n. 47, 46).
Posto dalla eredità e dal cospicuo matrimonio in una posizione di assoluto rilievo nel Regnum - dominava sostanzialmente tutta la parte orientale della pianura padana in stretto collegamento con zone direttamente dipendenti dal regno di Germania, come il comitato di Verona, o da esso largamente controllate, come il comitato di Bologna, terra dell'Esarcato -, B. dovette presto affrontare direttamente all'esterno e all'interno l'opposizione di quanti contrastavano la sua potenza e l'indirizzo politico da lui rappresentato. Entrato a far parte, nell'estate del 1016, della coalizione organizzata dal vescovo di Vercelli Leone, sotto il patrocinio di Enrico II, contro il marchese Olderico Manfredi di Torino, erede della politica di Arduino dopo il ritiro di questo a Fruttuaria (settembre, pare, del 1014), B. partecipò con le sue truppe, insieme, tra gli altri, con i vescovi di Parma e di Novara e il marchese obertengo Alberto, all'assedio del castello d'Orba, ove si erano asserragliati i sostenitori del marchese di Torino. L'assedio, protrattosi in modo inconcludente per una quindicina di giorni, si risolse per l'iniziativa di Olderico Manfredi che pensò di accordarsi con gli assedianti, a cui richiese, in cambio della sua collaborazione alla distruzione del castello, garanzie non solo sulla grazia sovrana e l'incolumità delle sue giurisdizioni, ma anche sui diritti pubblici della marca di Ivrea, che fu congiunta a quella di Torino (cfr. Mor, L'età feudale, I, p. 554). Conclusione poco onorevole, forse facilitata dai rapporti di parentela esistenti tra B. e il marchese di Torino, e, a più alto livello, dal minor interessamento dimostrato in questa occasione da Enrico II, ma che il vescovo Leone di Vercelli indicava come l'unica possibile in una situazione nella quale i rapporti di forza tra i grandi appaiono largamente condizionati dal buon volere dei loro "milites" (lettera IV ad Enrico II, ed. H. Bloch, Beiträge, pp. 62 s.).
Con ogni probabilità l'intervento di B. a fianco di Leone di Vercelli fu propiziato da Enrico II con la concessione alla sua consorte Richilde della metà della corte e castello di "Trecentola" (probabilmente Trecenta sul Tartaro, tra Ferrara e Modena), confiscata nell'aprile del 1016 ai ribelli Ugo e Berengario conti del Seprio. Certo tramite tra B. e l'imperatore dovette essere il vescovo di Parma, Enrico, interveniente nel privilegio, cancelliere del Regno e latore in Germania degli appelli del vescovo di Vercelli.
Tornato dalla spedizione contro il castello d'Orba, B. dovette fronteggiare un conflitto col fratello minore Corrado e, superato questo, un altro conflitto, questa volta cruento, "cum tota fere Longobardia", chiusosi con lo scontro vittorioso di Coviolo, nel Reggiano, avvenuto nel 1021, scontro che vide i fratelli riappacificati combattere fianco a fianco. Questi due avvenimenti, narrati da Donizone (Vita Mathildis, pp. 24 s.), variamente datati e interpretati, sono chiaramente in rapporto tra di loro, e sono episodi dell'opposizione che viene condotta dai grandi del Regnum contro la potenza del canossiano, opposizione nella quale i marchiones Longobardiae cercarono e trovarono appoggi in tutte quelle forze che "all'interno" avevano motivi di dissenso con il marchese: Corrado, innanzi tutto, posto in condizioni d'inferiorità dalle disposizioni paterne, cui non mancavano le ragioni per rompere la "fraternam pacem", affettato inoltre dalle promesse d'un matrimonio cospicuo con una "sponsa" "ex ipsis ortam", chiaro contraltare del matrimonio di B. con Richilde; una parte della feudalità, forse i ceti cittadini, che non abbandonarono la lotta dopo la riconciliazione di Corrado con il fratello.
È ipotesi del Mor che gli oppositori menzionati da Donizone siano da identificare con i "comites" Ugo e Berengario dei Seprio - che nello stesso torno di tempo turbavano con le loro azioni armate il Milanese e il Cremonese, e che, affrontati in campo aperto dall'arcivescovo di Milano, Ariberto, ne furono gravemente sconfitti - e i vassalli sepriensi. passati da poco sotto il governo di Bonifacio. È certo che i conti del Seprio potevano avere ragioni di rancore contro chi, come B. e l'arcivescovo di Milano, erano stati i principali beneficiari delle confische decretate a loro carico da Enrico II in seguito al sostegno dato ad Arduino e, si deve supporre, anche a Olderico Manfredi. Attendono la conferma di studi ulteriori sulla situazione locale le ipotesi formulate sull'identità della opposizione interna a B. dei "servi nonnulli" cioè coloro che avevano seguito Corrado. Il Violante, pur identificando nei personaggi di rango marchionale i nemici "esterni" di B., esclude la partecipazione delle classi feudali minori alla ribellione di Corrado contro B. e alla successiva rivolta. Il Violante vede questi avvenimenti come "un tentativo di disgregazione della marca canossiana da parte dei comitati e delle città dipendenti, e insomma da parte dei vescovi, dei conti, dei capitanei" (Aspetti..., p. 168). Si puòcomunque già precisare che nella marca canossiana mancano alcuni di questi elementi, come ad esempio i conti: B. stesso è il titolare dei comitati componenti la marca. Sono il Falce (Bonifacio, I, pp. 119 ss.), e dietro a lui il Grimaldi (La contessa Matilde, p. 128), a parlare di feudalità minore per queste circostanze.
In questi stessi anni così tormentati B. compare in una serie di atti privati nei quali pare possibile scorgere le direzioni in cui intendeva rafforzare la sua presenza, oltreché il riflesso delle sue temporanee difficoltà: lungo il Po (donazione del 25 luglio 1012 al monastero di S. Benedetto di Polirone, fondato appena cinque anni prima dal padre Tedaldo nell'intento anche politico di creare un "presidio" fedele in una zona del tutto disabitata); nella bassa pianura veronese, specie nella zona fortificata di Nogara (compera di Richilde del 1015; i sette atti stipulati quasi certamente tutti lo stesso giorno, il 26 marzo 1017, testimoni forse di difficoltà tra i membri della famiglia canossiana, cfr. Falce, Documenti inediti, n. IX, pp. 28-42); nei territori cremonese e veronese (precarie remunerative col vescovo Guarino di Modena, 18 ott. 1020, e col vescovo di Cremona Landolfo, 10 dic. 1022).
Non si ha notizia di contatti diretti di Enrico II con B. né durante la sua seconda discesa in Italia, nella quale fu coronato imperatore (14 febbr. 1014), né durante la sua terza e ultima (dicembre 1021-agosto 1022), compiuta soprattutto allo scopo di appoggiare la politica del pontefice Benedetto VIII nell'Italia meridionale e riaffermare i diritti dell'Impero in quelle zone. Gli interventi operati da Enrico II nei territori di giurisdizione canossiana non sembrano avere particolare rilievo politico: il diploma rilasciato nel 1014 agli arimanni della città e del comitato di Mantova (cfr. per i destinatari di questo diploma Tabacco, I liberi del re, pp. 167-174)fu probabilmente concesso all'indomani della morte di Tedaldo, per tutelarne diritti e privilegi al momento del cambio del titolare del comitato; i diplomi concessi alle Chiese di Reggio (1014 0 1022) e di Mantova (10 dicembre del 1021), su richiesta fatta dai rispettivi titolari, sancivano la semplice conferma di diritti già goduti.
Domate felicemente le opposizioni interne, fiaccate quelle esterne, B. doveva apparire, all'indomani della morte di Enrico II (12 luglio 1024), per l'ampiezza e l'importanza dei territori governati, per le capacità e la forza dimostrate fino a quel momento, per la linea politica seguita, uno dei canali essenziali per chiunque avesse voluto dominare un regno che Enrico non aveva domato, e che dopo la sua morte aveva dato clamorosi segni d'insofferenza verso la presenza di un potere centrale e verso il dominio dei re tedeschi: l'incendio del palazzo regio di Pavia; i tentativi del marchese Olderico Manfredi e dei suoi sostenitori - il fratello Alrico vescovo di Asti, i conti d'Ivrea, forse qualche membro della famiglia obertenga - di trovare un'alternativa francese alla corona d'Italia, tentativi esauritisi solo con la rinuncia del candidato Guglielmo d'Aquitania, del giugno 1025, a quasi un anno di distanza dall'elezione del successore di Enrico, Corrado II di Franconia (8 sett. 1024), ne erano state le principali manifestazioni. E Corrado II, che aveva il più grande interesse verso l'Italia per il prestigio che gli poteva derivare dal possesso della corona regia e imperiale ai fini della sua posizione interna in Germania e per gli aiuti che gli poteva dare per i suoi progetti di acquisizione del regno di Borgogna, proprio di B. fece uno dei punti di appoggio della sua politica accanto all'arcivescovo di Milano Ariberto suo grande elettore, e alle altre tradizionali forze italiane come l'episcopato e il papato: ne rafforzò infatti subito le dignità già copiose, ne favorì quindi, sopraggiunta nella seconda metà del suo regno la crisi sociale e politica di Milano, i legami con le famiglie tedesche a lui vicine.
