MAOMETTO (deformazione europea, risalente al Medioevo. dell'arabo Muḥammad)
Fondatore della religione e dello stato musulmano, nato alla Mecca fra il 570 e il 580 d. C., morto a Medina il lunedi 8 giugno 632.
La data della nascita, assai verosimilmente ignota allo stesso M., già sul finire del primo secolo dell'ègira fu collocata dai musulmani nel lunedì 12 del mese di rabī‛ I d'un anno lunare incerto, per simmetria con altre date notevoli della sua vita; e questa ricorrenza si suole celebrare ogni anno con grande pompa, a partire dagl'inizî del sec. XIII d. C.. nei paesi musulmani che non spingono il loro puritanesimo fino a rinnegare questa festa ignota alle prime generazioni islamiche. La data di lunedì 20 aprile 571, favorevolmente accolta anche da modernissimi scrittori musulmani, fu dedotta da S. de Sacy (1803) e dall'egiziano Mahmoud efendi (1858, poi Maḥmūd pascià al-Fálakī) mediante calcoli ingegnosi, ma fondati su basi storiche la cui fallacia è ormai fuori di dubbio.
La vita di M. si divide in due parti nettamente distinte per la diversità della posizione da lui assunta: il periodo meccano, che dalla nascita va sino alla sua ègira (v.), o emigrazione a Medina (autunno 622), e il periodo medinese dall'ègira alla morte. Intorno al primo, che comprende la fase puramente religiosa di M., le notizie sicure sono poche e con gravi lacune; gran parte delle informazioni date dai biografi musulmani a suo riguardo sono frutto di leggende o di congetture e interpretazioni arbitrarie di passi del Corano. Migliore documentazione storica ci viene fornita per il secondo periodo, corrispondente alla fase non piìi soltanto religiosa, ma anche politica, legislativa e militare dell'attività di M. Per ricostruire l'evoluzione del pensiero religioso e civile di M., e talora anche per l'apprezzamento critico di racconti tradizionali circa fatti concreti, è fonte preziosa e autentica il Corano stesso, dopo che Th. Nöldeke nel 1860 riuscì a stabilire con molta approssimazione l'ordine cronologico dei frammenti il cui complesso costituisce quel libro (v.).
1. Il periodo meccano. - M. nacque da famiglia, a quanto sembra di non grande importanza, della gente dei Banū Hāsīm, a sua volta frazione dei Coreisciti (Quraish, v.), ossia di quell'insieme di genti, supposte discendenti da un antenato comune, che costituiva la grande maggioranza della popolazione della Mecca e comprendeva tutta la classe ricca e tutti gli ottimati. Figlio postumo di ‛Abd Allāh, ancor fanciulletto perdette la madre Āminah e quindi fu allevato dallo zio paterno Abū Tālib. La sua prima giovinezza, come risulta dal Corano, si svolse nelle strettezze, dalle quali sembra averlo tolto il matrimonio con la ricca ed attempata vedova Khadīgiah, appartenente alla categoria dei grandi commercianti coreisciti, organizzatori di famose carovane dirette alla Palestina e alla Siria o all'Arabia meridionale. L'agiatezza così conseguita ebbe verosimilmente grande influenza sulla formazione, sullo sviluppo e sulla fortuna della sua vocazione religiosa. Rimane e rimarrà sempre un mistero come e quando in lui, professante sino allora il tradizionale culto pagano politeistico dei suoi concittadini, siano sorti la fede monoteistica, l'entusiasmo per essa, il convincimento di ricevere da Dio messaggi per mezzo di un essere sovrannaturale (a Medina da lui identificato con l'angelo Gabriele) trasmettitore fedele delle testuali parole divine, e infine la persuasione che Dio gli faceva obbligo di render noti quei messaggi ai suoi concittadini e di predicare la fede monoteistica in opposizione al paganesimo e con pratiche di culto ben diverse dalle pagane. I suoi primi informatori furono quasi certamente cristiani, appartenenti alla categoria di commercianti non arabi di passaggio per la Mecca, oppure schiavi d'origine abissina o siro-palestinese o mesopotamica; in ogni caso cristiani di fede ardente, ma non molto versati nelle dottrine della loro religione, imbevuti di eresie, in un certo senso giudaizzanti; onde si spiegano certi errori gravissimi di M. in materia biblica e a proposito di elementi dottrinali cristiani e giudaici, benché spesso sia, impossibile decidere con Sicurezza se gli errori e le deformazioni vadano imputati ai primi informatori o a M. medesimo.
