OTTOBONI, Marcantonio
OTTOBONI, Marcantonio. – Nacque a Venezia l’11 marzo 1596, primo dei nove figli di Marco di Marcantonio e di Vittoria Tornielli.
La famiglia apparteneva al ceto dei ‘cittadini originari’, un particolare gruppo sociale che costituiva il fulcro del sistema burocratico della Serenissima. Si distingueva all’interno di questo ceto, avendo già fornito alla Serenissima, quando Ottoboni nacque, un cancelliere grande, avendo un altro membro, Leonardo, in predicato di diventarlo, e prestando al servizio pubblico il padre di Marcantonio, Marco, uno dei più apprezzati funzionari della Repubblica, costantemente impegnato in una serie assai delicata di missioni fuori Venezia (anche egli, nel 1639, sarebbe stato eletto cancelliere grande).
Dal carattere ombroso, Ottoboni percorse le strade già seguite dai suoi maggiori all’interno della struttura burocratica della Serenissima, venendo accolto, nel 1632, tra i segretari del Pregadi. Ma soprattutto si impegnò nella complessa gestione della ‘fraterna’ Ottoboni, godendo in ciò della piena fiducia del padre, cui era devotissimo. La responsabilità di gestire il non mediocre patrimonio familiare, di regolare i rapporti tra i numerosi fratelli, di elaborare le strategie familiari e matrimoniali ne assorbì gran parte delle energie per tutta la vita, così come testimoniato, spesso in forma drammatica, dall’epistolario familiare oggi custodito nella Biblioteca apostolica Vaticana (Ottoboniani latini).
Nella fraterna Ottoboni, così come era tipico in questa forma di organizzazione familiare, tutto veniva condiviso: dal tetto ai conti di casa, all’amministrazione dei beni, alle scelte riguardanti i singoli. Quando nel 1632 il capofamiglia Marco decise che era venuto il tempo di ammogliare uno dei suoi maschi, Marcantonio si dichiarò non interessato, così come i suoi fratelli Giovan Battista e Agostino (il quarto, Pietro, era a Roma, impegnato a costruirsi una carriera curiale). Alla fine, fu prescelto Agostino, che rese faticosissima la scelta matrimoniale con alcuni suoi comportamenti del tutto impropri. L’atteggiamento del primogenito nei confronti dei due fratelli rimasti a Venezia fu sempre severo: la preoccupazione maggiore che continuamente esprimeva era di conservare se non accrescere la ‘onorevolezza’ della casa, il che si garantiva con comportamenti adeguati, con scelte di vita rispondenti all’interesse pubblico oltre che a quello del clan, con una gestione oculata del patrimonio familiare che andava di generazione in generazione trasmesso accresciuto e mai intaccato.
Ottoboni riteneva che i beni di famiglia costituissero di fatto un fine e non un mezzo e, al di là dei vincoli di fedecommesso che li congelavano, alienare anche parti minime di questo patrimonio dovesse essere considerato un disonore. Meno disposti a seguirlo su questa strada erano gli altri fratelli: Giovanni Battista e Agostino, attratti da modelli di vita meno rigidi e austeri; l’ambiziosissimo Pietro, che da Roma, per riuscire ad avanzare in Curia, rischiava non solo di mettere a repentaglio i conti economici della fraterna, ma di compromettere l’onore stesso della famiglia in Venezia, in un tempo ancora difficile nelle relazioni tra la S. Sede e la Serenissima. Bisognava «avanzar nei colori della dignità e dell’honore», scrisse Marcantonio al futuro pontefice: per conseguire la prima occorreva non compromettere la reputazione (Menniti Ippolito, 1996, p. 25).
In una lettera scritta a Pietro nel 1645 per negargli 10.000 scudi che sarebbero serviti per l’acquisto di un ufficio venale, Marcantonio descriveva così lo stato della fraterna: «due fratelli consumano uno in puttane, mangiare e compagnie; l’altro non si fa scrupolo di mettere da parte quello può. Me ne avvedo e strepito ma senza frutto» (ibid., p. 29).