Fu infatti proprio durante la prima discesa del nuovo re in Italia, quando Corrado, dopo essere stato coronato re a Milano il 23 marzo 1026, riprese il controllo della situazione con una serie di operazioni militari contro Pavia (maggio-giugno 1026), Ravenna (giugno-luglio 1026), Ivrea (dicembre 1026), che a B. venne affidata la marca di Toscana, tolta al marchese Ranieri, reo di aver chiuso le porte di Lucca al nuovo sovrano (febbraio-marzo 1027), che si recava a Roma per ricevere la corona imperiale (26 marzo 1027). È del luglio 1028 la prima menzione di B. come "marchio et dux Tuscie". B. così otteneva il predominio anche nell'Italia centrale, ed estendeva la sua presenza dal Po fino ai confini del territorio romano - l'estremo lembo meridionale della sua nuova giurisdizione era Corneto, l'attuale Tarquinia -, controllando quindi non solo le vie di sbocco della pianura veronese verso l'Appennino, ma i passaggi stessi dell'Appennino verso l'Italia centrale, e quindi le vie per Roma.
Di recente, il problema della natura giuridica della concessione della marca di Toscana a B. è stato ripreso in esame dal Colorni (Il territorio, pp. 35-37). Questi ritiene di poterne mettere legittimamente in dubbio la natura feudale, quale si dovrebbe ipotizzare se si volesse dare fede al racconto fatto da Donizone d'un iusiurandum intercorso tra B. e Corrado in occasione della concessione d'una marchia, generalmente identificata con quella di Toscana (Vita Mathildis, p. 36: "in carta scriptum iusiurandum fuit istud" precisa Donizone). Il racconto di Donizone infatti - puntualizza con precisione il Colorni mediante un confronto con le norme codificate nei Libri feudorum (Il territorio..., pp. 35 s.), ma già lo aveva notato il Falce (Bonifacio, I, pp. 110 s.; II, pp. 18 s.) - è la descrizione in termini anche giuridicamente precisi, d'una investitura feudale, con reciproco giuramento di fedeltà tra signore e vassallo, comportante quindi il passaggio di tutti i poteri sovrani sul territorio infeudato, dietro il semplice riconoscimento, da parte del concessionario, dell'alta sovranità del concedente (pp. 27-28). Tuttavia, nota il Colorni, se l'ereditarietà delle cariche amministrative, instauratasi in via di fatto ormai da molto tempo, ne aveva alterato la fisionomia giuridica originaria, orientandola verso una configurazione di tipo signorile, è fenomeno assai più tardo la feudalizzazione di queste cariche anche sul piano giuridico, sebbene non del tutto sconosciuto nell'Italia del secolo XI (concessione per il vescovo di Trento da parte di Corrado II, 27 maggio 1027; per il patriarca di Aquileia, il ducato del Friuli da parte di Enrico IV, 11 giugno 1077: pp. 31-32). Per il caso specifico, poi, numerosissime sono le testimonianze di interventi diretti della sovranità in territorio toscano al di fuori e al di sopra dell'autorità marchionale (placiti di messi regi e imperiali; ammende destinate alla camera imperiale; un palazzo imperiale a Lucca): sicché per quanto riguarda il racconto donizoniano, che molti rifiutano senz'altro solo come fantasioso; si deve pensare - scrive sempre il Colorni - ad un trasferimento al passato d'un fenomeno più comune nel momento in cui Donizone scriveva: "la concessione a Bonifacio con tutta probabilità" avvenne non iure feudi, ma "nella forma consueta di attribuzione d'un pubblico ufficio" (pp. 37 s.).
Il problema della feudalizzazione delle cariche amministrative e del suo significato, per lo meno sul piano giuridico e per la zona del Regnum Italiae, è tuttavia ancora aperto all'indagine degli studiosi, così come tutto il problema della organizzazione sociale-politico-amministrativa del mondo postcarolingio, che già sembrava essere stato chiaramente definito negli schemi dei legami feudovassallatici; nella fattispecie il Colorni nega la feudalizzazione delle cariche amministrative sulla base di una nozione di feudo che esclude l'intervento dell'autorità sovrana a qualsiasi titolo sul territorio infeudato, nozione che probabilmente ha bisogno di ulteriori chiarimenti. Per il caso specifico ci limiteremo quindi ad osservare in questa sede che i termini in cui si esprime Donizone non sono riferibili solo ad usi tardi codificati nei Libri feudorum, ma anche all'età di B. stesso: cfr. gli esempi di giuramento di fedeltà riportati da F.-L. Ganshof, relativi all'XI secolo (Qu'est-ce que la féodalité, Bruxelles 1957, p. 103), anche se non di zona italiana, e l'affermazione dello stesso autore (p. 165) che "de bonne heure" si redassero atti scritti relativi ai giuramenti di fedeltà e alle infeudazioni, pur se molto rari prima del XIII secolo; e, per il problema generale, a richiamare l'attenzione sull'"estrema ambiguità delle istituzioni" "propria dell'età precomunale", in cui il "fatto ripetuto nel tempo" provoca anche un mutamento "nella coscienza giuridica di quelle generazioni", come ebbe a scrivere uno studioso, il Tabacco (Iliberi del re..., p. 210), che più di ogni altro in Italia ha ripreso la tematica della "dissoluzione medievale dello stato" nella coscienza della molteplicità dei motivi da identificare al di fuori di ogni schematismo e astrattezza. È in ogni modo segno della consolidata potenza "signorile" di B., quale che fosse la sua posizioné sul piano più propriamente giuridico come marchese di Toscana, l'emanazione da parte sua ed a nome proprio di due documenti che consuetudinariamente venivano emessi dall'autorità sovrana, e che nel formulario si rifanno a quello della cancelleria regia: una "mundiburdii ... pagina" a conferma dell'elezione di Uberto, abate del monastero di S. Miniato di Firenze, ad abate del monastero di S. Pietro a Ema, presso Firenze, rilasciata il 19 aprile 1038 da San Donato in Poggio, Val di Pesa (Firenze), primo documento giuntoci della cancelleria canossiana (cfr. Overmann, Gräfin Mathilde..., pp. 219-221, 223-227; Falce, Contributo..., p. 83); e un diploma di conferma dei beni del monastero di S. Bartolomeo di Pistoia emesso intorno al giugno 1051. Queste le altre interpretazioni date dagli studiosi al passo di Donizone: il Simeoni, nel commento ai vv. citati, pensò ad una "errata interpretazione di formule fatta dalla tradizione", che deformò il senso del giuramento che certo B. dovette fare all'atto dell'attribuzione dell'ufficio. Il Falce (Bonifacio, I, p. 118) pensò ad un "atto di garanzia reciproca" "in ordine alla... questione delle investiture" circondate dalle maggiori cautele che si vanno fissando per iscritto a causa della "evidente... diffidenza da cui sono presi reciprocamente i due contraenti".
È stata sottolineata una certa penetrazione dei Canossiani nella zona toscana anche prima della nomina di R. a marchese, nomina che avrebbe segnato quindi il compimento d'un lungo itinerario politico, addirittura un "ritorno" della famiglia ai luoghi d'origine (Sigifredo, l'avo di B., proveniva de comitatulucensi). La presenza di membri della famiglia canossiana in sedi vecovili toscane, in tempi diversi, come Goffredo vescovo a Luni dal 981 al 988 - ma non è certo che si tratti del figlio di Adalberto Azzo di Canossa -, e di Tedaldo, fratello di B., vescovo ad Arezzo dal 1023 (maggio-luglio), ne sarebbe il principale segno. Tuttavia più che di un disegno preciso e autonomo di espansione familiare tenacemente perseguito, sembra più giusto parlare d'una continuità della politica dei re e imperatori tedeschi, che hanno il loro principale centro di fedeli nelle zone orientali della pianura padana strettamente collegate con i territori della marca di Verona e dell'Esarcato, su cui si esercitava in modo diretto il loro controllo: di questo centro essi si servirono per spostare i loro fedeli in territori particolarmente importanti, come erano appunto quelli toscani: basti pensare ai fitti contatti tra le zone dell'Esarcato e soprattutto del Ravennate e quelle della Toscana sia sul piano propriamente politico e del reggimento laico, sia sul piano religioso in genere e del reggimento ecclesiastico in particolare, riscontrabili dalla seconda metà del X secolo in poi.
Nel quadro quindi di una più ampia e più lunga tradizione di rapporti tra i territori emiliano-romagnoli e le zone dell'Italia centrale, e degli stretti legami che univano questi stessi territori con il potere regio e imperiale, degli Ottoni prima, di Enrico II poi, va posta la scelta di B. alla guida della marca toscana. È possibile che a questa nomina non siano stati estranei anche i suggerimenti di quel mondo ecclesiastico romagnolo così presente in Toscana e così legato all'Impero. A prescindere dalla presenza nel clero toscano del fratello stesso di B., con il quale tuttavia non èdocumentato nessun rapporto diretto, ottimi sembrano essere stati i rapporti di B. con il vescovo di Firenze Lamberto, già priore di Sant'Apollinare in Classe, e speciali legami sembrano averlo unito al monastero vescovile di S. Miniato. Ottimi i suoi rapporti anche con il vescovo di Fiesole, Iacopo il Bavaro, che si era affrettato ad andare incontro a Corrado non appena questi aveva varcato gli Appennini, e che insieme con il vescovo Lamberto e il vescovo di Lucca era al seguito del re tedesco allorché Corrado attraversò la Toscana per raggiungere Roma.