Nella concezione di Maometto durante il periodo di vita alla Mecca, come fu messo in luce da Chr. Snouck Hurgronje, non si trattava di fondare una religione nuova. La sua idea era che molti popoli stranieri, fra i quali i cristiani e gli ebrei, e anche alcuni popoli d'Arabia completamente estinti, avessero ricevuto da Dio, a varie riprese in tempi diversi, testi sacri per mezzo di "profeti loro connazionali, incaricati di a battere il politeismo e l'idolatria e di predicare la vera religione e la vera morale, come pure di insegnare le pratiche del culto, nelle quali ha parte essenziale la recitazione salmodiata di testi rivelati nella lingua nazionale. In, altre parole, cristianesimo e giudaismo per M. non erano se non le legittime forme nazionali di una stessa dottrina religiosa rivelata direttamente da Dio ai suoi profeti o inviati. Gli Arabi delle stirpi non estinte non avevano mai avuto siffatte rivelazioni e siffatti testi sacri da recitare liturgicamente in arabo; perciò vivevano nelle tenebre del politeismo. M. è dunque il primo profeta o inviato arabo agli Arabi; la religione ch'egli predica, i testi sacri che gli vengono rivelati non differiscono per la sostanza dalle altre religioni monoteistiche; la testimonianza della. "gente della Scrittura", cioè dei cristiani e degli ebrei, viene invocata nelle parti antiche del Corano a testimonianza della verità delle dottrine predicate da M., il quale non si propone di convertire ebrei e cristiani (già possessori della vera fede e a lui stranieri), ma soltanto gli Arabi pagani. Le idee fondamentali intorno alle quali si aggirava la predicazione di M. alla Mecca erano le seguenti: esistenza di un Dio unico, dal potere illimitato, creatore di quanto esiste fuori di lui; obbligo fatto agli uomini della più completa sottomissione alla divinità; gravissime punizionì inflitte già in questo mondo ai popoli che furono ribelli ai profeti loro connazionali inviati da Dio e perseverarono nell'incredulità; esistenza del paradiso e dell'inferno; futura terribile catastrofe della fine del mondo, susseguita dalla risurrezione dei corpi e dal giudizio universale. Accanto a questi insegnamenti dottrinali, dei quali faceva parte anche la credenza negli angeli, nel diavolo e nei ginn (v.), non mancavano i precetti morali: osservanza della preghiera rituale ogni giorno, elemosine, riprovazione dei ricchi duri di cuore, cura degli orfani, biasimo dell'usura, ecc.