La voce che si sparse a Venezia in quel tempo, secondo cui sarebbero stati venduti accessi al patriziato per reperire denaro necessario a finanziare la guerra al turco, fece crollare ogni equilibrio all’interno del clan. Gli Ottoboni non potevano non essere ‘aggregati’, ne avrebbe sofferto il loro onore, ma reperire risorse conservando intatto il patrimonio risultava compito improbo. Non solo, una preventiva analisi dei conti familiari mostrò come Giovan Battista e Agostino per anni avessero sottratto all’impresa familiare ingenti sostanze. Lo scandalo stravolse la famiglia: Marcantonio si trovò al fianco Pietro, mentre gli altri due fecero fronte comune. Solo la ricorrente voce che forse l’aggregazione al patriziato sarebbe saltata poteva far attenuare la tensione. Il primogenito cercava di controllare la situazione, ma scorato confessava che in casa «continuano tutte le pazzie» e di desiderare di «farsi prete» per trovare «riposo». Giovan Battista invitava Pietro a favorire tale vocazione improvvisa provvedendolo anche, semmai, di un «vescovato» (ibid., pp. 36 s.). Un’altra spina tormentava Ottoboni: impedire che venisse evidenziata l’inabilità del padre Marco, quasi novantenne, a svolgere il suo servizio di cancelliere grande (carica a vita). L’unica soluzione che si sentiva d’appoggiare era che ne venisse creato uno nuovo, ma con la riserva che a Marco restassero tutti gli onori, gli abiti e gli ‘utili’.
Il 17 febbraio 1646, in una drammatica riunione nel palazzo di famiglia in Campo S. Severo, Marcantonio presentò ai fratelli un duro capo d’accusa, impegnandosi a sanare i loro debiti purché essi rinunziassero a pretese di gestione sul patrimonio della fraterna. Così egli commentava dopo la riunione: «son talmente agitato che non so dove mi habbi la testa […], stracco morto et afflitto, desideroso di farmi prete o frate» (ibid., pp. 42 s.). A giudicare con affettuosa severità il primogenito era la sorella Dianora in una lettera spedita a Pietro: «VS sa che tutti quatro sete padroni et il Signor Marcantonio è troppo scropoloso. Lui viene vecchio et non si ricorda quel che ha fatto quando era giovene […]. Non bisogna andare con questi rigori perché col tempo tutte le cose si accomodano» (ibid., pp. 49 s.).
L’avvicinarsi dell’appuntamento con l’aggregazione al patriziato coinvolse a pieno tutti gli Ottoboni. Radunarono i non troppi liquidi disponibili, vendettero argenteria e gioielli, concordarono prestiti. La famiglia riuscì a essere aggregata nell’agosto 1646, conseguendo uno straordinario successo, ricco però anche di conseguenze non positive: una forte esposizione debitoria; la disunione grave tra i fratelli; infine la trasformazione del ruolo degli Ottoboni da esponenti di punta del ceto dei cittadini originari in ‘soli’ patrizi di nuova aggregazione, per giunta perdendo i propri introiti pubblici di alti funzionari e rischiando di venire investiti di onerosi incarichi che avrebbero dovuto svolgere a proprie spese.
Un modo per fuggire a tutto ciò era quello di cercare rifugio nella carriera ecclesiastica e Marcantonio chiese a Pietro se poteva riuscire a procurargli un vescovato: Brescia, Verona o Treviso. Poi gli affari di famiglia lo riassorbirono – essendo anche fallito il tentativo di farsi eleggere nel Pregadi – questa volta per organizzare la divisione del patrimonio familiare, il che si venne a realizzare con una complessa serie di passaggi, caratterizzati da litigi, tra il settembre 1647 e l’agosto 1648.
In questo clima, Ottoboni il 2 maggio 1648 pregò il fratello Pietro di resistere alla tentazione di lasciare la Curia e farsi privato perché preoccupato dell’impossibilità d’essere ancora finanziato nella sua carriera dalla famiglia. Non si potevano compiere gesti avventati, anche perché nel frattempo gli era stato affidato il compito d’armare una galera destinata al servizio sulle coste dalmate.
