EPICURO, Marcantonio
Nacque nel 1472 in Abruzzo, in una località della regione dei Marsi, forse Tagliacozzo o Avezzano.
I genitori furono probabilmente lavoranti della famiglia Orsini, che aveva possedimenti nella regione. È stato talvolta creduto che Epicuro non fosse altro che un soprannome. Ma che si trattasse di un vero e proprio cognome è provato dall'uso che ne viene fatto nei documenti per indicare sia l'E. sia i suoi familiari.
Non abbiamo notizie precise sui primi decenni della sua vita, né sugli studi che intraprese; neppure i biografi a lui contemporanei lasciarono testimonianze sul periodo della formazione intellettuale, come se tutte le sue attività fossero iniziate con l'arrivo a Napoli. Dovette comunque possedere una buona preparazione letteraria e una innata predisposizione agli studi ("Se dal disio et amor di sapere che altro in me non vive...", scrive in una lettera a Federico Gonzaga), che gli permisero, una volta lasciata la regione natale, di potersi offrire come insegnante o segretario presso famiglie nobili.
Non si conosce l'anno preciso del trasferimento a Napoli, ma fin dai primi anni del sec. XVI si hanno testimonianze di contatti con diverse figure della vita culturale napoletana. Erasmo Pèrcopo (cui si deve il saggio biografico più completo sull'E.) ipotizza che Pietro Gravina sia stato maestro del giovane e ricorda un epigramma e un'epistola inviati a questo dallo stesso Gravina. È comunque del 1520 il primo documento in cui l'E. compare direttamente: è una lettera del 1º dicembre in cui egli offriva i propri servizi al marchese di Mantova Federico II Gonzaga. Fece da mediatore, in questa richiesta, Tommaso Tucca, un medico che lavorava a Napoli e che era in rapporti di amicizia con l'Epicuro. Successivamente, nel 1521, da Napoli, l'E. in una lettera a Giovanni Giacomo Calandra, che lavorava presso la corte dei Gonzaga, inviava, tramite il Tucca, le iscrizioni della cappella napoletana di Giovanni Pontano. Sebbene lo scambio di lettere con il marchese Federico testimoni la volontà di quest'ultimo di prenderlo al proprio servizio, l'E. non si trasferì mai a Mantova, preferendo, forse perché aveva trovato nuovi lavori come insegnante, rimanere a Napoli. È di questi anni (il terzo decennio del XVI secolo) anche la prima documentazione diretta della attività di scrittore: nel 1525 viene infatti pubblicata quella che viene ritenuta la prima edizione della Cecaria, testo teatrale rappresentato forse fin dal 1523 (Dialogo di tre ciechi, per Giovanni Antonio e fratelli da Sabbio, Venezia 1525).
Tre ciechi (il Vecchio, il Geloso e il Terzo, come sono definiti nelle didascalie delle edizioni e dei manoscritti), il primo dei quali accompagnato da una Guida, invocano la morte per la loro infermità causata dall'amore. Dal loro incontro nasce l'occasione per una descrizione delle proprie sventure e delle bellezze delle donne amate, in cui sono riconoscibili anche i topoi della descrizione muliebre tipici della poesia del tempo. L'apparizione di un sacerdote d'Amore compie il miracolo di far riacquistare la vista ai tre ciechi. Questo è in breve l'argomento della "tragicommedia", fortunato genere che trova il precedente immediato nelle ecloghe pastorali del tardo Quattrocento e del primo Cinquecento. Fra le numerosissime edizioni uscite nel corso del sec. XVI, le prime riportano solo il Dialogo di tre ciechi, mentre dal 1530 il testo viene completato dalla Luminaria, nella quale compare il sacerdote d'Amore che fa riacquistare la vista ai ciechi, come lieto epilogo della vicenda, a formare l'intero testo poi conosciuto e tramandato come Cecaria.
Alcune edizioni della Cecaria portano come nome dell'autore Antonio Epicuro Caracciolo, o Epicuro "Napolitano", e questi nomi hanno generato molti dei problemi di identificazione dell'autore. Alcuni lo hanno confuso con il contemporaneo Pietro Antonio Caracciolo e con il Notturno Napoletano, mentre altri hanno ritenuto che il "napolitano" del titolo indicasse il luogo di nascita del suo autore. Il più grave dei fraintendimenti è stato quello operato da F. Sansovino nel commento dei versi dell'ecloga X dell'Arcadia di Sannazaro (Venetia 1578): "a guisa d'un bel sol fra tutti radia / Caracciol, che 'n sonar sampogne o catera / non troverebbe il pari in tutta Arcadia". Identificando il Caracciolo (Giovan Francesco) con l'autore della Cecaria, il Sansovino ha reso possibili successivi errori che hanno, fra l'altro, portato il Corsignani (De virisillustribus Marsorum) a modificare i versi di Sannazaro in "... radia / Epicur ...". Inoltre si deve notare che, essendo Venezia il luogo di stampa di tutte le edizioni della Cecaria, l'indicazione "napoletano" si doveva riferire al luogo in cui l'autore operava e dove il testo era stato prodotto.
