MARTINENGO, Marcantonio
MARTINENGO, Marcantonio. – Nacque con tutta probabilità a Brescia intorno al 1545 da Enea (1517-59) di Bartolomeo (1487-1558) e da Olimpia Colonna, figlia di Marcantonio di Pierantonio e di Lucrezia Franciotti Della Rovere, nipote di Giulio II.
Il nonno Bartolomeo, uomo d’arme al servizio di Venezia e del duca Pier Luigi Farnese, ottenne con una ducale del 16 nov. 1536 riconferma del feudo di Villachiara. Rimasto vedovo di Rizzarda di Ercole d’Este, si risposò con un’Ortensia Colonna, figlia di un Marcantonio. Uomo d’arme anche il padre Enea, scelse poi una vita appartata e riflessiva.
L’educazione del M. e del primogenito Paolo Emilio (che nacque intorno al 1541-42 e sposò Laura Gonzaga, figlia del marchese di Vescovato Massimiliano Gonzaga, avendone numerosa prole) fu affidata al notaio umanista Vincenzo Zini di Bagnolo. Dopo la morte del padre, il M. e il fratello addivenirono, il 31 marzo 1565, a una spartizione, in virtù della quale a Paolo Emilio andarono i possedimenti di Bonpensiero e Fontana Bilò (o Fontanableù, come allora si scriveva) e al M. la terra di Villachiara. Fiero del titolo di conte di Villachiara, il M. segnò con il proprio nome gli stipiti delle porte del castello; ed è forse a lui che si deve il gran fabbricato esterno del castello che, denominato il Rezzato, fu destinato a stalle per i cavalli.
Datosi al mestiere delle armi, il M. si mise a disposizione del duca di Savoia Emanuele Filiberto, al quale scrisse da Venezia il 27 nov. 1567 accusando ricevuta di 1000 scudi insieme con l’ordine di portarsi in Piemonte, dove giunse insieme col cognato Francesco Martinengo Colleoni, conte di Malpaga.
Inviato dal duca in Francia a capo di 200 cavalli, il M. combatté validamente contro gli ugonotti; e Carlo IX lo insignì dell’Ordine di S. Michele. Aggredita dal Turco la Repubblica veneziana, il M. fu tra i privati che finanziarono l’arruolamento di soldati per la guerra e, secondo una scrittura del 7 marzo 1570, in numero di 30. Imbarcatosi anch’egli volontario, partecipò in settembre a un tardivo soccorso di Cipro, per poi – alla notizia della caduta di Nicosia – retrocedere, stazionando, in novembre, alla Standia. Data prova di animoso combattente a Lepanto, don Giovanni d’Austria gli offrì di militare per la Spagna, ma il M. preferì portarsi a Roma, dove godeva di qualche aderenza, se non altro perché figlio d’una Colonna e, forse, anche perché vi restava memoria del nonno paterno Bartolomeo. Suo influentissimo protettore fu il figlio naturale di Gregorio XIII, Giacomo Boncompagni, che dal 20 apr. 1573 era generale dello Stato pontificio. Questi avrebbe voluto il M. proprio luogotenente generale, ma il prestigioso incarico sfumò alla notizia della pace separata di Venezia con la Porta, per cui il papa – sdegnatissimo con la Serenissima – s’oppose alla nomina del M., suddito veneto, e gli preferì Adriano Baglioni. Seppur deluso, il M., grazie alla protezione di Boncompagni, fu compensato con la luogotenenza della pontificia Avignone, dove, giunto il 2 luglio 1573, si trattenne per circa 4 anni. Da qui continuò a battersi contro gli ugonotti, sebbene il 16 dic. 1576 lamentava al duca Emanuele Filiberto che Enrico III avesse affidato l’incarico di comandare le sue forze in Avignone, non a lui, ma a Nicolas de Champagne, conte di La Sueze. Giunto a Roma con la prospettiva di un comando delle galee pontificie, l’incarico non si concretizzò in termini per lui appaganti, e allora il M. tornò in Francia. A Parigi, in assenza di compiti ufficiali precisi, si dette a intense frequentazioni: amico di Henri de Montmorency, favorito del duca François d’Alençon fratello del re, nonché nelle grazie di Margherita di Francia, sorella del re e moglie del re di Navarra, della quale, come avrebbe ripetuto nel Seicento Ottavio Rossi, sarebbe stato l’«innamorato» ricambiato, ma anche vicino a intellettuali e artisti, sicché, «già eccellente nell’armi, raro nel disegno delle fortificazioni», allargò i propri interessi alle matematiche, alle lettere, alla musica.