Avrebbe potuto sottrarsi al compito pagando 1000 ducati, ma i fratelli, timorosi d’essere chiamati a sostituirlo, s’erano opposti alla contribuzione. Marcantonio partiva rimpiangendo, in una lettera a Pietro, i ‘vecchi’, che avevano a poco a poco creato la fortuna della famiglia. Egli ora prevedeva la catastrofe: «li aggravii anderano sopra li capitali et perderemo tutta la roba, haveremo la maledittione da’ nostri eredi […]. Due fratelli fano vita allegra […] all’incontro noi due havemo stentato come cani per fabricarsi fortuna» (ibid., p. 88).
Partì con la sua galera a fine agosto 1648, per fermarsi però subito al Lido per il cattivo tempo; intanto Giovan Battista e Agostino, liberatisi della sua presenza fisica, imputavano al fratello maggiore tutte le colpe della dissoluzione domestica: aveva rovinato tutto perché non sapeva comandare, era stato aggressivo e imprudente. Giunto in Dalmazia, subito prese a brigare per essere sollevato dall’incarico. Si diceva disperato: aveva freddo, mancavano i viveri, dei suoi 200 galeotti ne erano morti 60 all’improvviso. Tornava a chiedere al fratello l’aiuto per un vescovato; prometteva altresì a Pietro di sovvenirlo a sistemare i debiti che quello aveva accumulato nel tentativo di ottenere una nunziatura. Nel giugno 1649 era in Venezia in incognito per cercarsi un sostituto e qui riprese subito a litigare con i congiunti; sempre allo stesso fine tornò in città nel maggio 1650. Questa volta riuscì a disincagliarsi dall’impegno in galera e nell’ottobre faceva definitivamente ritorno in Venezia. Ormai insofferente dei fratelli prese a ipotizzare lo scioglimento completo della fraterna, ponendo fine alla convivenza dei membri del clan, ipotesi che all’inizio fu respinta come lesiva della reputazione familiare. Forse anche per questo Giovan Battista e Agostino si dimostrarono ancora più aggressivi del solito nei suoi confronti: non solo era di «natura torbida che non vuol quiete», ma neppure era un «Santo, anzi il maggior puttaniere di Venezia» che aveva «speso più in una donna pubblica in un mese» che Giovan Battista in sei anni (ibid., p. 123). Nell’estate 1650 con l’aiuto di consulenti gli Ottoboni divisero definitivamente il patrimonio in quattro parti e divisero i propri destini.
L’esistenza di Marcantonio poté ora proseguire più tranquilla. Continuò a seguire e a sovvenire la carriera di Pietro che era intanto diventato cardinale (1652) e che fu dal 1654 al 1664 vescovo di Brescia, ma agli inizi degli anni Settanta le fonti lo danno malato e istupidito. Il che dovette attenuargli il dolore di vedere ora contrapposti l’uno all’altro in un durissimo contrasto di interessi i due fratelli, Giovan Battista e Agostino, che per tutta la vita avevano invece fatto fronte comune contro di lui.
Morì nel 1672 a Venezia.
Nel settembre dell’anno seguente morì Agostino. Ancora anni più tardi Giovan Battista, che s’era intanto fatto chierico e godeva di qualche rendita ecclesiastica (continuando peraltro a condurre la vita di sempre), accusava Marcantonio d’averlo perseguitato indebitamente per anni.
Fonti e Bibl.: A. Zannini, Burocrazia e burocrati a Venezia in età moderna: i cittadini originari (sec. XVI-XVIII), Venezia 1993, ad ind.; A. Menniti Ippolito, Fortuna e sfortune di una famiglia veneziana nel Seicento. Gli Ottoboni al tempo dell’aggregazione al patriziato, Venezia 1996, ad ind., con ampia indicazione di fonti d’archivio e di bibliografia; P. Litta, Famiglie celebri italiane, V, Ottoboni di Venezia, Milano 1834.