In posizione ormai unica in Italia, B. collaborò attivamente alla politica dell'imperatore. Tenne contatti con gli altri fedeli del mondo germanico, come l'arcivescovo Gebeardo di Ravenna - con cui ebbe un convegno, di cui s'ignora l'oggetto, a Ferrara, nel marzo 1032 - e il vescovo Adalfredo di Bologna; partecipò con il suo contingente militare alle ultime fasi della campagna condotta dall'imperatore contro Oddone di Champagne, che gli contendeva l'eredità della corona di Borgogna dopo la morte del re Rodolfo III (6 sett. 1032). B., in tale circostanza, si distinse nella conquista del castello di Morat (vicino a Neuchâtel, cantone di Friburgo): qui si erano infatti asserragliate le ultime resistenze contro Corrado dopo la sua incoronazione a re di Borgogna avvenuta a Ginevra il 1º ag. 1034 (ne riferisce Donizone, Vita Mathildis, pp. 37-39). Tale campagna, preparata probabilmente nel convegno tenutosi a Ratisbona il 14 apr. 1034, ove non è documentato intervenisse B., fu una vera mobilitazione dei grandi ecclesiastici e laici del Regno: accanto a B. e ad Ariberto di Milano, i duo lumina regni, come dice il cronista milanese Arnolfo, in questa occasione, e ai signori dell'Esarcato, come Gebeardo di Ravenna, Ugo conte di Bologna - il Vicinelli vorrebbe che B. fosse stato alla guida anche dei contingenti bolognesi (Il passaggio, 1922, p. 79) - si trovò infatti anche il marchese Olderico Manfredi, attraverso i cui territori passò la spedizione intorno al giugno 1034, diretta al nord delle Alpi. Segno del successo d'una politica di forza che ora chiudeva a eventuali velleità autonomistiche italiche anche le frontiere occidentali, con l'acquisizione del regno di Borgogna.
In questi stessi anni B., oltre alla sua attività giurisdizionale - presiedette placiti a Codrea e a Ferrara nel marzo 1032 -, svolse anche un'intensa attività di espansione patrimoniale nella quale è da sottolineare non solo l'acquisizione di beni nell'ambito delle sue primitive circoscrizioni, in particolare nel Modenese (le corti cum castro di Chiagnano e Savignano, sul Panaro), ma anche la penetrazione nell'Appennino bolognese nella direzione di Firenze, in evidente relazione con la nuova dignità di marchese di Toscana. Si assicurò infatti nel marzo 1034 il possesso d'una serie di terre fortificate presso il passo della Raticosa (il castello e la corte di Scanello, di notevolissima estensione, il castello di Monterenzo), a difesa dei passaggi tra i suoi vecchi e i suoi nuovi domini (convenzione stipulata a Mantova con Magifredo, figlio di Ubaldo, degli Ubaldini del Mugello; cfr. per questi possessi Palmieri, Feudatari..., pp. 297-300).
Apertasi intorno al 1035 la grande crisi d'ordine politico-sociale-economico, che doveva turbare tutta l'Italia settentrionale negli ultimi anni del regno di Corrado, e che ebbe il suo epicentro in Milano, provocata dallo strapotere dell'arcivescovo Ariberto e della grande aristocrazia a lui legata; manifestatisi negli stessi anni nell'Italia centrale, a Firenze, i primi sintomi d'insofferenza contro la decadenza e la corruzione dell'alto clero e le prime iniziative per la riforma dei costumi ecclesiastici, B., attento all'una e agli altri, si pose ancora a fianco di Corrado.
La politica dell'imperatore, nel conflitto apertosi tra l'arcivescovo di Milano e la maggior feudalità a lui legata e i valvassori, desiderosi d'un inserimento nel sistema adeguato alla posizione di fatto raggiunta, si orientò da una parte verso il favore per questi ultimi, al duplice scopo di evitare lo sviluppo della loro agitazione in senso antimperiale e di diminuire l'autorità di Ariberto ormai pericolosamente preponderante nell'Italia settentrionale, dall'altra verso la repressione dei moti disordinati contemporaneamente verificatisi in numerose città italiane. Ciò non poteva che essere giovevole a B., il quale assisteva così al declino d'un suo pericoloso antagonista nella valle padana, alla repressione, che non sarà decisiva, di quelle forze vescovili che si erano portate, seppure in un secondo momento, e momentaneamente, al fianco di Ariberto, come i vescovi di Cremona e Piacenza, e di quelle forze cittadine che anelavano ad ottenere una loro piena autonomia. I provvedimenti che vennero presi poi da Corrado in Toscana, di rafforzamento da un lato delle forze ecclesiastiche istituzionali, ma anche di simpatia verso le forze desiderose di riforma, convenivano pienamente ad un B. legato alle une, ma non ostile alle altre, che per allora non si svolgevano su di un piano di contestazione generale.Così, nel luglio del 1036, B. si trovava insieme con l'arcicancelliere e il cancelliere per l'Italia, rispettivamente Pilgrim di Colonia e l'arcidiacono Ermanno, a Nimega ove, con ogni probabilità, fu discussa e organizzata la discesa di Corrado II nell'Italia turbata dalle agitazioni milanesi, che avvenne poi alla fine dell'anno. Probabilmente B. si trovò quindi presente alla dieta di Pavia (metà marzo 1037), ove vennero portate davanti a Corrado le accuse contro l'arcivescovo di Milano, in particolare dal vescovo di Cremona Ubaldo, e Ariberto fu arrestato e dato in custodia al patriarca di Aquileia, Poppone, e al duca di Carinzia e di Verona, Corrado. Generalmente si ritiene, per quanto la cosa non sia documentata, che B. abbia successivamente partecipato, accanto al vescovi di Pavia, Como, Novara, Bergamo, e ai "milites" della campagna lombarda, all'assedio posto dall'imperatore a Milano nel maggio del 1037, allorché, riuscito a sfuggire alla custodia, Ariberto era ritornato nella sua sede, ritrovando attorno a sé la solidarietà di una città colpita in modo inaudito nella persona del suo massimo rappresentante. Nel luglio del 1037 B. era certo a fianco di Corrado a Verona, ove il sovrano si era ritirato dopo il fallimento dell'azione militare - e c'è chi attribuisce all'abbandono dell'assedio da parte di B. la ragione principale di tale fallimento -, e dopo l'inane tentativo politico, mediante l'emanazione della Constitutio de feudis a favore della media feudalità (28 maggio 1037), di rompere l'unità ritrovata dalla popolazione milanese. Nel Natale dello stesso anno infine B. fu il braccio destro del sovrano nella repressione del tumulto che agitò Parma, come quelle città lombarde (Cremona, Piacenza), i cui vescovi avevano affiancato Ariberto nell'opposizione a Corrado II, e cercato un appoggio in Oddone di Champagne contro l'imperatore tedesco. È tuttavia probabile che la rivolta antimperiale di Parma, in particolare - ci è narrata da Donizone -, fosse soprattutto diretta contro il predominio vescovile nella città, accentuato proprio da Corrado con la concessione al vescovo della giurisdizione sull'intero comitato, elargita circa un anno prima, il 13 febbr. 1036 (cfr. Manaresi,Alle origini..., pp. 228, 249 n. 1, 332).
Al seguito, come sembra, dell'imperatore nel suo successivo passaggio in Toscana (febbraio-marzo 1038), diretto a Roma e nell'Italia meridionale, B. lo coadiuvò in un'abile politica di equilibrio in questa zona, ove erano cominciate a farsi vive, in modo anche violento, le esigenze d'un cambiamento nei decaduti costumi ecclesiastici: il tumulto avvenuto nel 1035 a Firenze, provocato dalle accuse di simonia lanciate contro il vescovo della città Atto e l'abate del monastero vescovile di S. Miniato Uberto da parte del futuro abate di Vallombrosa e ardente riformatore Giovanni Gualberto, ne fu uno dei sintomi più evidenti. Intensa fu infatti l'attività giudiziaria dei messi regi a favore degli enti ecclesiastici, senza particolare rilievo riformatore. Tra questi enti anzi si trovava il monastero di S. Miniato contro il cui abate si erano levate le accuse di simonia di Giovanni Gualberto, (placiti in Firenze, del 9 marzo ed 11 maggio 1038). A tale attività giudiziaria parteciparono spesso funzionari del governo marchionale e lo stesso B. favorì l'abate di S. Miniato, con la concessione della sua "mundeburdii pagina", più sopra citata, al monastero di S. Pietro a Ema (Firenze), a conferma della scelta dell'abate nella persona appunto di Uberto di S. Miniato (19 apr. 1038, da San Donato in Poggio, Val di Pesa). Tuttavia si trovano tracce numerose dell'interessamento, sia pure dovuto a ragioni di prudenza politica, che Corrado II, e con lui B. dimostrarono anche verso quei centri e quelle personalità che in Firenze si stavano muovendo nella direzione d'un rinnovamento della vita ecclesiastica. Alla canonica della chiesa cattedrale l'imperatore, su preghiera, tra gli altri, anche di B. "nostri fidelissimi marchionis", concesse un privilegio di conferma dei beni il 10 luglio 1037, da Verona. Alle preghiere dell'eremita Teuzo, amico e consigliere di Giovanni Gualberto, Corrado II si raccomandò nella donazione fatta alla badia di Firenze, il 22 0 23 luglio 1038. Al rifugio dello stesso Giovanni Gualberto, presso Vallombrosa, l'imperatore inviò il cluniacense Rodolfo vescovo di Paderborn. Inoltre significativa appare la partecipazione e il consenso dato, anche dal gastaldo marchionale e vassallo di B., Donato, alla donazione fatta il 5 luglio 1038 dalla badessa di S. Ilario, per la chiesa di Giovanni Gualberto, donazione di fondamentale importanza per l'ulteriore sviluppo dell'attività del santo riformatore.