Preposto dal fratello del re, intanto divenuto duca d’Angiò, alla cavalleria leggera italiana, il M. però non lo seguì, nel 1578, in Fiandra. Rimpatriato, oltre a servire la Serenissima, si dilettò di musica e di poesia.
Promosse la stampa di Lagrime di diversi poeti volgari et latini sparse per la morte dell’illustriss.… Leonora d’Este (Vicenza, Stamperia nova, 1585), raccolte dal concittadino Gregorio Ducchi, tra i cui autori vi è anche il benedettino cassinese Lucillo (al secolo Muzio) di Alessandro Martinengo dei conti di Barco. Versi di mano del M. figurano nella premessa a Il sontuoso apparato fatto dalla magnifica città di Brescia nel felice ritorno del vescovo cardinale Giovanfrancesco Morosini, di Marco Publio Fontana (Brescia, Vincenzo Sabbio, s.d. [ma 1591]); in Lagrime di diversi… spiriti in morte de la… signora Lucina Savorgnan Marchesi (Udine 1599); e, indirizzati al duca d’Urbino Francesco Maria II Della Rovere, in Rime di diversi… (Venetia, La Minima Compagnia, 1599) messe insieme da Gherardo Borgogni. Al M., il bresciano Lelio Bertani dedicò Il primo libro di madrigali a cinque voci (Brescia, Pietro Maria Marchetti, 1584), dichiarandosi obbligato per la generosa concessione dei suoi versi alla musica del primo madrigale. Nel 1586 o, al più tardi nel 1587, il M. attivò una gara musicale nella quale propose un proprio (e nel testo e nella musica) madrigale alle variazioni dell’estro inventivo dei più rinomati musicisti del tempo. All’invito aderirono – oltre a Bertani – Luca Marenzio, Ruggero Giovannelli, Giovanni Maria Nanino e Alessandro Striggio, e i 18 madrigali composti per l’occasione furono raccolti da Antonio Morsolino, stampati come L’amorosa Ero rappresentata dai più celebri musici d’Italia con l’istesse parole e nel medesimo tuono (ibid., Vincenzo Sabbio, 1588; in edizione moderna a cura di H.B. Lincoln, New York 1968) entrambi – «parole» e «tuono» – stabiliti dal Martinengo. A lui si dovette pure la canzonetta asserente che «ben è barbaro il core» in Le canzonette a tre voci (ibid., Pietro Maria Marchetti, 1588) del bresciano Giuliano Paratico dedicate nel 1588 alla contessa Barbara Maggi Gambara.
Un po’ rimatore, un po’ compositore musicale, un po’ mecenate, il M. protesse, ospitandolo nel castello di Villachiara, il calligrafo Marcello Scalzini, che nel 1588 il S. Uffizio romano sospettava di «eretical pravità». Inoltre fu tra i principali fautori, e garante al cospetto dei rettori di Brescia e dello stesso Palazzo ducale, del cipriota Marco Bragadin alias Mamugnà, capitato nel Bresciano nel 1588. Bragadin si spacciava alchimista in grado di produrre oro: avvalorante in tal senso l’attestato scritto e sigillato dal M. il 30 ott. 1589 ai rettori, nel quale egli assicurava che in casa sua Bragadin – fatto bollire l’argento vivo, ossia il mercurio, in un crogiolo e spruzzatolo di «polvere di color narancio» – ne aveva ottenuto un «liquore» che, raffreddato, s’era consolidato nel grumo d’una libbra, fuso il quale, si era ricavata una «verghetta» da inviare a Venezia «acciò ne» fossero «fatti tutti quei saggi» consueti «dell’oro di 24 caratti», nella Zecca e altrove. Il presunto oro e la relazione del M. furono spediti a Venezia dai rettori e, il 20 novembre, il M. con lo stesso Bragadin, altri 10 nobili bresciani e una scorta, partì per la città lagunare. Accompagnato dai patrizi Giacomo Contarini (culturalmente autorevole, specie in fatto di scienze e tecniche) e Nicolò Dolfin, il 28 il M. consegnò al Consiglio dei dieci «l’ampolla colla medicina per l’oro», poi depositata in Zecca, di fronte ai cui provveditori, Mamugnà, con il M. sempre al fianco, ripeté l’esperimento. Il 6 genn. 1590, al cospetto del doge Pasquale Cicogna, Bragadin operò di nuovo, ma il materiale risultante dal consueto procedimento, esaminato dai provveditori in Zecca, risultò essere una lega d’argento e rame. Sebbene Bragadin uscisse screditato tanto da voler allontanarsi da Venezia, il M. continuò a ritenerlo in possesso della capacità di commutare i metalli in oro e, ignorato dalle autorità veneziane che tentava ancora di convincere, si rivolse a Roma, donde, il 17 febbraio, Angelo Ingegneri gli scriveva che aveva trovato sensibili il cardinale Vincenzo Lauro e persino il papa. Fu soprattutto il cardinale Nicolò Sfondrati, il futuro Gregorio XIV, quello presso il quale il M. perorò a favore di Bragadin, ricevendo assicurazione, nel gennaio 1591, di fiducia e di pronto sostegno.
