DE SANTIS, Marc'Antonio
Nacque, secondo il Toppi, a Nocera de' Pagani nel Principato Ultra (ora Nocera Inferiore, prov. di Salerno). Per quanto non del tutto attendibile - lo stesso Toppi ignora l'esistenza del Secondo discorso del D. - è questa l'unica notizia biografica segnalata da lui per un personaggio che pure ricoprì, nella Napoli a cavallo tra il XVI e il XVII secolo, un ruolo di tanta importanza da venir definito dalla letteratura ottocentesca "oracolo" del Collaterale, quando non addirittura, erroneamente, "ministro" di quello stesso Consiglio.
Uomo d'affari di discreta fortuna economica - nel 1596 risulta interessato nel Banco Ravaschieri, Spinola e Lomellino per 4.005 ducati e in quello Gentile per 5.177, mentre nel 1603 il suo deposito presso il primo istituto toccava la cifra di 12.186 - il D. godette, senza dubbio, di forte credito a palazzo. Nel 1610 fu designato dal Collaterale, insieme con i genovesi Paolo Grillo e Giacomo Fornari, il fiorentino Benedetto Biffoli, il bergamasco Pietro Cortone e il fiammingo Antonio Antopel, come rappresentante della nazione napoletana in seno alla commissione che doveva esaminare i problemi finanziari relativi all'approvazione del donativo di mezzo milione di ducati.
Già nel 1602, del resto, il D. era stato nominato, con il mercante Ilarione Scarlattini, consulente della Regia Camera della Sommaria nella controversia tra la corte spagnola e Agostino ed Ottavio Belmosto, congiunti di Antonio, il banchiere genovese che nel 1594, d'intesa con Madrid, era stato protagonista di un'operazione di alta finanza.
Agli inizi degli anni '90, infatti, nel Regno di Napoli, il disavanzo del bilancio dello Stato aveva raggiunto una cifra iperbolica su cui gravavano, in misura pesante, gli interessi passivi, contemporaneamente, l'indebitamento verso l'estero toccava punte altissime. Si decise, così, di porre mano a una conversione della rendita pubblica - allora rappresentata dalla alienazione di cespiti di entrate statali - dando a coloro che non volessero adattarsi al nuovo tasso d'interesse l'opportunità della restituzione dei capitali a suo tempo ceduti. Il 27 ott. 1594 Filippo II e Antonio Belmosto stipulavano un accordo in base al quale quest'ultimo si impegnava, in capo a due anni, a far abbassare tutte le entrate del Real Patrimonio alienate a prezzo alto, ed a ridurle al 6 o 7%, mantenendo inalterato il patto di retrovendendo. A tale scopo egli avrebbe trasferito, dai "regni di Spagna a sue spese", 1.000.000 di scudi "in tanti argenti in pasta o dinari contanti et quelli ridurre in moneta corrente" (De Rosa, p. 270), per restituire il prezzo dei cespiti alienati dalla corte. In cambio avrebbe incamerato il beneficio della riduzione dell'interesse, interamente per i primi due anni, e nella misura di un terzo per i successivi dieci. Ancora, il re concedeva al Belmosto il permesso di esportare dal Regno 500.000 scudi "in oro o in argento ... con obbligo di detto fattore Belmosto di dover immettere l'istessa summa ... fra termine di un anno dal di dell'estrattione" (ibid., p.272), offrendogli così la possibilità di trarre profitto dalla differente altezza dei cambi sulle diverse piazze. Ma, mentre il Belmosto tenne fede al suo impegno, il governo non gli corrispose mai il pattuito, sostenendo che egli non aveva presentato la domanda di estrazione nei tempi stabiliti e all'autorità competente: di qui la causa intentata dagli eredi davanti alla Sommaria, con gli esperti chiamati a valutare il danno subito dal mancato gioco sui cambi.
Nel Secondo discorso intorno alli effetti che fa il cambio in Regno. Sopra una Risposta che è stata fatta avverso del primo, edito a Napoli nel 1605 - vale a dire mentre svolgeva la sua consulenza - il D. attribuì a due cause il disordine del cambio di quegli anni: la prima era proprio la venuta del Belmosto a Napoli con la massiccia immissione di ducati d'argento che aveva alterato il rapporto fra questa moneta e l'oro, provocando un fortissimo rialzo di quest'ultimo; la seconda era il decreto che, nel 1597, aveva sancito il divieto di esportazione di valuta dalla Spagna e, dunque, la sospensione dei pagamenti.
