GIUSTINIAN, Marcantonio
Nacque a Venezia il 2 marzo 1619, quartogenito di Pietro di Girolamo e di Marina Giustinian di Daniele di Antonio "dai vescovi".
Entrambi i genitori erano di ricca estrazione e risiedevano in palazzi vicini, posti sul Canal Grande, nella parrocchia di S. Barnaba; la famiglia paterna, inoltre, possedeva due splendide ville a Fiesso, sul Brenta, e a Roncade, nel Trevigiano: donde l'icastico soprannome di "budelle d'oro", a suggellarne le doviziose fortune.
Il G. studiò a Padova diritto civile e canonico, avendo tra i docenti Fortunio Liceti e Lelio Mancino; non conseguì il dottorato (che non si usava più per i patrizi), ma si formò ugualmente una vasta cultura d'impianto erudito, spaziante dalla storia romana alle Sacre Scritture, che coltivò sempre con amore, trovando nell'uso frequente delle citazioni dotte e della lingua latina motivo di compiacimento e di personale distinzione: nel 1675 l'anonimo compilatore della Copella politica lo definiva "huomo di studio antico et di eruditione fondata nelle gravi dottrine, che è la quint'essenza dell'intendimento". Completò la sua educazione soggiornando a Parigi fra il 1641 e il 1644, accanto al fratello Girolamo colà ambasciatore; dopo di che, ormai pervenuto all'età che consentiva l'accesso alla carriera politica, divenne savio agli Ordini per il semestre aprile-settembre, nel 1644 e 1645. Era così entrato a far parte del rango senatorio, sicché non dovrebbe aver avuto esecuzione pratica l'elezione - avvenuta il 17 apr. 1647 - a governatore di galera, nell'ambito della mobilitazione per la guerra di Candia; oltretutto un tale compito non poteva riuscire congeniale a un uomo incline a una religiosità prossima ad atteggiamenti vagamente quietistici, cosicché è probabile che la successiva latitanza dalla politica, protrattasi per quasi un decennio, debba attribuirsi non già a un ostracismo comminatogli per punizione, ma al grigiore politico cui la sfolgorante carriera del fratello Girolamo - in quel torno di anni ambasciatore in Spagna, Germania e Roma - costringeva gli altri membri della famiglia, in omaggio alla prassi veneziana che impediva la concentrazione di onori nello stesso casato.
Tuttavia Girolamo morì presto, senza aver potuto raccogliere il frutto dei suoi tanti sacrifici; nello stesso anno (1656) scompariva anche un altro fratello del G., Francesco, l'unico che si era sposato, lasciando figli in tenera età, che avrebbero eventualmente potuto assicurare la continuità della famiglia. Questo duplice lutto costrinse i fratelli superstiti a un ripensamento della strategia familiare e a una modifica dei propri ruoli. Il G. venne recuperato alla politica attiva: dopotutto al tempo della permanenza parigina si era trovato al centro della società europea, anche se questa prolungata applicazione alla scuola diplomatica non gli aveva giovato più di tanto nella considerazione dei concittadini (per l'autore della Copella sopra ricordata, il G. "forse non conoscendosi di primario talento politico, riuscì con mezano concetto"). L'iniziale saviato agli Ordini non era stato seguito dall'ingresso nell'analoga sfera dei saviati di Terraferma e del Consiglio, che gli avrebbero aperto l'adito al Collegio; tuttavia avrebbe potuto cercare di riprendere il cursus honorum per altra via, rivestendo incarichi di diversa natura, tecnici e non politici. Divenne così depositario del Banco Giro per il trimestre luglio-ottobre del 1656 (magistratura più rischiosa che prestigiosa), quindi - dopo un'ulteriore assenza di quasi un quadriennio dalla politica attiva - provveditore alle Biave, dal 13 marzo 1660 al 12 luglio 1661.
Durava ancora la guerra di Candia e l'approvvigionamento del biscotto alla flotta e alle guarnigioni del Levante costituiva per la Repubblica un problema di primaria importanza; a detta del suo biografo Palazzi, con un "chimico experimento" il G. riuscì a dimostrare le adulterazioni che i "pistori" (fornai) compivano sui prodotti commissionati dallo Stato, e a ottenerne la condanna. Dal 2 nov. 1661 fece parte, per un biennio, dei sette esecutori delle deliberazioni del Senato; quindi (1663-64) fu dei due aggiunti ai provveditori sopra Danari, poi (dal 26 luglio 1664) fra i conservatori delle Leggi; a interrompere il monotono fluire di una carriera che si dipanava senza alcuna significativa evoluzione, il 6 ag. 1664 il G. era eletto ambasciatore in Francia.