Nel frattempo, il M. si dedicava allo studio delle opere di fortificazione. Il 20 ag. 1589 aveva formulato per iscritto un parere sulla «fortificatione della cappella» di Bergamo. Tra il 4 e il 6 ott. 1593, in una riunione ristretta nel castello di Strassoldo, fu decisa la localizzazione della città fortezza di Palma, voluta dal governo e così chiamata a riecheggiare il nome della vicina Palmada e a evocare il simbolo della vittoria.
Il M., che era stato incaricato d’effettuare i sondaggi pedologici, presentò al piccolo consesso un proprio disegno ovale della piazzaforte ed espose il progetto in una sua scrittura, del 4 ottobre, sebbene venisse accolto il progetto di Giulio Savorgnan. In una lettera del 1603, il conte Ettore di Strassoldo raccontava al conte Ettore Savorgnan, nipote di Giulio, che la fortezza era stata «data in dissegno» da Savorgnan, sul quale era poi intervenuto il M. «a dissegnare» nei dettagli Palma «e farla mettere in la forma ch’è ora».
Avviata l’esecuzione di Palma, il M. vi occupò la carica di governatore delle truppe di presidio e supervisore generale degli iniziati lavori, essendo provveditore generale Marcantonio Barbaro, con lui in sintonia, e tesoriere, invece ostile, Giovanni Garzoni, di cui Savorgnan era zio materno. In fase d’avviamento esecutivo dei lavori, fu subito evidente che il M. stesse modificando il progetto originario di Savorgnan. Mentre questi pensava a una piazzaforte destinata a intimidire con la sua mole e possenza sterminate orde ottomane (in ciò aderendo alla funzione antiturca addotta ufficialmente a giustificare la grande opera), il M., memore della guerra da lui sperimentata in Francia e non ignaro della funzione antiasburgica assegnata in realtà alla piazza, la concepì atta a muovere controffensive, laddove il progetto di Savorgnan prevedeva soltanto rapide sortite. Ferma restando la decisione di adottare una pianta poligonale con 9 baluardi (e uno di questi si chiamerà Villachiara) e sempre vigendo il riferimento al progetto di Savorgnan, sono i dettagli esecutivi – in fatto di pendenza di scarpa e controscarpa, d’ampiezza del fossato e del passaggio coperto, di posizionamento dei cavalieri, di impianto delle artiglierie, di terrapieni, di parapetti, di alzato (mastodontico quello del disegno di Savorgnan, vanamente contrastato dal M.) – a suscitare divergenze e contrasti. E tutto ciò rimbalzò in Senato, il quale – destinatario di un’autentica battaglia di relazioni e controrelazioni – da un lato svolse un ruolo di mediazione, dall’altro impose che i lavori proseguissero, a ogni modo, con sollecitudine. L’operato del M. non fu esente da critiche: egli tracciò il perimetro dei bastioni e delle cortine e iniziò lo scavo della fossa; optò per l’affidamento in appalto dell’escavazione e del trasporto di terra; impose corvées ai contadini; ricorse al rivestimento di zolle erbose a sorreggere la ripida scarpata; tese, di contro al parere di Buonaiuto Lorini, a elevare la muraglia di scarpa al di sopra della campagna; indusse ad allargare la strada coperta sull’orlo esterno del fossato; volle di 10 piedi (o 2 passi) l’elevazione della parete interna del fossato sì da sovrastare il piano della campagna; avrebbe voluto la controscarpa rettilinea, mentre si realizzava il profilo spezzato caldeggiato da Lorini; per l’auspicata collegabilità Venezia - Palma, propose un tracciato di navigazione, in vista del quale cominciò a tagliare le curve dell’Imburino. Fu contestato, però, soprattutto per l’infelice incamiciatura del terrapieno con doppio muro di zolle di terra e per lo smottamento dei terrapieni sotto le piogge, denunciato da Savorgnan e discusso, nel marzo 1594, in Senato. «Un orbo che cerca la strada giusta e costruisce con diversi disordini»: così fu un duro giudizio di Lorini sul M., dal quale peraltro non sempre fu in dissenso.