In stretta relazione con la situazione del momento, e nel quadro della politica matrimoniale di cui anche si servì Corrado per dominare la turbata situazione del Regnum, legando tra loro famiglie della grande feudalità germanica e della grande feudalità italiana, va posto il secondo matrimonio di B., avvenuto in questi stessi anni, intorno al 1036-1037 o al 1037-1038 (l'ultima notizia di Richilde è del febbraio 1036, quando vendette in Gonzaga, nel comitato reggiano, una terra e una casa site in Mantova), con Beatrice di Lorena. Quest'ultima apparteneva a una delle più illustri famiglie dell'Impero - suo padre, Federico, era il duca dell'Alta Lotaringia, sua madre era Matilde figlia di Ermanno duca di Svevia - e, quello che più conta, era legatissima a Corrado II, dalla cui consorte, imperatrice Gisella, era stata adottata e allevata, una volta rimasta orfana in tenera età. Con questo matrimonio B. acquisiva legami e parentele a nord delle Alpi, come nello stesso tempo avveniva per le eredi di Olderico Manfredi e per l'obertengo Alberto Azzo II, le superstiti famiglie dell'aristocrazia italiana d'inizio secolo che ancora contavano, anche se non tutte allo stesso livello. Queste parentele, se non influenzarono in modo così determinante l'immediata azione politica di B., come è stato suggerito, ebbero certo peso negli ultimi anni della sua vita, ma soprattutto dopo la sua morte.
L'allontanamento di Corrado II dall'Italia prima (settembre 1038), la sua scomparsa poi (4 giugno 1039); il lungo disinteresse per le cose italiane del successore di Corrado, Enrico III, che scese nella penisola solo ai primi di ottobre del 1046; la contemporanea crisi del potere a Milano, ove l'arcivescovo Ariberto non aveva più ripreso il dominio della situazione, assunto piuttosto dalle altre forze della nobiltà cittadina; tutti questi elementi concorsero a creare una situazione politica nuova in Italia, che B. cercò di sfruttare a suo vantaggio. È da far risalire infatti agli anni precedenti alla prima discesa di Enrico III in Italia il tentativo da parte di B. di un'azione "propria", più autonoma, intesa non già alla conquista della corona d'Italia, come pure è stato prospettato, o ad una cosciente e voluta opposizione antitedesca, ma più realisticamente al rafforzamento della sua posizione, sia mediante un'ulteriore intensa attività patrimoniale, sia mediante una politica di buoni rapporti e di legami con quegli ambienti romani e meridionali, contro i quali doveva orientare poi la sua opera il nuovo re.
È da pensare che una ulteriore spinta a questa nuova, più autonoma politica sia stata data a B. dalla situazione "interna" dei territori di sua giurisdizione che doveva governare senza difficoltà. Èda notare infatti che negli anni delle grandi perturbazioni di origine politico-sociale ed economica, anni nei quali B. diede un notevole apporto alla loro repressione militare e politica, non si ha notizia di analoghi turbamenti nei territori canossiani a nord dell'Appennino, i più direttamente vicini ai focolai di agitazione. Gli stessi interventi regi in questa zona canossiana, gli unici di quegli anni, a favore della Chiesa di Mantova 31 marzo 1037)e della Chiesa di Brescia (15 luglio 1037), quest'ultimo tuttavia assai discusso (il Manaresi, Alle origini, pp. 319 s., ritiene il privilegio di Corrado II del tutto falso; il Bosisio, Il Comune, pp. 572 s., interpolato), se possono essere visti anche come spie dell'insofferenza nutrita dal ceto episcopale nei confronti di B., e di una sua ricerca di tutela, in realtà, tuttavia, non portarono allo scoppio di aperti dissidi né ebbero in seguito ulteriore sviluppo. Anche qui la mancanza di studi particolari, se si eccettuano quelli del Torelli per il Mantovano, non offre la possibilità di ipotesi sicure. Tuttavia si può pensare che questa situazione "tranquilla" sia il segno non tanto di un appoggio dato da B. alle classi feudali minori e cittadine, causa prima di ogni agitazione, per poterle sfruttare ai propri fini di potenza, cosa di cui non abbiamo prove sicure (cfr. Gualazzini, Per la storia..., p. 80;Violante, Aspetti..., pp. 168-170, 171, 303, ove si parla d'un tale appoggio in funzione antivescovile e anticomitale, contro visconti e capitanei in Emilia e Lombardia), quanto piuttosto d'una diversa situazione sociale e politica presente in queste zone. La feudalità era soprattutto legata a B; alla feudalità episcopale, che si raggruppava nelle città, lo spazio politico per muoversi, se avesse voluto, e se lo avesse voluto il vescovo, era sottratto dal costante e innegabile appoggio dato sempre dagli imperatori a B. e dai legami tra i vescovi e gli imperatori.
Ricordiamo che solo Brescia era diocesi dipendente dall'arcivescovo di Milano: gli altri comitati canossiani dipendevano ecclesiasticamente o dal patriarcato di Aquileia (Mantova) o dall'arcivescovo di Ravenna (Modena, Reggio Emilia e Ferrara), sedi che furono, come è noto, sempre strettamente controllate dagli imperatori (cfr. Torelli, Un Comune, I, pp. 733-79, 137 s., 139-144 s., 203-205, 207, per quanto riguarda il territorio mantovano, con accenni ai territori di Modena e Reggio e anche di Brescia. Ivi è sottolineata l'opera di concentrazione in mani canossiane del patrunonio terriero, sottratto soprattutto a mani ecclesiastiche, e la sua subinfeudazione: v. anche l'elenco dei vassalli matildici, parte dei quali da far risalire certo all'età di Bonifacio).
Significative voci si levarono infatti contro l'attività del marchese di Toscana, soprattutto da parte del vescovo di Cremona Ubaldo, al convegno dei signori italiani che si tenne il 2 febbr. 1040 ad Augusta, per trattare de reipublicae stabilitate. Queste voci infatti indicavano in B., come in Ariberto di Milano, il principale perturbatore della pace del regno; erano dunque l'indizio evidente di una sua attiva presenza in Italia settentrionale all'indomani della morte di Corrado, in modi non meglio precisabili, ma certo concorrenti e dannosi agli interessi di quanti predominavano nelle zone verso cui operava evidentemente la sua espansione. Meno probabile che B. agisse coscientemente contro il re tedesco, o addirittura in direzione della corona regia. Se infatti le lamentele innalzate dal vescovo cremonese non mancarono di avere un'eco presso alcuni membri della corte di Enrico III, ai quali da alcuni studiosi fu attribuito, con valide ragioni, il proposito di voler procedere ad una drastica riduzione delle giurisdizioni di B., di fatto nessun provvedimento venne preso, per quanto potesse essere richiesto, ai danni del marchese di Toscana. Ciò può essere sì spiegato con il prevalere alla corte regia di altri interessi e preoccupazioni - grande era la pressione di Boemi e Ungheresi alle frontiere orientali del regno di Germania - con la grande potenza di B., osteggiare la quale avrebbe potuto avere delle conseguenze in Germania, a causa dei legami al di là delle Alpi acquisiti dal marchese di Toscana con il secondo matrimonio, ma anche con la considerazione che B. non doveva essere considerato ostile e veramente pericoloso per la politica tedesca in Italia.
Tale è l'interpretazione che è stata data invece dal Gualazzini (Per la storia, pp. 79 ss.), sostanzialmente poi seguito dal Violante (cfr. Aspetti..., pp. 170-171), ad un diploma che dovette essere presentato da Ubaldo vescovo di Cremona, con l'appoggio di Brunone vescovo di Würzburg e di Ermanno di Colonia, competenti di cose italiane, appunto ad Augusta. Con questo diploma, che non fu mai esecutivo, Enrico III avrebbe dovuto assegnare all'episcopato cremonese, per risarcirlo delle molte calamitates subite "non solum ab exteris sed etiam a domesticis nec non pro regni perturbatione", il districtum dell'isola Fulcheria, l'attuale Cremasco, nel comitato bresciano, "sicut tenuit Bonefacius". Si può aggiungere a quanto osservato più sopra che B. non ebbe bisogno di ricorrere a Enrico contro la minaccia di una tale confisca, e di rassicurarlo sulla sua fedeltà, come dovette fare invece l'arcivescovo di Milano Ariberto, sotto un'analoga minaccia, portata anche a lui dal vescovo di Cremona, recandosi ad Ingelheim il 6 apr. 1040 (cfr. Violante, Aspetti..., pp. 166 s., 172), segno evidente d'una diversa posizione dei due accusati rispetto al re tedesco.