Nell'ambiente famigliare la predicazione di M. trovò consenzienti (p. es. Khadīgiah e il cugino ‛Alī, il futuro quarto califfo), increduli (lo stesso zio paterno Abū Tālib che l'aveva allevato) e qualche accanito oppositore (Abū Lahab); fuori dell'ambiente famigliare attrasse alcune persone della buona borghesia (come Abū Bakr, poi successore di M. nel governo dello stato musulmano), ma soprattutto uomini di bassa condizione e schiavi. Invece gli ottimati, dopo un breve periodo di non sfavorevole attesa, gli si volsero contro, pur senza ricorrere a violenze materiali. La nuova religione appariva sacrilega rispetto al culto avito che si collegava strettamente con la venerazione per il santuario meccano della Ka‛bah (v.), meta di annuo pellegrinaggio da ogni parte dell'Arabia e fonte di notevoli guadagni per la città; poteva essere interpretata come un tentativo coperto di dare a M. una supremazia sui suoi concittadini; urtava i maggiorenti con le sue minacce di castighi divini a coloro che non l'abbracciassero, con l'eguaglianza che nelle pratiche cultuali poneva tra i grandi e gli umili, con le acerbe invettive contro i ricchi avari di elemosine, con l'affermazione della risurrezione dei corpi e del giudizio universale, con il fatto stesso che presunto inviato di Dio per proclamarla fosse semplicemente un uomo, e per giunta un uomo di modesta condizione sociale. Molti consideravano M. come una persona invasata dai ginn ed equiparavano le rivelazioni in prosa rimata ch'egli affermava di ricevere da Dio alle rivelazioni che, secondo credenza assai diffiusa, i ginn facevano agl'indovini per i loro responsi e ai poeti per i loro versi. Richiesto di miracoli tangibili, M. rispondeva che il suo miracolo stava nel ricevere messaggi da Dio; risposta che, fra l'altro, sembrava porre M. molto al di sotto degli altri profeti, dei quali egli stesso narrava le azioni miracolose compiute da Dio per loro mezzo allo scopo di convincere gl'increduli loro connazionali. Scherni, pressioni morali dirette e indirette su lui e sui suoi famigliari e seguaci, forse anche violenze materiali contro alcuni dei proseliti più deboli d'animo o più bassi di condizione sociale, finirono col rendere difficile ed amara la vita della piccola comunità musulmana e col procurarle anche qualche defezione. Il tentativo di predicazione alla città di aṭ-Ṭā'if e poi a beduini ebbe completo insuccesso; sembrava prossimo il fallimento dell'opera iniziata con tanto ardore. M. allora rivolse la sua ultima speranza alla città di Yathrib, quella che, divenuta di lì a breve capitale dello stato fondato da M., fu denominata per antonomasia al-Madīnah (Medina), ossia "la città". Grande centro agricolo che non abbisognava d'un regolare governo unico cittadino, abitata per oltre un terzo da una florida comunità ebraica e per il rimanente da due gruppi arabi in sterile rivalità fra loro ormai da molti anni, priva d'interessi religiosi pagani da proteggere e difendere, insomma in condizioni nettamente diverse da quelle della Mecca, Yathrib offriva al travagliato e giovane islamismo un terreno assai più propizio che non la patria di M., tanto più poi che per linea femminile questi aveva legami di parentela con uno dei due gruppi arabi suddetti. Preparato spiritualmente l'elemento arabo di quella città anche mediante emissarî e senza dubbio offrendosi come elemento pacificatore tra i due gruppi rivali, all'incirca nel giugno 622 M. poté stringere un accordo segreto, sull'altura di al-‛Aqabah presso la Mecca, con delegati arabi di Yathrib, i quali con esso lo riconoscevano loro capo e s'impegnavano a difendere lui, e i musulmani che con lui emigrassero dalla Mecca, con lo stesso zelo con il quale avrebbero difeso loro stessi. Atto che segna un profondo rivolgimento nei propositi di M., poiché prevede una difesa a mano armata e quindi un organismo guerriero prima ignoto all'islamismo, aggiunge la qualità di capo politico al semplice propagandista religioso, che mirava soltanto alla persuasione degli animi, introduce per la prima volta in Arabia l'idea d'un vincolo politico-religioso superiore a quello della tribù, e implica una rottura completa dei rapporti di M. con la tribù sua propria, con i Coreisciti.