Ma, al di là della discussione di questi due elementi eccezionali. il D. non faceva che ribadire quanto aveva gia espresso nel suo primo lavoro, il Discorso ... intorno alli effetti che fa il cambio in Regno, Napoli 1605. L'opera era stata redatta e data alle stampe per ordine del presidente del Sacro Regio Consiglio, Pietro de Vera, allo scopo di essere poi sottoposta al vaglio di un comitato formato dalle più alte autorita economico-finanziarie di Napoli - quale il luogotenente della Regia Camera della Sommaria, Gio. Alonso Xuares - e delle nazioni estere.
La teoria economica del D. si basava esclusivamente sull'assioma che l'altezza del corso dei cambi fosse l'unica ragione della penuria di moneta nel Regno di Napoli, in quanto provocava un errato comportamento degli operatori napoletani e stranieri: i primi trovavano vantaggioso concludere i propri pagamenti all'estero in contanti, laddove i secondi avevano tutto l'interesse ad effettuarli nel Regno in cambiali. In detti scambi, infatti, il parametro di riferimento era lo scudo d'oro di Piacenza (o, meglio, della sua fiera) e, tra questo e le divise d'argento che rappresentavano l'unità di misura nel sistema monetario di ogni Stato, vi era un rapporto ben definito; questo - nel caso di Napoli - era, a parità legale, di uno scudo per tredici carlini, ma, di fatto, di uno a quindici. Perciò, all'operatore napoletano che aveva un debito all'estero conveniva pagare in contanti secondo il rapporto legale, favorendo così una fuoruscita di moneta dal Regno, mentre, per lo stesso meccanismo, nel caso inverso, era remunerativa la canibiale.
Sarebbe bastato, dunque, secondo il D., emanare una prammatica che sancisse, col ribasso legale del cambio, il divieto a mercanti e banchieri di pagare o accettare effetti ad un saggio diverso da quello ufficiale, per porre rimedio alla mancanza di moneta.
Ancora, il D. identificava un'altra ragione dell'altezza del cambio nella mancata conversione, da parte dei forestieri, delle terze delle entrate che essi godevano nel Regno, ed anzi nella precipitosa estrazione che essi ne facevano in contanti. E ciò perché a Napoli non vi era "più che vendere liavendosi detti forestieri sorbito il sangue di tutti i particolari ... in tanto che a nessuno resta quasi più vita, né roba per obligarla" (Discorso, p. 37).
Era qui chiarissima la polemica contro la massiccia presenza economico-finanziaria genovese nel Sud della penisola, tanto che il D. suggeriva addirittura di bloccare i pagamenti agli stranieri per quattro o sei mesi, in modo da verificare l'effetto di questo provvedimento sulla bilancia del cambio. Era quindi ovvio che proprio da Genova venisse la prima confutazione di queste tesi, con una Risposta sopra il Discorso fatto per Marcantonio De Santis intorno alli effetti che fa il cambio in Regno, edita tra il marzo ed il luglio 1605, anonima ma attribuita ad "un gentiluomo assai pratico di negozi", che fu annessa al Secondo Discorso del D. del 1605.
L'autore si dichiarava perfettamente d'accordo col D. sul nesso tra altezza del cambio e penuria del numerario, ma era contrario all'emanazione della prammatica, "essendo il cambio una attione volontaria", e la legge "attione, che da sé lega, e sforza", e "non farà altro effetto se non annichilare del tutto il commertio del cambio" (Risposta, p. 3).
Per quanto riguardava, poi, il tipo e l'estensione dell'intervento genovese, l'anonimo ne dava - analogamente a quanto farà Antonio Serra - una valutazione di necessità: un dato di fatto ineliminabile, del quale occorreva prendere coscienza, senza ipotizzare misure inutilmente vessatorie. In realtà, egli continuava, la vera causa di mancanza di contante risiedeva nei banchi pubblici, nella struttura eminentemente fiduciaria che essi avevano nel Regno, per cui "tutto si paga in Banco con una scritta, senza denari ... mediante questa comodità ... non si viene a sentire il mancamento, che vi è di moneta" (ibid., p. 7). La conclusione era, dunque, "lasciar libero il commercio dell'estrattione del contante" (p. 10) e, secondo il più tradizionale espediente monetario, "raccogliere tutte le monete scarse..., e come false tagliarle, e battere di quello argento, buona moneta" (p. 8).