Giunse a Parigi più di un anno dopo, nel novembre 1665, accompagnato dal fratello minore Giovanni, che in questa legazione (come poi nel dogato) non gli avrebbe fatto mancare appoggio e assistenza. I dispacci del G. e la relazione conclusiva, letta in Senato il 6 febbr. 1669, non si discostano molto dal giudizio dei contemporanei sulla Francia del re Sole, che gli appare la massima potenza europea, saldamente in pugno a un monarca dalle eccezionali qualità (sin troppo benevolo il ritratto di Luigi XIV) e governata da ministri abili e capaci, tra i quali spicca J.-B. Colbert il cui "sistema", che ha arricchito il paese e la Corona, il G. esamina attentamente, con implicito invito ai compatrioti a riflettere sulle possibilità di applicare nell'area mediterranea il modello mercantilistico inteso a rendere la Francia sempre più indipendente dagli intermediari anglo-olandesi: gli stessi soggetti ormai subentrati ai Veneziani nel commercio levantino. Le principali attenzioni del G. furono però assorbite da un compito ben più urgente e difficile, quello di aiutare la patria impegnata nella guerra di Candia.
Egli giunse a Parigi mentre si apriva la fase più delicata e decisiva di un conflitto che si protraeva ormai da vent'anni; di lì a poco (28 ott. 1666) lo stesso gran visir, Ahmed Köprülü, sbarcò nell'isola alla testa di un forte contingente per compiere lo sforzo decisivo. Venezia necessitava di aiuti, in particolare di personale specializzato come tecnici, artiglieri, minatori, per ottenere i quali il G. ebbe reiterati colloqui con il ministro H. de Lionne, ma senza esito: anzitutto era ancor fresco il ricordo dell'infelice conclusione della spedizione di Almerico d'Este, inviata da Mazzarino nel '60; inoltre era in atto il conflitto anglo-olandese e Parigi guardava alle Fiandre spagnole piuttosto che ad avventure mediterranee. "Più facilmente il re", scriveva il G. nel gennaio 1667, "spedirà venticinque mille huomini in Fiandra, che cinquecento a Candia", anche perché - continuava - alla corte francese "poco si crede alle decantate, e strepitose minacce de turchi", mentre si guarda "a cotesta guerra, come cosa lontana e invecchiata". Una svolta ebbe a verificarsi proprio sullo scorcio della missione del G.: posta rapidamente fine alla guerra di Devoluzione dopo la stipula della pace di Breda tra Inghilterra e Olanda, il re Sole prese a guardare con occhi diversi all'area mediterranea, e alla fine dell'aprile 1668 il G. riuscì a ottenere l'invio di A. Dupuy de Montbrun (considerato uno fra i massimi esperti di arte militare) a comandare la piazza di Candia, dove qualche mese più tardi (21 nov. 1668) giungeva il tanto invocato corpo di spedizione francese guidato dal La Feuillade. Tra le cause dell'improvvisa felice piega nell'azione diplomatica del G. fu anche il clima di emozione suscitato in Francia, nell'estate del 1668, da alcuni successi riportati a Candia dai Veneziani e che il diplomatico seppe enfatizzare rivolgendosi in particolare alle gentildonne della corte, che in quest'uomo religioso e casto trovarono il punto di riferimento per una mobilitazione collettiva che coniugò ideologia, morale e virtù militare.
Fu un successo tardivo, ma vistoso; tuttavia le mediocri e del tutto particolari qualità del G. non gli consentirono, terminata l'ambasceria (decorata, al solito, con il cavalierato), di ottenerne un'altra o di vedere compensati i sacrifici affrontati con un posto in Collegio; sicché dovette riprendere il suo posto nelle magistrature finanziarie, si può dire al punto dove l'aveva lasciato cinque anni prima. Divenne così inquisitore sopra i Dazi (4 ott. 1670), quindi deputato all'Affrancazione dei prò in Zecca (14 genn. 1671) e, di lì a qualche mese (18 maggio), sindaco inquisitore in Terraferma.
Questa magistratura straordinaria era attivata quando si rendeva necessario alleggerire la pressione fiscale e giudiziaria sulle province, nominando tre autorevoli soggetti incaricati di rivederne l'amministrazione. Insieme con i colleghi Antonio Barbarigo (subentrato a Girolamo Corner) e Michele Foscarini, il G. tra il 1672 e il 1675 peregrinò fra i capoluoghi del Dominio, coadiuvando (o condannando) l'opera dei rettori; impegno gravoso e poco remunerativo, a dar retta all'autore della già ricordata Copella, che così ne sintetizzava l'esito: "et di presente [il G.] è uno degli Inquisitori di Terraferma spediti per indagare i trascorsi de' reggimenti. Credo che, compiuto questo servigio, in avvenire vorrà astenersi da impieghi simili, veduto sul fatto che questa è una delusione del popolo, se tutti gl'inquisiti s'assolvono".