Subito dopo questo patto di al-‛Aqabah, M. cominciò a far partire alla spicciolata dalla Mecca la sessantina di famiglie che s'erano convertite all'islamismo, e quando tutte furono emigrate partì di nascosto egli pure col fido Abū Bakr, giungendo a Yathrib (Medina) probabilmente nel settembre 622. L'islamismo era salvo, ma una grande, radicale trasformazione stava per compiersi in esso. Se fosse rimasto alla Mecca, anche col favore cittadino invece che fra ostilità, l'Islām verosimilmente non sarebbe mai stato altro che una religione, anzi una religione puramente araba destinata a non varcare i confini della penisola che gli aveva dato i natali; invece a Medina, sotto l'impero delle circostanze non prevedute da M., si trasformò in un grande sistema abbracciante ogni aspetto della vita individuale e sociale ed assunse quel carattere di universalità la cui conseguenza necessaria era l'aspirazione al dominio spirituale e materiale del mondo. Senza l'ègira, molti secoli di storia dell'Europa meridionale avrebbero assunto un aspetto assai diverso e molti attuali problemi di politica orientale e coloniale, o non si sarebbero presentati o avrebbero altra forma.
Il periodo medinese. - L'opera di conciliazione fra i due gruppi arabi rivali della città e della sua vastissima oasi, di attrazione dell'elemento arabo : medinese all'islamismo, di assicurare amicizia fra i musulmani emigrati dalla Mecca e i loro ospiti, fu svolta abilmente ed ebbe ottimi risultati sin dal primo anno; nel quale, del resto, e nel seguente M. tollerò l'esistenza di piccoli gruppi refrattarî pagani, a patto che non si mostrassero ostili e contribuissero alle spese comuni di quello stato embrionale, di tipo sino allora completamente ignoto in Arabia poiché alla fratellanza e solidarietà di tribù sostituiva la fratellanza e solidarietà derivanti dalla comunione di fede religiosa e dava a tutti un capo unico, che, pur lasciando sussistere in sottordine il vecchio organismo tribale, si sovrapponeva ad esso come moderatore supremo, come giudice, come capo militare, come legislatore e come inviato di Dio. L'editto emanato da M. nella prima metà del suo secondo anno medinese per determinare il regime del suo stato è di straordinario interesse. Le difficoltà vennero soltanto dagli ebrei, non perché a loro riuscisse moralmente intollerabile la sovranità d'un principe arabo, ma per l'insanabile conflitto religioso, da M. non preveduto.
Le idee di M., sopra esposte, circa i rapporti fra la religione da lui predicata e il cristianesimo e il giudaismo, facevano si ch'egli non pensasse menomamente ad una conversione degli ebrei, già possessori della vera religione e dei suoi libri rivelati in lingua ebraica a loro uso nazionale; ma lo portavano anche logicamente ad aspettarsi che gli ebrei l'avrebbero accolto come un fratello di fede, come l'inviato arabo di Dio al popolo arabo. Enorme fu la sua delusione quando, con l'emigrazione a Medina venuto per la prima volta a contatto d'una comunità ebraica, trovò che gli ebrei, per le loro dottrine, non potevano riconoscere un inviato di Dio in chi non apparteneva al popolo eletto, né ammettere come vero l'insegnamento di chi commetteva errori gravissimi in materia biblica, di chi credeva in Gesù Cristo quale profeta miracolosamente nato da Maria Vergine per virtū dello Spirito Santo, di chi presumeva l'equipollenza e l'origine divina di tutte le religioni monoteistiche. Indarno M. tentò nei primi tempi d'istruirsi meglio nelle credenze giudaiche e d'imitare in alcune parti il rituale degli ebrei (digiuno del kippūr, orientamento del viso in direzione di Gerusalemme nella preghiera rituale, ecc.), indarno raccomandò ai suoi, mediante rivelazioni coraniche, d'evitare discussioni con la gente della Scrittura (sacra) e in ogni caso d'affermare che i musulmani credono in ciò che ad essa fu rivelato; il dissidio morale non poté essere composto e, come vedremo, diede presto luogo a gravi provvedimenti di M. e all'emancipazione dell'islamismo dalle due grandi religioni delle quali pur era un rampollo.