Questa valutazione sembra confermata dall'esame degli interventi di Enrico in zona canossiana negli anni immediatamente successivi, che videro nuovamente in primo piano Milano, ove nel 1042 nuove agitazioni avevano condotto alla cacciata dei nobili dalla città da parte dei "cives": i privilegi concessi al monastero di Leno di Brescia (29 nov. 1043) e al monastero di S. Miniato di Firenze (30 nov. 1043); la presenza del messo regio Adalgerio in territorio mantovano col suo unico placito tenuto a Marengo il 6 luglio 1043, ma a favore d'un monastero pavese, S. Pietro in Ciel d'Oro (la missione di Adalgerio in Italia ebbe per oggetto soprattutto la soluzione del problema milanese); il semplice diploma di conferma per la Chiesa di Mantova concesso nei primi mesi del 1045 ad Augusta al nuovo vescovo di quella città, Marciano, probabilmente in rapporto alla sua nuova nomina; sono tutti elementi questi che non possono essere interpretati in modo molto diverso da atti di ordinaria amministrazione o di ricognizione della situazione, come nel caso della missione di Adalgerio.
Anche le relazioni che B. dovette allacciare con gli ambienti romani, come gli avvenimenti successivi dimostrano, e con quelli meridionali a loro collegati, come è esplicitamente testimoniato dalle fonti, sono segno significativo della sua opera di rafforzamento personale attenta alle occasioni che le circostanze gli potevano offrire nelle incertezze di una situazione e delle reali intenzioni di Enrico, non sufficientemente espressesi prima della sua discesa in Italia; meno probabilmente sono collocabili nel quadro d'uno schieramento antitedesco svolgentesi tra Toscana, Roma e Salerno.
Le relazioni con gli ambienti romani dovettero risalire al momento in cui Benedetto IX, pontefice dei Tuscolani, la famiglia predominante in Roma, e fedele interprete della politica tedesca fin dall'età di Enrico II, assunse atteggiamenti meno passivi, e rivendicò di fatto una sua autonomia di azione in Italia, nel desiderio forse di recuperare a Roma quelle forze che la scomparsa di Ariberto e la lontananza del re avevano reso disponibili. È da pensare quindi che Benedetto IX in rapporto e a sostegno di questo nuovo atteggiamento - ebbe come suo primo segno l'accoglimento delle richieste di autonomia fatte da Grado di fronte al patriarcato di Aquileia (sinodo del settembre 1044, cfr. O. Capitani, Benedetto IX, in Diz.Biogr. d. Ital., VIII, pp. 361 s.) - chiedesse e ricevesse da B., suo potente confinante, appoggi a entrambi convenienti. È assai probabile, inoltre, che per il tramite della famiglia tuscolana B. venisse a contatto con il potente principe di Salerno Guaimario - un suo fratello, Pandolfo, aveva sposato una nipote di Benedetto IX -, e con lui stringesse quella "amistié caritative et ferma unité", testimoniataci da Amato di Montecassino (Storia de' Normanni, l. II, c.XXXV, p. 103. Il Falce, Bonifacio, II, pp. 100-102, data questa alleanza ai primi mesi del 1047, durante, quindi, la prima discesa di Enrico III in Italia, e con lui il Grimaldi, La contessa Matilde, p.156 n. 1. Tuttavia il contesto di Amato non sembra che possa far ammettere tale interpretazione: il protagonista del racconto di Amato è infatti Guaimario nel momento della sua massima potenza e di pieno accordo col re di Germania, in un momento quindi precedente alla discesa di Enrico III. Cfr. anche la nota 2, loc. cit., dell'editore di Amato, De Bartholomaeis). Non è documentato tuttavia che B. intervenisse nelle vicende romane che seguirono immediatamente la presa di posizione di Benedetto IX, e che videro dapprima la cacciata del papa tuscolano (settembre 1044), l'elezione d'un nuovo pontefice, Silvestro III, il rapido rientro in sede di Benedetto IX (10 marzo 1045), la sua rinuncia al trono pontificio a favore di Giovanni Graziano, che assunse il nome di Gregorio VI, legato alla famiglia tuscolana e suo lontano parente, il 10 maggio del 1045. Si può comunque pensare che B. non vedesse senza simpatia la nuova situazione instauratasi a Roma con l'elevazione al trono pontificio d'una personalità assai nota in certi ambienti toscani, e che negli atti del suo breve pontificato si rivolse, e fu ascoltato, a personaggi e centri assai vicini a Bonifacio. Lamberto diacono e canonico di Lucca "noster fidelis" (nov. 1045); Rolando preposito della canonica di Firenze, verso cui il nuovo pontefice aveva debiti di riconoscenza per aiuti ricevuti (18 febbr. 1046); il monastero di S. Sepolcro di Arezzo, sono infatti i beneficiari delle bolle di Gregorio VI. Adalfredo, vescovo di Bologna, Guido abate di Pomposa datano i loro atti con gli anni di Gregorio VI (rispettivamente agosto 1045, 2 nov. 1045; cfr. Davidsohn, Storia di Firenze, I, p. 279; Borino, L'elezione, p. 329 e passim, il quale attribuisce a questi gruppi collegati B.-Tuscolani-Guaimario di Salerno una cosciente azione politica antienriciana).
Di particolare interesse infine in questi anni cruciali ed in diretto rapporto con le sue ambizioni è l'azione patrimoniale di B. che si concretò, significativamente, con l'acquisizione di ampie corti, generalmente cumcastro, nelle zone dei passaggi verso la Toscana, nell'Appennino modenese, reggiano e parmense (17 sett. 1038, 18 febbr. 1039, 14 maggio 1044), nella Bassa veronese (29 sett. 1042), lungo il Po in zona reggiana e il Mincio in zona mantovana (14 maggio 1044), e infine nel Lucchese, sulla via per Roma (14 giugno 1044).
Forte e risoluta si rivelò invece l'azione di Enrico III allorché oltrepassò le Alpi ai primi di ottobre del 1046, deciso a riprendere in mano la situazione in Italia a tutti i livelli nell'ambito così politico come religioso, in un momento in cui si era pericolosamente accresciuto il potere di B., e andavano prendendo una loro fisionomia autonoma le forze raggruppate intorno al nuovo papa, che con Enrico era sinceramente desideroso di un rinnovamento della vita della Chiesa, ma fatalmente limitato nella sua azione dalla base "romana" su cui doveva agire. Enrico III operò per affermare la propria autorità nei modi che la situazione oggettiva gli permetteva di fare: agendo dapprima direttamente nella direzione dei vescovi, e del centro di potere da loro rappresentato, cui era legato strettamente in modo complesso e multiforme anche il potere "laico" del suo Regnum, con una più chiara e rigida presa di posizione contro la simonia e i dissipatori del patrimonio ecclesiastico (canoni del concilio di Pavia dell'ottobre 1046, per il quali cfr. Capitani, Immunità…, pp. 52-74; per la novità nell'atteggiamento verso la simonia, pp. 75-84). Agì al vertice del mondo ecclesiastico, con la liberazione di questo centro di potere dalle famiglie romane e dalle forze ad esse legate: procedette, come è noto, a deporre Gregorio VI, Silvestro III (Sutri, 20-23 dic. 1046) e Benedetto IX (Roma, 23-25 dic. 1046), e a far consacrare papa, col nome di Clemente II, il fedele Suidgero di Bamberga (cfr. Capitani, Immunità..., pp. 84-113, ma specie 111-113; attribuiscono un unitario e consapevole programma politico-religioso ad Enrico, Violante, Aspetti,passim; di pura presa di potere politica, ove l'interesse di riforma religiosa è del tutto secondario, Borino, L'elezione…, passim). Enrico III completò quindi l'opera non solo facendosi incoronare imperatore e nominare Patricius Romanorum, ma conducendo una lunga guerra contro i Tuscolani nei loro castelli (gennaio 1047), e, disceso nell'Italia meridionale, limitando gravemente il potere di Guaimario di Salerno, che privò di Capua.
Questi orientamenti e queste decisioni non potevano non fare di B. un sospetto. B. probabilmente scortò il sovrano lungo le tappe del suo itinerario italiano (cfr. Falce, Bonifacio, I, pp. 173-176, 252-255, per il conductus spettante al marchese di Toscana) e fu con lui probabilmente a Piacenza (primi dell'ottobre 1046), certo a Roma (23-25 dic. 1046) e a Mantova (19 apr.-2 maggio 1047), sulla via del ritorno in Germania. Ma innegabilmente il sovrano diffidava ormai della potenza di questo suo marchese. Assai probabilmente meditò di deporlo dalle sue cariche, anche se non ebbe il coraggio o la forza di farlo (il Borino parla appunto di "mancata deposizione", in confronto di quelle effettivamente operate, L'elezione..., pp. 343-345). È quanto si può ricavare sui rapporti tra l'imperatore e B., al momento della sua discesa in Italia, da una serie di episodi narrati da Donizone (Vita Mathildis, pp. 39, 40, 41 s.), che, pur nella loro intonazione leggendaria e nelle amplificazioni retoriche proprie del monaco di Canossa, sono significative dell'animus del re nella constatazione diretta delle ricchezze del marchese, e della sua volontà di eliminarlo con la forza. Ma gli episodi raccontati da Donizone attestano anche la capacità di B. di far fronte, con la scorta dei suoi vassalli, ai propositi nascosti del re.
