BRANDOLINI, Marcantonio
Figlio di Brandolino e di Elisabetta Malatesta, discendente da una antica famiglia di feudatari del castello di Valmareno, nel Trevigiano, fu titolare dell'abbazia benedettina di Nervesa, a quanto pare senza aver ricevuto gli ordini sacri. Le prime notizie su di lui risalgono al 1605, allorché un processo avviato a suo carico dalla Repubblica veneta fu, insieme a quello contro il canonico Saraceni, l'occasione che provocò il lungo scontro giurisdizionale tra Venezia e la Santa Sede, culminato nell'interdetto.
Ad accusare il B. presso il Consiglio dei dieci fu un suo fratello, il conte Giulio Camillo: imputazioni gravissime, di inaudite gesta brigantesche, di infimi omicidi, persino di parricidio; e, per buona misura, l'accusa di avere "in diverse vie et modi fatto diverse malie, incantesimi, strigamenti, battizzamenti di calamite con le cerimonie di Santa Chiesa, e tenuta pratica di strighe et strigoni..." (Molmenti, 1880, p. 365).
Tale si diceva che fosse, - e con ogni probabilità era - l'uomo destinato a diventare oggetto della clamorosa vertenza giurisdizionale. Non pare tuttavia che la condizione ecclesiastica del B. fosse così cospicua da meritare Peccezionale interessamento della S. Sede, tanto più che, se la gravità dei reati chiamava in causa il Consiglio dei dieci, essi erano tutti di carattere comune (salvo l'accusa di stregoneria: ma non fu questa a provocare la contesa). Il processo del B. venne però a inserirsi in una situazione di grandissima tensione tra Venezia e la Santa Sede e nella vertenza confluirono i più vari risentimenti: per l'ospitalità concessa da Venezia all'ambasciatore anglicano Wotten, per l'aggravarsi della pressione fiscale sul clero in seguito alle nuove necessità militari della Repubblica, per la politica di limitazione della manomorta, per la questione del taglio del Po, per gli impedimenti frapposti alla costruzione di nuove chiese. Fu così che, da poco eletto Paolo V, la Curia scatenò l'offensiva contro la Repubblica affidando al nunzio Orazio Mattei la più intransigente protesta contro alcuni recenti provvedimenti del governo veneto, tra i quali appunto l'arresto del B., il processo del quale fa rivendicato dalle autorità ecclesiastiche. La Repubblica replicò nel più fermo dei modi e, mentre nel caso specifico si appellava al carattere comune delle imputazioni, proclamava di non voler rinunziare alle proprie prerogative di Stato sovrano.
La contesa scavalcava così i casi personali del B., il quale intanto se ne stava pressocché dimenticato nella sua segreta, a temere il peggio, a maggior ragione dopo che la situazione precipitò in aperta rottura in seguito all'interdetto del 16 apr. 1607. In una deposizione resa all'avogadore Boldù, il B. cercò di ricondurre il proprio caso a una più favorevole dimensione - o almeno a quella che tale gli sembrava - rinunziando del tutto a invocare a propria difesa la sua condizione ecclesiastica, assicurando - e dal momento che già si trovava in carcere certo non gli costò troppo - di rimettersi del tutto alla "Serenissima Signoria, alla quale volontariamente venirei di lontanissime parti, per sottopormi al prudentissimo suo giudizio", e anzi dichiarandosi pronto "se questo mio habito in qualche modo turba al servitio pubblico" a rinunziare anche alla sua abbazia. A queste proteste il B. aggiungeva il peso di influenti relazioni, cui faceva cenno un dispaccio dell'ambasciatore a Roma Tommaso Contarini, del 18 ag. 1612, ricordando come da tali protezioni il Senato fosse stato tentato ad una completa assoluzione.
Non furono però queste personali risorse e iniziative a trarre fuori dal carcere il B., ma i nuovi rapporti stabilitisi tra Venezia e Roma in seguito alla mediazione del re di Francia Enrico IV. Tra le clausole del compromesso fra le due potenze contendenti vi fu quella della consegna del B. alla S. Sede, alla quale la Repubblica si indusse attraverso la laboriosa finzione della consegna dell'abate al re di Francia e da questo al papa.
In teoria la magistratura romana non avrebbe dovuto mostrarsi più indulgente di quella veneta verso i gravissimi misfatti imputati al Brandolini. In pratica egli se la cavò sostanzialmente senza danni, sia che la S. Sede intendesse così celebrare il parziale successo di prestigio ottenuto con la consegna dell'abate, sia che in favore di questo fossero intervenuti ancora gli autorevoli personaggi dai quali l'ambasciatore Contarini lo riteneva protetto. Su proposta del nunzio a Venezia il B. fu infatti soltanto condannato al confino in Amelia. Del resto anche la relegazione nella cittadina umbra dovette sembrare troppo gravosa al B., che certo desiderava ardentemente tornare al primo teatro delle sue imprese. La Curia non si mostrò dapprima incline a soddisfare questo desiderio e da parte sua il Senato veneziano, puntualmente informato dal Contarini dei maneggi del B., invitava l'ambasciatore a respingerli con ogni fermezza. Ma il B. non disarmò: godeva alla corte romana di potenti amicizie, tra le quali, come informava il Contarini nel dispaccio del 10 maggio 1614, quella dei cardinali Bonifacio Bevilacqua e Domenico Ginnasio. Poté così ottenere licenza di recarsi a Roma, "con disegno - scriveva l'ambasciatore - di ricercar la permuta del confine in una città di Romagna, per esser più vicino a far li fatti suoi" (Molmenti, 1879). Non si sa quali risultati ottenesse allora: in ogni caso di lì a poco lo si ritrova, nonché in Romagna, addirittura in patria, a Valmareno; segno che finalmente la Repubblica - non si sa precisamente quando e per quali motivi - si era piegata all'indulgenza. Ma il B. non ebbe modo di rallegrarsene a lungo: il 25 maggio 1616, scontratosi insieme a due suoi figli naturali e ad una masnada di bravi con una schiera altrettanto nutrita capeggiata da certi suoi cugini, Iacopo e Giovanni Brandolini, forse su mandato del conte Giulio Camillo, fu massacrato a colpi di calcio d'archibugio.
Fonti e Bibl.: Paolo V e la repubblica veneta. Nuova serie di documenti (1605-1607)..., a cura di E. Cornet, in Archivio veneto, III (1873), 5, I, pp. 27-91; II, pp. 222-318; P. G. Molmenti, L'abate B., in Rassegna di politica,scienze,lettere ed arti, III (1879), pp. 109 a.; Id., La fine dell'abate B.,ibid., IV (1879), pp. 368 s.; Id.,Ancora dell'abate B.,ibid., VI (1880), pp. 363-65; Id., Vecchie storie, Venezia 1882, pp. 83 s.; R. Cessi, Storia della Repubblica di Venezia, II, Milano1946, p. 146.