Nel campo politico-militare l'opera di M. fu prestissimo diretta a danneggiare i Coreisciti, non con attacchi diretti che allora sarebbero stati impossibili, ma con tentativi di sorprendere e depredare le loro grandi carovane commerciali, che per necessità di cose dovevano transitare entro un raggio di poco più d'un centinaio di chilometri da Medina nel loro cammino da e per la Palestina e Siria. Tentativi fatti con piccoli manipoli di armati e dapprima falliti, ma che tuttavia valsero ad allargare sempre più, mediante accordi locali, l'estensione territoriale dello stato di M. Poco dopo la metà del secondo anno dell'ègira, nel marzo 624, finalmente una grande carovana coreiscita fu sorpresa ai pozzi di Badr, non lungi dalla costa del Mar Rosso, a poco più di 150 km. in linea retta a sud-ovest di Medina; la numerosa scorta armata fu sconfitta da circa trecento musulmani personalmente guidati da M. e un ingente bottino cadde in mano dei vincitori. La vittoria fu celebrata dal Corano come miracolosa e dovuta all'intervento di schiere d'angeli in aiuto dei musulmani pericolanti. Piccolo scontro, con un'ottantina di morti fra ambo le parti (cifra assai grave per le battaglie fra Arabi di quel tempo), ma ch'ebbe incalcolabilí conseguenze di vario genere ed iniziò la serie di rivelazioni coraniche, non più di semplice contenuto religioso e morale, ma costituenti una saltuaria e frammentaria legislazione emanante direttamente da Dio e riguardante materia che per un occidentale sarebbe del tutto profana, come, nel caso appunto di Badr le norme per ripartire il bottino di guerra.
Tralasciando le altre conseguenze, basti qui ricordare che la vittoria, consolidando in modo clamoroso l'islamismo, permise a M. di sbarazzarsi del gruppo della comunità ebraica che risiedeva in città e confiscarne i beni, ma sopra tutto di svincolarsi dai precedenti impegni verso gli ebrei e di trasformare l'islamismo da religione nazionale araba in religione aspirante all'universalità; trasformazione accaduta non per chiaro disegno di M., ma per effetto delle circostanze. Diventata sicura la sua posizione materiale e morale, egli poteva passare apertamente alla rottura con l'elemento giudaico e, in modo dapprima soltanto implicito, con il cristianesimo. Il Vecchio e il Nuovo Testamento continuano a essere ritenuti libri testualmente rivelati da Dio; ma le discordanze affermate dagli ebrei rispetto al Corano sono dichiatate frutto di errori, di alterazioni, di occultamenti colpevoli, di false interpretazioni dei rabbini. Il Corano è rivelazione diretta, non è dubbia, non può essere in errore; essa conferma la religione d'Abramo, vissuto prima della legislazione mosaica e della cristiana, così come quella d'Abramo fu confermata dagli altri profeti successivi, ossia dai personaggi illustri del Vecchio e del Nuovo Testamento, incluso Gesù. Ma il giudaismo e il cristianesimo dell'età di M. sono forme corrotte che bisogna eliminare; la rivelazione fatta a M. viene ad abrogarle. La venuta di M. è già preannunziata nei libri biblici, in passi la cui portata viene disconosciuta, per frode o per ignoranza, dagli ebrei e cristiani contemporanei del profeta arabo; il quale è il "sigillo dei profeti", ossia colui che chiuderà per sempre la serie degli inviati di Dio sulla terra e delle rivelazioni celesti. In altre parole, l'islamismo nelle sue credenze e nei suoi riti è la forma religiosa definitiva per tutta l'umanità. Alla Mecca, islām, ossia incondizionata sottomissione (ai voleri divini), era termine applicabile ad ognuna delle grandi religioni monoteistiche rivelate, e l'epiteto di muslim, colui che si rimette ciecamente a Dio, veniva dato nel Corano a tutti i profeti anteriori, da Adamo a Gesù, e a tutti i nuovi credenti, a tutti i professanti sinceramente il monoteismo rivelato mediante testi sacri. Dopo la rottura predetta con il giudaismo e con il cristianesimo (quest'ultimo ora oggetto di rovente biasimo per il suo considerare Gesù come figlio di Dio), islām passa a designare soltanto la religione predicata da M., in opposizione a quella dei degene. i ebrei e cristiani, e muslim si restringe a designare i seguaci di M., i quali del resto, a causa dell'assoluta identificazione della missione religiosa con la sovranità temporale illimitata in M., non potevano non essere anche suoi sudditi. Insomma a Medina nasce l'islamismo come religione autonoma e diretta a tutta l'umanità.