Neppure questa fatica (che gli costò due prolungate infermità, a Bergamo e Rovigo) consentì dunque al G. di entrare nel governo della Repubblica: le elezioni al Consiglio dei dieci (ottobre 1678 - settembre 1679), a consigliere ducale (febbraio 1681 - gennaio 1682), a inquisitore di Stato (agosto - settembre 1681) rappresentarono gli apici di una carriera ricca di impegni prestigiosi, ma non di primario rilievo: correttore della Promissione ducale nel 1676, il G. fu ancora provveditore sopra Monasteri (nel 1677-78 e nel 1683), membro del Collegio delle pompe (1677-79 e 1683-84), revisore e regolatore dei Dazi (1679-81 e 1682), provveditore alle Miniere (1679-80 e 1683-84), inquisitore all'Arsenale (1680), sopraprovveditore alla Sanità (1682-83), provveditore in Zecca (1683-84).
Infine fu eletto doge, inaspettatamente e al primo scrutinio, il 26 genn. 1684. La sua prima reazione fu di farsi frate, ma seppe respingere la tentazione e finì con l'accettare la suprema dignità della patria. Diverse le cause dell'elezione: le divisioni che paralizzavano gli altri candidati, nonché l'imminente ingresso di Venezia nella Lega santa antiturca, di cui il G. si era palesato fautore; è possibile, tuttavia, pensare a un tardivo omaggio per i meriti del fratello Girolamo, morto quarantacinquenne al servizio dello Stato, dopo avere sostenuto le più importanti ambascerie. Infine qualche parte dovettero pur averla le esigenze della propaganda: accingendosi infatti Venezia a una guerra di religione, la personalità del G. sembrava ben prestarsi a galvanizzare l'entusiasmo popolare e a suscitare il consenso politico.
Il felice svolgersi del conflitto, suggellato dalla rapida conquista della Morea, offrì poi il destro al G. di esprimersi al meglio, accompagnando i successi delle armi veneziane in Levante con innumerevoli Te Deum, processioni, pie esibizioni culminate nella riapertura al culto della chiesetta di S. Nicolò, in palazzo ducale, sgombrata alla svelta dagli uffici che l'occupavano.
Dopo breve malattia la morte lo ghermì mentre recitava le litanie, il 23 marzo 1688; venne sepolto nella chiesa di S. Francesco della Vigna.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Venezia, Misc. codd., I, Storia ven., 23: M. Barbaro - A.M. Tasca, Arbori de' patrizi veneti, p. 468; Segretario alle voci, Elezioni in Maggior Consiglio, regg. 21, c. 17; 23, cc. 3, 212, 214; Ibid., Elezioni in Pregadi, regg. 15, cc. 20-21, 144; 17, c. 65; 18, cc. 23, 46-47, 75, 77, 137; 19, cc. 37, 58, 85, 104, 110-112, 124, 126; 20, cc. 48, 94, 146; Consiglio dei dieci, Misc. codd., reg. 64, passim; Senato, Dispacci, Ambasciatori Francia, filze 137-143; Dieci savi alle Decime (Redecima del 1661), bb. 226/249 e 227/492 (sul patrimonio immobiliare); Notarile, Testamenti, b. 1269/285 (per il testamento, dettato tre giorni prima di morire); Venezia, Bibl. del Civico Museo Correr, Cod. Cicogna, 1511: La Copella politica, cc. 64r-65r; Relazioni di ambasciatori veneti al Senato, VII, Francia (1659-1792), a cura di L. Firpo, Torino 1975, pp. 165-202 (relazione di Francia); G. Palazzi, Vita M. Antonii Iustiniani… in eius funere dicta…, Venetiis 1688; E.A. Cicogna, Delle inscrizioni veneziane, IV, Venezia 1834, pp. 188, 616; L. von Pastor, Storia dei papi, XIV, 2, Roma 1932, pp. 141, 152; A. Da Mosto, I dogi di Venezia nella vita pubblica e privata, Milano 1960, pp. 417-426, 584; F. Ambrosini, Paesi e mari ignoti. America e colonialismo europeo nella cultura veneziana (secoli XVI-XVII), Venezia 1982, pp. 276-279; G. Candiani, Conflitti di intenti e di ragioni politiche, di ambizioni e di interessi nel patriziato veneto durante la guerra di Candia, in Studi veneziani, n.s., XXXVI (1998), pp. 227, 235, 242, 247, 251.