La sostanziale verità storica del proposito anticanossiano testimoniataci dal racconto donizoniano, è confermata non tanto dall'attività dei messi regi in territorio toscano, certo in relazione con la presenza dell'imperatore in Italia, ma non di rilevante interesse ai fini dei rapporti con B. - i loro placiti sono anzi in numero inferiore rispetto a quelli tenuti sotto Corrado II -, quanto dal diploma emesso a favore del vescovo di Ferrara Rolando il 27 apr. 1047: con esso infatti Enrico III concedeva ampie esenzioni dall'autorità comitale a sostegno del patrimonio ecclesiastico "rectorum desidentia ac malefactorum longo tempore amissa".
Appunto la decisione mostrata da Enrico in questo suo primo contatto con la realtà italiana, e forse il timore che potesse essere materia di concreta attuazione anche il primo canone del concilio pavese che vietava "libellaria, precarias et commutationes rerum ecclesiasticarum, "nisi cum utilitate ecelesiarum" a favore dei beni ecclesiastici "iniquorum nostrorum hominum opera fraude et astucia fere omnino" "dissipatas", dovettero portare B., di cui erano chiare le collusioni, forzate o interessate, col ceto episcopale su questo piano - e tutti i vescovi della sua marca a settentrione dell'Appennino si trovavano presenti al concilio di Pavia -, e che aveva già constatato l'ostilità nutrita da Enrico nei suoi confronti, su posizioni di aperto dissidio con l'imperatore e di disubbidienza, nella speranza, evidentemente, di ripristinare in Roma una situazione di minor favore per l'attuazione dei propositi politico-religiosi dimostrati da Enrico. Ed in questo momento certo egli agì in accordo con quanti, più apertamente di lui, avevano già subito i provvedimenti del sovrano, e con quanti, all'interno, potevano essere danneggiati dalla politica di Enrico.
Allorché infatti a Pesaro venne a morte Clemente II (9 ott. 1047), B., in accordo con i Tuscolani, e spregiando il diritto dell'imperatore alla scelta del successore, aiutò il papa tuscolano, già deposto, a tornare a Roma - qui Benedetto IX è testimoniato dal 1º novembre -, contando, per la riuscita di questa impresa, anche sull'appoggio di Guaimario di Salemo, il cui ritorno offensivo sotto le mura di Capua dovette avvenire in questo stesso tempo. Più dubbia l'ipotesi di un'azione concordata anche con gli avversari tedeschi di Enrico che dal giugno 1047, e specie per opera di Goffredo il Barbuto, il parente lorenese della consorte di B., mettevano a ferro e a fuoco la Lorena giungendo a saccheggiare Verdun nell'ottobre 1047 (per questa ipotesi v. Falce, Bonifacio..., I, pp. 151, 174-202; e M. G. Bertolini, Beatrice di Lorena, in Diz. Biogr. d. Ital., VII, pp. 352-363). Non vi sono infatti indicazioni positive al riguardo. È certo comunque che comune era l'obiettivo di questi sommovimenti, e dei loro protagonisti (al riguardo vedi Adam Bremensis, Gesta..., l. III, cap. XXXI, pp. 173 s.), e che l'impegno armato dell'imperatore oltralpe dovette essere fattore decisivo ai fini di porre in atto un'azione di aperta ribellione, tendente a ristabilire lo status quo a Roma e a spezzare i legami appena stretti di dipendenza del Papato dall'Impero.
B. infatti oppose un netto rifiuto all'ordine di Enrico di accompagnare a Roma il nuovo eletto dell'imperatore era il vescovo di Bressanone Poppone recatosi a questo fine da lui, giustificando il suo diniego con la motivazione che "Romani papam reduxerunt et potestatem quam prius habuit recepit et omnes pacificavit in se" (AnnalesRomani, p. 333); mentre da parte sua Benedetto IX ricominciò a segnare i suoi documenti con il primo anno del suo pontificato. Poppone, che aveva assunto il nome di Damaso II, dovette tornare in Germania.
Di breve durata fu però la ribellione del marchese, e per numerose e ben motivate ragioni. Minacciato infatti duramente da Enrico in caso di ulteriore disprezzo dei suoi mandati - la lettera che, secondo il redattore degli Annales Romani, l'imperatore avrebbe inviato a B. prospettava una sua immediata discesa nella penisola, -; constata la impossibilità di sostenere a lungo una posizione di forza con prospettive di successo senza adeguati appoggi esterni Guaimario di Salerno ben presto si era accordato con Pandolfo di Capua, le forze tuscolane erano assai limitate -, e senza certezze nella necessaria compattezza interna - i molti motivi di attrito all'interno dei domini canossiani potevano essere assorbiti solo nell'ambito d'una politica d'accordo con l'Impero, come ben si vide alla morte di B. -, il realista marchese canossiano non insistette nel suo atteggiamento, ed eseguì gli ordini ricevuti. B. "per suum legatum" fece scacciare Benedetto IX, che così scompariva definitivamente; accompagnò quindi il papa Damaso a Roma, e, "ex parte" di Enrico, lo intronizzò: il 17 luglio 1048 Damaso II era consacrato papa (Annales Romani, p. 333; Bonizone, Liber ad amicum, p. 587).
È forse da porre in questi anni di disordini aperti, in rapporto con l'azione "ribelle" di B., l'occupazione violenta da parte del marchese e dei suoi vassalli di alcune importanti zone nella bassa pianura veronese ai danni del monastero di S. Zeno di Verona, come Bonferraro, a rafforzare la già posseduta linea Mantova, Nogara, Cerea, Trevenzuolo e Ronco d'Ostiglia, fra Po, Tione e Tartaro (diploma di Enrico III per il monastero di S. Zeno, 11 nov. 1055; per le località cfr. Mor, Verona..., pp. 202 s.). E in una lettera scritta a B. "praecellentissime domine" da Pier Damiani, certo in relazione a una spedizione armata (si pensa o alla scorta fatta da B. ad Enrico, di ritorno dall'Italia meridionale, verso l'aprile 1047, o all'appoggio dato a Benedetto IX, ma anche, si può credere, alla scorta fatta a Damaso II), risaltano la sua immagine di magnifico principe temporale, che "sub suis pedibus" fa tremare la terra, e la violenza della sua "exercitus multitudine", contro cui Pier Damiani prega appunto il marchese di voler intervenire (cfr. per le datazioni, Falce, Bonifacio, II, n. 53, pp. 110-111; il Dressler, Petrus Damiani, p. 239, dà gli estremi cronologici tra l'aprile 1048 e il 6 maggio 1052).
Durante i pochi anni decorsi dall'effimero tentativo di ribellione alla sua morte violenta, sembra che non vi siano stati ulteriori aperti urti tra Enrico III e B., accomunati ad esempio dalla tradizione nel ritrovamento del sangue di Cristo a Mantova, se è di questi anni (cfr. Falce, Bonifacio, II, n. 58, pp. 118-122, per questa tradizione, comunque confusa e piena di incongruenze cronologiche). È un periodo che si considera dominato da un progressivo avvicinamento, addirittura una "conversione" del marchese di Toscana, sotto l'influenza specialmente della consorte Beatrice, alle nuove correnti ecclesiastiche anelanti al rinnovamento della vita della Chiesa, definitivamente affermate a Roma con l'introduzione del lorenese Brunone, vescovo di Toul, alla cattedra di Pietro, col nome di Leone IX (12 febbr. 1049), e con la comparsa al suo fianco di quelle personalità, del tutto staccate dal passato ambiente romano, come Pier Damiani, Umberto di Silvacandida, Federico di Lorena, che dovevano dominare e orientare la Chiesa nei decenni a venire.
Significative sono le testimonianze delle relazioni che cominciarono a intercorrere tra il nuovo pontefice e B., e certo facilitate dalla comune parentela tra Leone IX e Beatrice di Lorena. B. insieme con Beatrice è infatti presente a Pavia in occasione del sinodo ivi celebrato dal pontefice nel maggio del 1049, per una prima presa di contatto con il clero settentrionale; e qui Leone IX rilasciò, dietro richiesta del marchese "Sancti Petri nostrumque fidelem", e della consorte "neptem nostram", la conferma di una bolla di Adriano I, certo falsa, a favore del monastero di Nonantola, soprattutto per difesa dal vescovo di Modena (è stata messa in dubbio o addirittura negata l'attendibilità di questo atto di conferma, ma cfr. Falce, Bonifacio, II, n. 60, pp. 124 ss.). A B., probabilinente dietro consiglio di Leone IX, al cui seguito era venuto insieme con Federico di Lorena suo fratello, porge nobile obsequium illorenese Goffredo il Barbuto, il protagonista dei numerosi tentativi di opposizione ad Enrico, di cui aveva ottenuto il perdono "opitulante papa" (Leone IX). Anche Leone IX, infine, partecipò, insieme con B., Enrico III e Beatrice, al ritrovamento del sangue di Cristo a Mantova, di cui si è detto più sopra.