Contemporaneamente a questa emancipazione dal giudaismo e dal cristianesimo, M., in base a interpretazione arbitraria di testi biblici, fece proclamare dal Corano che il più antico santuario del mondo dedicato al vero Dio era stato la Ka‛bah della Mecca, edificata da Abramo, al quale Dio stesso aveva insegnato i riti del pellegrinaggio annuo. Conseguenza di ciò era il dovere dei musulmani di purificare il santuario e i suoi riti dall'abominazione del paganesimo sottentrato al primitivo culto ortodosso; ma è chiaro che per restituire alla purezza monoteistica i riti della Ka‛bah occorreva liberare la Mecca dal paganesimo. La conquista della città natale appariva ora dunque un dovere imposto da Dio e non uno sfogo di mire ambiziose e di vendetta personale per il passato.
Tutti gli avvenimenti del decennio medinese di M. sono di capitale importanza per l'islamismo posteriore in tutti i suoi aspetti, giacché la condotta di M. nei singoli eventi, anche se dettata da circostanze puramente transitorie o da capriccio, fu assunta dalle generazioni successive come fonte di norme universali e invariabili nel campo religioso, politico, giuridico e civile; solo la condotta talora casuale di M. a Medina e il principio musulmano della sua imitazione consentono a noi d'intendere le apparenti anomalie e contraddizioni che si riscontrano nel completo sistema politico-religioso dell'islamismo.
Nel marzo del 625, terzo anno dell'ègira, un esercito allestito dai Coreisciti avanzò dalla Mecca sino all'oasi medinese ed inflisse un serio scacco alle truppe musulmane sul pendio e alle falde del monte Uḥud, a circa un'ora a nord della città; ma non osò gettarsi su di questa e ritornò sui suoi passi. Rivelazioni coraniche scesero allora a spiegare l'avvenimento, a ridestare piena fede nell'avvenire, a proclamare che i caduti nella guerra contro gl'infedeli, ossia per la causa di Dio, non sono morti, ma vivi e felici in cielo. Quattro o cinque mesi dopo, M. accerchiava uno dei due gruppi ebrei dell'oasi medinese, ne otteneva la resa senza combattimento, lo espelleva confiscandone le armi e gl'immobili e giustificando presso i suoi, con una rivelazione celeste, l'assegnazione di quei beni alla cassa dello stato. Il diritto pubblico posteriore ne dedusse il carattere demaniale delle terre conquistate agl'infedeli senza combattimento né patto. Con crescente audacia M. spinge quindi le sue spedizioni militari o razzie a sempre maggior distanza dalla capitale in direzione di est, di nord e di sud, ampliando ognora più il suo territorio ed arrivando sino in prossimità di quello della Mecca. Alla lor volta i Coreisciti tentano un ultimo sforzo: allestiscono un esercito di circa 10.000 uomini, senza precedenti in quelle parti d'Arabia, e nel marzo-aprile 627, quinto anno dell'eg., assediano Medina; ma un modesto fossato, scavato in fretta per consiglio d'uno schiavo straniero, bastò a trattenere gli assedianti, i quali, dopo una quarantina di giorni, si ritrassero dall'impresa. E il giorno successivo alla loro partenza M., inebbriato dal fallimento dell'impresa coreiscita, si butta all'assedio dell'ultimo gruppo ebraico che ancora rimaneva nell'oasi; ne ottiene la resa a discezione dopo venticinque giorni; fa decapitare tutti gli uomini (da 600 a 900), fa vendere come schiavi le donne e i fanciulli, divide la preda e così offre al futuro diritto musulmano di guerra altre norme, fra le quali la legittimità che il sovrano faccia uccidere, se lo stima opportuno, i prigionieri di guerra non musulmani, maschi e in condizione di portare le armi. Il terrore invase le grandi colonie ebraiche situate in vaste e pingui oasi molto al nord di Medina.