Il M. fu il principale responsabile dei lavori dalla fine del 1593 a metà, circa, del 1594, non senza protestare, il 24 marzo, perché si ritrovava di fatto a essere l’ingegnere. In sua assenza, fu Lorini ad assumere la direzione, sinché il M. rientrò con autorità ridimensionata e ben presto intercettata da dolorosissime funeste vicende di famiglia.
Da Palma, il 2 apr. 1595, il M. si rivolse al doge implorando licenza di ritirarsi per almeno due mesi, quelli di giugno e di luglio, quando i lavori rallentavano per consentire alle maestranze di partecipare al raccolto agricolo, al fine di occuparsi del nipote, figlio del suo primogenito (forse un figlio naturale del M., natogli quand’era ancora ragazzo). Il nipote, infatti, aveva sposato giovanissimo una donna di famiglia umilissima; per di più era detenuto nel Milanese per un delitto commesso e il M. non disponeva dei 1000 scudi d’oro necessari a scarcerarlo. Ad aggravare la situazione familiare concorse il fatto di sangue avvenuto a fine marzo, allorché il genero Ludovico Martinengo, furente di gelosia, uccise con un coltello la moglie Margherita, sospettata di adulterio con Roberto Avogadro. Questi non solo proclamò l’innocenza propria e della figlia del M., ma – con atto di sfida sottoscritto da Scipione Avogadro e Camillo Ugoni – si dichiarò pronto a battersi a duello con chiunque osasse dubitarne.
Dopo la licenza, il M. tornò di nuovo a Palma, come governatore della fortezza e il 27 luglio 1596 ebbe la ricondotta per 5 anni col compenso annuo di 1800 ducati; un anno dopo, il 27 luglio 1597, una ducale accresceva la sua autorità col conferimento del titolo di «capo e sopraintendente della fortezza». L’esercizio di una carica tanto impegnativa era però ostacolato dalle difficili condizioni di salute che – secondo la relazione, del 26 apr. 1599, del provveditore generale Marcantonio Memmo – lo costringevano quasi sempre a letto nel vicino villaggio di Ronchis, donde pure seguiva l’andamento dei lavori e «col consiglio suo e col suo molto ingegno».
Nel giugno 1600 Lorini fu preposto alla direzione dei lavori della fortezza.
La data di morte del M. resta ignota, forse risale a quell’anno, forse è di poco posteriore se la relazione del provveditore generale Andrea Gussoni, del 30 genn. 1607, lo indicava scomparso da qualche anno.
Sposato con Paola Martinengo Colleoni di Bartolomeo, il M. ebbe, oltre alla Margherita vittima del marito, Filiberto, così chiamato in onore del duca di Savoia; Francesco che, con il generale delle artiglierie Ferrante De Rossi, si occupò del piazzamento dell’artiglieria di Palma e quindi di quello di Candia per poi combattere nella guerra di Gradisca; Enrico che morì ancor bambino nel 1571; Marina che si fece agostiniana; Ottavio (1585-1630) che, intendente di fortificazioni e cultore di lettere come il padre, fu al servizio dei Medici, degli Asburgo e della Serenissima. Palesemente errata la notizia che vuole il M. risposato con la nobile bolognese Ginevra di Cornelio Bentivoglio, che – già vedova del conte di Montechiarugolo Pio Torelli, decapitato nel 1612 – sposò, nel 1618, un conte Marcantonio Martinengo (cfr. Litta).
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