Tuttavia queste testimonianze sono da valutarsi più in un ambito di politica generale, come risposta positiva a una ricerca di appoggi che il pontefice svolgeva in Italia nei primi anni del suo pontificato, che come adesione "interna" e fattiva di B. anche al programma riformistico di cui Leone IX e il nuovo ambiente romano erano i rappresentanti. Assai dubbie sono infatti le testimonianze di iniziative del marchese che diversifichino in questo senso la sua azione rispetto al passato, e prese comunque, cosa da sottolineare, in quella zona toscana già percorsa da lungo tempo da nuove correnti che, prive di aspetti di aperta contestazione, già nel passato non erano state certo ostacolate da Bonifacio. Le iniziative si riducono infatti alla nomina, di Maurilio - nativo di Reims, ma che da tempo viveva in Toscana un'esperienza erenutica, dopo aver compiuto i suoi studi a Liegi ed essere stato monaco a Fécamp - ad abate del monastero di S. Maria di Firenze (badia fiorentina), perché ne riordinasse la vita e ne riformasse i costumi, sempre che la nomina stessa sia da porsi in questi anni come vuole il Falce (Bonifacio, II, n. 73, pp. 139-149) sulla base d'un orientamento riformistico di B. negli ultimi anni della sua vita.
Non sembrano poter dare maggiori indicazioni al riguardo né il ricordo del marchese nella dispositio d'una restituzione di beni fatta dal vescovo di Fiesole Atinulfo l'8 giugno 1051, per imposizione di Leone IX, alla badia fiesolana; né, il confirmationis praeceptum rilasciato da B. a favore del monastero di S. Bartolomeo di Pistoia su richiesta del vescovo di Parma Cadalo - il monastero era dipendente dal monastero di S. Giovanni Evangelista di Parma. Il primo atto sembra infatti piuttosto da mettere in relazione con i rapporti già testimoniati nel passato tra il vescovo di Fiesole ed il marchese di Toscana, e il secondo con gli ottimi rapporti che intercorsero tra Cadalo, e in genere i vescovi di Parma, e Bonifacio. D'altra parte quest'ultimo sembra del tutto assente durante l'importante soggiorno fatto da Leone IX in Toscana nell'estate del 1050, e nei documenti emanati dal papa a favore dei monasteri locali in questa occasione (cfr. Davidsohn, Storia di Firenze, I, pp. 277, 279); e del tutto assente in un'attività di tipo "riformistico", nelle circoscrizioni a nord dell'Appennino, zona assai più significativa per questo riguardo di quella toscana: in queste circoscrizioni anzi B. continuò la sua opera di arricchimento patrimoniale a spese di enti ecclesiastici, acquisendo intorno al 1049 dal monastero di S. Silvestro di Nonantola, mediante precaria, la corte di Quarantola e il castello di Mirandola (comitato di Reggio), sulla direttrice Verona, Mantova, Modena. Probabilmente ancora agli ultimi anni della sua vita sono da porsi le violenze fatte al vescovo Marciano di Mantova, cui B. "abstulit" numerosi beni nel Mantovano, tra Zara e Lirone, ed ai suoi "homines", che abitavano "extra civitatem" "in burgo", per porli "ad suum servicium" (Breve recordationis, del vescovo Ubaldo di Mantova, circa 1077-1091; cfr. Torelli, Un Comune..., I, pp. 13, 206; Marciano divenne vescovo di Mantova nel febbraio dell'anno 1045).
Alla consorte di B. si può attribuire un atteggiamento diverso: ad essa infatti la tradizione attribuisce la costruzione del monastero di S. Tecla a Cremona, e fu lei a sollecitare il 19 luglio 1050 da Leone IX la concessione della protezione apostolica al monastero di S. Salvatore dell'Isola (diocesi di Siena).
B. non poté portare a termine il voto, che, secondo quanto narra Donizone, aveva fatto un anno prima della sua morte, di espiare i propri peccati con un pellegrinaggio in Terrasanta, voto forse ispiratogli dall'abate di Pomposa Guido (morto nel 1046), e per adempiere il quale aveva già ordinato la costruzione di una nave (Vita Mathildis, pp. 43 s.): il 6 maggio 1052 infatti B., "heu senex ac plenus dierum", veniva ucciso a San Martino dell'Argine, mentre si trovava a caccia. Meno di due mesi prima, il 29 marzo 1052, risiedendo a Mantova, nel suo "palacio", aveva stipulato una "promissionis cartula" a favore del monastero di S. Giulia di Brescia per le corti di Sermide e Miliarino, ultimo documento relativo a Bonifacio. Lasciava tre figli in tenera età: Federico, detto anche Bonifacio nelle fonti, Beatrice e Matilde.
È da escludere che la eliminazione violenta del marchese canossiano sia stata motivata da una vendetta privata, come vogliono alcuni epitomatori di Donizone, che precisano anche il nome dell'uccisore: Scarpetta de' Canevari di Parma. È piuttosto da pensare all'eliminazione di B., "ditissimus marchio Italiae, immo tyrannus", come l'esito violento dell'insofferenza che il suo duro governo e il suo rigido controllo sulle altre forze interne dovevano aver suscitato, insofferenza spinta a manifestarsi anche dalle ultime, meno felici, iniziative di B. contro il re. Si è infatti anche supposto che alla sua eliminazione istigassero quanti, all'esterno, avevano interesse alla sua sparizione, come Enrico III stesso.
È da notare che solo alcune fonti tedesche, come gli Annali di Altaich ed Erimanno di Augia, danno precise indicazioni d'un agguato di "milites"; Lamberto di Hersfeld, Bonizone di Sutri e Donizone non parlano di morte violenta (cfr. Falce, Bonifacio, II, n: 82, pp. 151-156, ove sono elencate le fonti relative. Il Falce ritiene che né Enrico III, né Goffredo il Barbuto, che, subito dopo la morte di B., sposò la vedova Beatrice, siano stati estranei a questa morte, mentre ritiene, a ragione, scarsamente provata l'ipotesi fatta dal Dupréel, Godefroid le Barbu, pp. 61-62, 128-129, che proprio Goffredo il Barbuto sia stato l'istigatore dell'assassinio).
Generalmente si ritiene che B. sia stato sepolto nel duomo di Mantova, ove aveva fatto costruire un altare per la sepoltura dei figli, ma non per la propria, come inesattamente anche si dice (donazione di B. ai canonici della cattedrale di Mantova, 22 sett. 1045; cfr. Simeoni, Le tombe, pp. 370 ss.).Tuttavia un documento di Matilde del 3 apr. 1115 testimonia che, almeno in quell'anno, il sepolcro di B. si trovava nella chiesa di S. Michele di Mantova e che questa chiesa era stata da lui in maniera particolare amata e dotata (Torelli, L'archivio capitolare..., n. XIV, pp. 21 s.).
All'interno delle sue giurisdizioni il governo di B. fu duro ed energico. Esercitò un "regolare dominio" nelle "forme suggerite dai resti superstiti dell'ordinamento pubblico", come ebbe a dire il Tabacco in generale della famiglia canossiana per il Mantovano e il Ferrarese (I liberi..., p. 181), con i tradizionali abusi e arbitri.
Per quanto infatti non sia molto documentata la sua attività giurisdizionale nei territori a nord dell'Appennino, ove la sua sede preferita fu, a quanto pare, Mantova (placiti a Carpi, comitato di Reggio, il 30 Sett. 1001; a Spilamberto, comitato di Modena, il 18 giugno 1051; a Ferrara, il 14 dic. 1015; a Codrea-Ferrara, nel marzo 1031 e il 16-18 marzo 1032), risultano tuttavia particolarmente significative a questo proposito le violazioni dei tradizionali privilegi ed esenzioni da B. operate ai danni dei "cives mantuani", che sottopose a "diuturnas oppressiones", "superstitiosas exationes et importunas violentias" (diploma di Enrico III del 3 nov. 1055: le formule sono quelle tradizionali usate per indicare gli abusi dei pubblici ufficiali, cfr. Colorni, Il territorio..., p. 46 n. 26), e i probabili abusi negli obblighi e gravami relativi al placito pubblico imposti ai Ferraresi, placito che si doveva svolgere con la periodicità prevista dai capitolari (cfr. le minuziose prescrizioni precisate dal diploma concesso da Enrico III "universo populo Ferrariensi" nel 1055; le osservazioni sono del Tabacco, I liberi..., p. 185). Analoghe testimonianze vi sono per la Marca toscana, ove tuttavia vigoroso era per tradizione il governo marchionale. Pressoché ininterrotta infatti è qui l'attività giurisdizionale o diretta di B., o mediante suoi funzionari. Anche qui numerosi gli arbitri e gli abusi: a Lucca, ove B. impose "duriter" "consuetudines perversas", o per lo meno le conservò, se queste furono introdotte non da lui, ma dal suo omonimo predecessore nella Marca toscana, ne distrusse le mura e ne depredò i beni (diploma di Enrico IV per i Lucchesi, 23 giugno 1081, in Rangerio, Vita Anselmi episcopi Lucensis, cfr. Falce, Bonifacio, II, n. 82, p. 162); a Pisa, ove anche all'età di B. si riferiscono l'imposizione di gastaldi forestieri, l'incarcerazione dei cittadini senza giudizio legale, l'intervento nelle contrattazioni matrimoniali, le tasse arbitrarie (diploma di Enrico IV per i "Pisanae urbis civibus", luglio 1081). A Firenze fu imposto come gastaldo un vassallo marchionale, seppure non forestiero, Donato, capostipite della poi illustre famiglia dei Giandonati (Davidsohn, Storia di Firenze, I, pp. 287-289; Id., Forschungen..., I, pp. 42 s.). A Volterra, anche se non fu l'istigatore, B. non fece nulla per impedire le violenze fatte dal conte locale e dai suoi funzionari alla Chiesa di quella città (diploma di Enrico III per la Chiesa di Volterra, 17 giugno 1052, cfr. Falce, Bonifacio, I, p. 271; II, n. 82, p. 160; Volpe, Vescovi e Comune, p. 150).