Nel 1528 l'E. ottenne, grazie all'interessamento del marchese del Vasto, la carica pubblica di maestro portulano nella provincia di Terra di Lavoro e contado di Molise, e, sempre nello stesso anno, fu chiamato da Antonio Rota come precettore dei suoi due figli, Berardino e Alfonso. La famiglia Rota possedeva terre nella regione dei Marsi e si può ipotizzare che, avendo conosciuto l'E. fin dagli anni della giovinezza, avesse poi svolto qualche ruolo nella sua decisione di trasferirsi a Napoli. Forse grazie a questa conoscenza diretta nel 1528, quando Antonio Rota decise di affidare l'educazione dei suoi due figli a un precettore, si rivolse all'Epicuro. Mentre si hanno numerosi documenti che attestano il rapporto fra i Rota (soprattutto Berardino) e l'E., documenti che fanno ritenere che egli fosse un vero e proprio "familiare" di casa Rota, oltre che precettore, scarsi sono quelli riferiti all'ufficio di maestro portulano. Ottenuto l'incarico per intercessione del marchese del Vasto e del marchese Gonzaga, l'E. fu costretto dopo aver richiesto e ottenuto nuove raccomandazioni, a ricomprarlo, perché non riconfermatogli in seguito all'invasione francese.
I due incarichi (quello pubblico e quello privato di precettore in casa Rota) sono anche testimonianza della notorietà raggiunta a Napoli dall'E. e segnano l'inizio di una sua più intensa vita pubblica.
Un aspetto particolare della fama dell'E. è dato dai componimenti poetici che gli vengono dedicati o all'interno dei quali è nominato. Ricordiamo Giano Anicio, che gli dedica una delle sue Satyrae, In Epicurum de immortalitatem animorum (Neapoli 1532, p. 77v), il fratello Cosimo Anicio, che gli dedica diverse poesie latine fra quelle raccolte nei Poemata (Neapoli 1531 pp. 12r, 50rv), Giovan Berardino Fuscano che ricorda l'E. nelle Stanze sovra la bellezza di Napoli (Roma 1531, p. 32) e Antonino Lenio che gli riserva un'ottava del suo Oronte gigante del 1531 (a cura di M. Marti, Lecce 1985, p. 329). Ricordiamo ancora Giovanni Filocalo di Troja, nel Carmen nuptiale (Neapoli 1533), Alfonso De Gennaro nel Carmen sacrum (Neapoli 1533) e una poesia latina di Ettore Palumbo, calabrese, nei Carmina poetarum nobilium raccolti da Giovan Paolo Ubaldini (Mediolani 1563), che contiene anche un Incomptum epigramma dell'Epicuro. Ancora a questi anni risale una lettera di Vittoria Colonna a Berardino Rota, nella quale si ricorda il "mio Epicuro". Tutti questi personaggi rimandano ai due più importanti punti di incontro dei letterati napoletani del tempo, l'Accademia Pontaniana e il circolo che si riuniva presso Vittoria Colonna. Con ogni evidenza l'E. partecipò alle riunioni dell'ultimo periodo di attività dell'Accademia Pontaniana, quando era diretta da Pietro Summonte e da Scipione Capece, e, grazie anche alla conoscenza sopra ricordata con il marchese del Vasto, poté entrare in contatto con Vittoria Colonna e Paolo Giovio, che lo ricorda nel De viris litteris illustribus (in G. Tiraboschi, Storia della lett. ital., IX, Napoli 1786, pp. 276 ss.).
La notorietà dell'E. trovò un'ulteriore conferma quando, nel 1535, l'imperatore Carlo V visitò Napoli. Già noto per aver composto imprese per diversi personaggi del tempo, fra i quali il marchese del Vasto e i Rota, l'E. venne incaricato di organizzare i festeggiamenti per l'ingresso dell'imperatore nella città, e in particolare creò i motti che ornavano le statue e gli archi di trionfo costruiti per l'occasione.