Com'era prevedibile, essendo stati i suggerimenti sia del D. sia dell'anonimo sollecitati da circoli governativi, essi vennero accolti dall'allora viceré di Napoli, conte di Benavente, e tradotti in due prammatiche: il 30 giugno 1607 si Prescriveva l'abbassamento e la fissazione del cambio; il 6 giugno 1609 si imponeva il ritiro in Zecca e il cambio a peso di tutte le monete cattive. Ma certo, una così meccanica applicazione di progetti già approssimativi non poteva minimamente guarire i mali - aggravati dalla carestia del 1606 - dell'economia napoletana, tanto che, ben presto, i due provvedimenti furono dapprima sospesi, e in seguito abrogati. Il primo, con le prammatiche dell'8 nov. 1607, 22 ott. 1608, 31 maggio 1609; il secondo, soltanto sei giorni dopo la sua emanazione, con il bando del 12 giugno 1609.
Bisognerà infatti attendere il secondo conte di Lemos, Pietro Ruiz de Castro e la sua regolamentazione del 15 ott. 1612, per avere in materia economico-finanziaria una visione più ampia ed organica.
L'opera scientifica del D. ha sempre goduto pessima fama presso gli economisti: l'unico merito che le è stato riconosciuto è di aver stimolato le critiche di Antonio Serra, dando così origine al Breve trattato delle cause che possono far abbondare li regni d'oro e d'argento dove non son miniere con applicazione al Regno di Napoli (Napoli 1613). Al benessere economico ed alle amicizie potenti del D. sono state contrapposte la triste sorte del Serra, prigioniero nelle carceri della Vicaria, e la sua scarsa udienza negli ambienti politici del tempo; contro il primitivismo e la grossolanità delle teorie del primo sono state esaltate la scientificità e le geniali anticipazioni del secondo; all'ottimistica ed ingenua valutazione della prosperità ed industriosità del Regno, "di cui tutto il Mondo tiene necessità et esso di nessuno" (Discorso, p. 30), è stata ovviamente preferita la diagnosi amara - ma moderna e complessa - di un Mezzogiorno d'Italia geograficamente sfortunato, privo di risorse naturali, di industrie e di traffici, gravato da un'amministrazione inefficiente e da una popolazione pigra.
Ma se è vero che "per vari decenni non vi fu nulla di paragonabile all'opera di Serra" (Schumpeter, p. 237), è anche fuori di dubbio che la discussione tra questo e il D. - fra la somma delle energie produttive e l'assolutizzazione dell'elemento monetario - segna la nascita dell'economia politica come scienza tecnica, autonoma, non più subordinata alla teologia ed alla morale, come fino ad allora la scolastica l'aveva voluta.
Fonti e Bibl.: Cenni biografici spesso errati in N. Toppi, Biblioteca napoletana, Napoli 1678, p. 204; F. Salfi, Elogio di A. Serra primo scrittore di economia civile, Milano 1802, p. 23; L. Bianchini, Storia delle finanze del Regno delle due Sicilie, a cura di L. De Rosa, Napoli 1971, pp. 4, 323. Utilissimo, anche se non sempre attendibile nelle diagnosi, R. Colapietra, Introduzione aProblemi monetari negli scrittori napoletani del Seicento, I, Roma 1973, pp. 12, 16-25. Sul rapporto fra Filippo II e Antonio Belmosto, fondamentale L. De Rosa, Un'operazione d'alta finanza alla fine del '500, in Arch. stor. per le prov. napol., XXXVII (1957), pp. 267, 274, 281. Per le prammatiche del Benavente, L. Giustiniani, Nuova collezione di prammatiche del Regno di Napoli, VII, Napoli 1804, pp. 89-92 (30 giugno 1607), pp. 92-96 (8 nov. 1607), p. 96 (31 maggio 1609), pp. 258-263 (6 giugno 1609), p. 263 (12 giugno 1609); per quella del Lemos, ibid., X, pp. 300-333 (15 ott. 1612). Per la valutazione teorica dell'opera del D., T. Fornari, Studii sopra A. Serra e M. D., Pavia 1880, su cui la rec. di V. Cusumano, in Arch. distatist., V (1880), pp. 72-78; M. De Stefano, Banchi e vicende monetarie nel Regno di Napoli 1600-1625, Livorno 1940, pp. 56-67; frequentissimi richiami al D. sono, ovviamente, in tutta la lunga bibliografia sul Serra, sostanzialmente omogenea nel suo giudizio negativo, dal classico A. De Viti de Marco, Le teorie econ. di A. Serra, in Saggi di economia e finanza, Roma 1898, pp. 10 s. al recente A. M. Fusco, A. Serra: un mercantilista?, in Categorie del reale e storiografia. Aspetti di continuità e trasformazione nell'Europa moderna, a cura di F. Fagiani e G. Valera, Milano 1986, pp. 209-221. Cfr., da ultimo, J. A. Schumpeter, Storia dell'analisi economica, I, Torino 1959, pp. 236 s., 421, 433 s.