In un secolo che vide la crisi definitiva degli ordinamenti tradizionali - se mai questi ebbero quella efficienza che una tradizione storiografica, soggetta ormai a profonda revisione, credette di affermare - questo caso è forse unico, reso possibile, tra l'altro, anche dal forte insediamento con beni e castelli operato da B. nei suoi comitati. Tipica, a questo proposito, la diversità del comportamento del marchese canossiano nei confronti degli enti ecclesiastici, tra i principali responsabili dell'erosione dell'ordinamento stesso, con i loro vasti possessi, e relative esenzioni e privilegi, nell'Italia settentrionale rispetto alla Marca toscana, ove questi erano stati assai meno favoriti nel passato.
Nella vecchia Marca canossiana infatti i numerosi rapporti di B. con i vescovi furono soprattutto dovuti a operazioni di carattere patrimoniale portate a termine a tutto vantaggio di B.: vittime consenzienti o no, taluni certo no, furono i vescovi di Mantova Ittolfo e Marciano, i vescovi di Modena Warino, Ingone e Wiberto, il vescovato di Reggio, per il quale vi è un lunghissimo elenco di beni passati a vario titolo a B., compilato qualche decennio dopo la morte del marchese (ed. Muratori, Antiquitates Italicae, III, coll.183-184; cfr. Falce, Bonifacio, II, n. 81, pp. 146-151), e, fuori della sua marca, e seppure in minore misura, il vescovo di Cremona Landolfo e i canonici di Parma. L'unica donazione a noi nota fatta da B. a una chiesa cattedrale, quella del 22 ott. 1045 per la Chiesa di Mantova, fu dovuta a una ragione molto particolare, l'erezione d'un altare come sepolcro per i figli.
Tutt'altro quadro nella Marca toscana, ove B. non ebbe alcun rapporto di natura patrimoniale con gli enti ecclesiastici locali, per quanto risulta, ma compare come il loro "protettore". Il suo nome è ricordato nella dispositio di vari documenti dei vescovi Lamberto e Atto di Firenze, Iacopo il Bavaro e Atinulfo di Fiesole (rispettivamente a favore del monastero di S. Miniato di Firenze, per i canonici di Fiesole e per la badia flesolana); B. opera a favore dei canonici di Firenze (interveniente nel diploma concesso da Corrado II ai canonici il 10 luglio 1037); numerosi i placiti a favore del vescovo di Lucca Giovanni; per due monasteri sono gli unici diplomi da B. emessi: S. Pietro a Ema, presso, Firenze, S. Bartolomeo di Pistoia. Chiaro segno d'una differente situazione di potere nei rapporti laico-ecclesiastici.
Tipico ancora il rapporto tra B. e i monasteri: il suo interessamento si rivolse infatti soprattutto a quelli di fondazione canossiana da intendersi prevalentemente, anche se non esclusivamente, in chiave politica, per il popoiamento e quindi il dominio del Po, presso il quale erano stati da poco fondati; soprattutto ampie le donazioni fatte a S. Benedetto di Polirone (comitato di Mantova), e a S. Genesio di Brescello (comitato di Parma); meno importanti l'unica a noi nota per la canonica di S. Apollonio di Canossa e quelle per la chiesa di S. Benedetto di Gonzaga (comitato di Reggio). A B. è attribuita anche la fondazione del monastero di S. Maria di Felonica, in territorio mantovano. Per quanto non sia chiara la base su cui si fonda tale attribuzione (cfr. P. F. Kehr, Italia pontificia, VII, 1, p. 322) - ilprimo documento che gli si riferisce è una donazione di Beatrice del 17 dic. 1053 fatta anche "pro anima" di B. -, sarebbe tuttavia un'ulteriore conferma di una politica familiare che ad ogni generazione pose un presidio monastico lungo la via d'acqua che congiungeva i centri principali dei suoi domini (cfr. anche Fasoli, Monasteri …, p. 188).
L'unico monastero che B. avvicinò non solo per ragioni politiche, ma, si deve pensare, anche per ragioni religiose, fu l'abbazia di Pomposa di cui era abate Guido. Qui, come narra Donizone, B. si recava ogni anno, portando "optima dona", per purificarsi dei propri peccati; qui si fece flagellare per scontare le sue colpe di simonia, e prese solenne impegno di fronte a Guido di "aecclesiam nullam.... venderet unquam". Questi rapporti con Pomposa sono una spia di quella che dovette essere la religiosità di B., che è altra cosa di una "politica religiosa", di un laico potente, cioè impegnato a fondo nella vita politica, alle cui leggi non poteva venir meno. Se non si può che ritenere dettata da piaggeria l'affermazione di Donizone che B. ebbe "pontifices sacros (vescovi) ... quam maxime caros, / Ipsis donabat quae censuit his fore grata" (Vita Mathildis, p. 42), tuttavia non si deve negare ogni fondo di verità all'amore che B. dovette avere per taluni aspetti della vita ecclesiastica e per talune esperienze di vita religiosa, che nella sua età ebbero particolare fioritura: la vita liturgica, che egli voleva fosse particolarmente curata dai suoi capellani e che egli ammirava nel coro del monastero di Pomposa, secondo quanto dice Donizone. Per la vita liturgica ebbero particolare cura alcune figure di ecclesiastici con cui B. ebbe spesso contatti, come l'arcivescovo Gebeardo di Ravenna, il vescovo di Bologna Adalfredo, l'eremita Maurilio da B. preposto alla badia fiorentina.
E la vita liturgica anche a Nonantola, con cui spesso anche se per ragioni di carattere patrimoniale ebbe a che fare B., si era splendidamente rinnovata sotto gli abbaziati di Rodolfo I e Rodolfo II (cfr. Ropa, La liturgia..., pp. 342 n. 112, 344-347). Né va dimenticata l'esperienza di vita eremitica. È noto che proprio Pomposa, fondata su di un'isola circondata da acque, fu un centro di vita eremitica, di cui esemplare guida fu appunto l'abate Guido (cfr. Fasoli, Incognite..., pp. 198, 292-293; Id., Monasteri..., pp. 181 ss.); che con essa ebbero rapporto i più noti rappresentanti dell'eremitismo romagnolo ed emiliano, da Romualdo (cfr. Tabacco,Romualdo..., pp. 108-110) a Pier Damiani, che più volte vi soggiornò. E proprio presso il canossiano monastero di S. Benedetto di Polirone, anch'esso costruito in un'isola tra due rami del Po, trovò il posto più adatto per fissare la sua residenza un pellegrino eremita, Simeone, che non solo fu accolto con ogni onore dalla comunità, allora ai suoi inizi (il monastero fu fondato nel giugno 1007; Simeone morì il 26 maggio 1016), ma ricevette anche segni di particolare benevolenza da parte di B. e della consorte Richilde. Alla sua morte B. ottenne da un papa Benedetto, ritenuto l'ottavo di questo nome, di poter costruire una chiesa e un altare in suo onore. Pur tenendo conto delle amplificazioni dovute alla natura della fonte che ci dà queste notizie - la vita di s. Simeone scritta con ogni probabilità, ancora vivente B., da un monaco stesso di Polirone - non sembra non poter vedere in queste la conferma del grande interesse che suscitava in B. la vita eremitica.
È stata attribuita a B. anche la giurisdizione sulle marche di Spoleto e Camerino. tuttavia, in mancanza di dirette testimonianze al riguardo, non essendo la presenza di Goffredo il Barbuto, marito della vedova di B., alla guida di queste marche sufficientemente probante ai fini della sostenuta attribuzione, l'ipotesi deve trovare ulteriore conferma, anche se la lettera già citata di Pier Damiani la potrebbe avvalorare (cfr. Gasparrini-Leporace, Cronologia..., pp. 45 s., e relative note; Colorni, Il territorio..., p. 22 n. 82). Cosìsembra doversi dare ragioni al Vicinelli che esclude l'ipotesi, avanzata dal Gaudenzi (Il monastero...., pp. 172-175, 179), di una giurisdizione di B. e di suo padre Tedaldo su Bologna, sia pure temporanea (La famiglia..., pp. 179-186per Tedaldo, 186s. per Bonifacio).
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Relazioni e comunicazioni presentate al XXXII Congresso storico subalpino, III, Convegno di Storia della Chiesa in Italia (Pinerolo, 6-9 sett. 1964), Torino 1966, pp. 181 ss., 188; G. Miccoli, Chiesa gregoriana, in Storici antichi e moderni, n. s., XVII, Firenze 1966, pp. 62 s.; G. Tabacco, I liberi del re nell'Italia carolingia e post-carolingia, Spoleto 1966, in Biblioteca degli "Studi medievali", II, p. 185; P. Supino, Corneto precomunale e comunale. Note e appunti, in Bullettino dell'Istitutostor. ital. per il Medio Evo, LXXIX (1968), p. 138.