Nel 1536, a sessantaquattro anni, l'E. sposò una donna di molti anni più giovane di lui, Giulia de Dato, dalla quale ebbe tre figlie, Delia, Laura e Camilla, e un figlio maschio, Scipione, nato intorno al 1540. In occasione del matrimonio Giovanni Antonio della Gatta inviò all'E. un capitolo nel quale, fra l'altro, vengono nominati molti dei suoi amici. Ancora al matrimonio dell'E. si riferisce una lettera del 1548 di Paolo Giovio a Berardino Rota. Nel 1538, raggiunta la tranquillità economica, lasciò l'ufficio pubblico di maestro portulano ad Alfonso Rota. Gli ultimi anni della vita trascorsero per l'E. e la sua famiglia nella casa adiacente a quella dei Rota, presso la chiesa di S. Chiara. Fu nel 1546 tra i promotori delle riunioni dell'Accademia dei Sereni, per la quale compose un epigramma, e forse scrisse in questi anni una seconda commedia, la Mirzia.
Tre pastori, Trebazio, Filerio e Ottimio, inseguono l'amore delle ninfe Marzia e Venalia e della dea Diana. Dopo un complicato intreccio di vicende che ricorda, anche per il particolare uso di artifici quali la perdita del velo da parte della ninfa e l'apparizione di un satiro con funzione consolatoria, quello delle favole pastorali più note (l'Egle di Giraldi Cinzio e l'Aminta di Tasso), ogni pastore riuscirà ad avere la donna amata. Mai edita in vita dall'E., la Mirzia rimase fra le sue carte e venne probabilmente in possesso di Fabio Ottinelli, anch'egli appartenente all'Accademia dei Sereni, sotto il cui nome venne pubblicata a Vicenza nel 1613 con il titolo di Trebatia. La Mirzia era stata inoltre ridotta in prosa e stampata a Parma nel 1582 come Martia, pastoral comedia di Selvaggio de' Selvaggi. Scoperto in un codice della Biblioteca Alessandrina di Roma (ms. 195), il testo venne attribuito all'E. da Palmarini, che non conosceva le precedenti edizioni e che lo pubblicò nel 1887. Nonostante le argomentazoni e i confronti anche stilistici con la Cecaria portati avanti dal Palmarini, il problema dell'attribuzione all'E. della Mirzia è stato ancora riconsiderato da Pèrcopo e da Parente.
L'E. morì a Napoli nel 1555, pochi mesi dopo il figlio Scipione. Berardino Rota, che aveva inviato all'E. e a sua moglie un epigramma consolatorio in occasione della morte del figlio, scrisse l'epitaffio per la tomba dell'E., che si trova nella chiesa di S. Chiara, e compose diverse poesie in latino e in volgare in ricordo del suo maestro.
La presenza dell'E. nella vita letteraria napoletana negli anni in cui vi operavano figure come Pontano e Sannazaro, e poi Berardino Rota e Luigi Tansillo, fu contraddistinta da una produzione di testi per lo più occasionali e da una fama che potrebbe far supporre, nonostante le poche testimonianze a riguardo, che vari suoi testi non ci siano pervenuti.
La produzione di rime comprende alcune poesie in latino, soprattutto epigrammi di carattere occasionale, e poesie in volgare. Di queste ultime solamente un Capitolo di povertà (pubblicato in appendice a diverse edizioni della Cecaria), quattro sonetti e due madrigali furono pubblicati vivente l'E.; delle altre poesie in volgare si ha testimonianza in un manoscritto vaticano (Reg. Lat. 1591), che contiene anche il testo della Cecaria. Il piccolo canzoniere, mai raccolto, delle poesie dell'E., composto di 12 sonetti, 5 canzoni, 4 madrigali e 3 capitoli, e si può considerare, nonostante la fama coeva dell'autore, un esempio di "gusto medio" della poesia napoletana in quel periodo di transizione che porterà alle Rime di Luigi Tansillo. E proprio dall'E. prende le mosse l'esperienza poetica di Tansillo, che, appena diciassettenne, trasse diversi spunti dalla Cecaria per la composizione dell'egloga I due pellegrini.
Un altro aspetto della fama dell'E. è dato dalla sua abilità nel comporre imprese. Scipione Ammirato, che dedica all'E. uno dei ritratti compresi negli Opuscoli, nel dialogo Il Rota overo delle Imprese fa ricordare più volte al protagonista le imprese composte dall'Epicuro.
Fra produzione lirica e teatrale, fra imprese e attività di precettore in una delle case più note di Napoli, la figura dell'E., grazie anche, a sentire le testimonianze coeve, a una particolare piacevolezza di spirito, attraversa la cultura letteraria napoletana della prima metà del sec. XVI, lasciando due testi significativi, anche se non centrali, per la storia dello sviluppo del dramma pastorale in Italia, e che troveranno una eco europea nei rapporti con l'Albanio di Garcilaso de la Vega.
Le opere dell'E. sono state pubblicate da I. Palmarini, I drammi pastorali di Antonio Marsi detto l'Epicuro Napolitano, I-II, Bologna 1887-88, e da A. Parente: M. Epicuro, Idrammi e le poesie italiane e latine, Bari 1942.
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