Alla Mecca comincia grave scoraggiamento, e M. ne approfitta per tentare non il pellegrinaggio, ma una visita pia, la ‛umrah, non legata a un determinato periodo dell'anno e assai meno solenne. L'esistenza di quattro mesi sacri, nei quali l'antico costume arabo vietava i combattimenti, sembrò dargli la possibilità d'attuare l'audace disegno sul finire del sesto anno dell'eg., nel febbraio-marzo 628; ma arrivato con circa millecinquecento dei suoi ai confini del vasto territorio sacro che circondava la Mecca e dentro il quale non era lecito portare armi, si lasciò indurre dai parlamentari coreisciti a rinunziare al suo proposito e a stringere invece una tregua decennale, nella quale si ammetteva che nell'anno seguente e nei successivi del decennio M. ed i suoi avrebbero potuto liberamente fare il pellegrinaggio e rimanere tre giorni alla Mecca. Alcuni passi coranici ci rivelano l'indignazione di molti compagni di M. per questo patto (detto di al-Ḥudáibiyah dal nome della località), da essi giudicato umiliante, ma che in realtà fu atto di buona politica e fornì poi varie norme importanti al diritto pubblico musulmano. D'altra parte M. fece cessare rapidamente il malumore dei suoi, non soltanto con rivelazioni coraniche, ma anche procedendo senza ritardo alla conquista delle oasi ebraiche di Khaibar, Fadak, Taimā' e wādī al-Qurà (attuale w. al-Ḥamḍ), che vennero ad arricchire i singoli e l'erario. Per ragioni economiche M. lasciò il possesso delle terre ai vinti, diede loro libertà di culto, ma impose il pagamento in perpetuo della metà del raccolto annuo alla cassa dello stato musulmano. La condotta di M. verso queste oasi ebraiche divenne base delle norme di diritto islamico riguardo alla proprietà fondraria nei paesi conquistati fuori d'Arabia e alla condizione giuridica dei sudditi ebrei e cristiani dello stato musulmano.
Nell'anno successivo, settimo dell'eg., 629 d. C., Maometto compì con circa 2000 musulmani la semplice ‛umrah alla Ka‛bah, e quei tre giorni di dimora alla Mecca segnarono un ulteriore sgretolamento dell'opposizione meccana e del suo paganesimo; poco dopo passarono all'islamismo ‛Amr ibn al-‛Āṣ, il futuro conquistatore dell'Egitto, e Khālid ibn al-Walīd, il futuro conquistatore della Siria e della Palestina. Nello stesso 629 (ma entrato ormai l'8 eg.) M. inviò una spedizione militare in pieno territorio bizantino, a oriente della parte meridionale del Mar Morto; spedizione fallita di fronte alle truppe guidate da un comandante greco, ma prova di quanto ormai si spingessero lontano le ambizioni conquistatrici di M. Il quale frattanto mal pazientava gli obblighi del trattato di al-Ḥudāibiyah, che gli precludeva per un decennio il dominio della sua città natale. Un pretesto, che sollevò gli scrupoli d'alcuni fra i suoi compagni, fu da lui trovato per dichiarare rotta la tregua a causa dei Coreisciti e marciare con rapida decisione contro la Mecca; la quale non oppose quasi resistenza, cosicché l'antico perseguitato vi entrò trionfalmente nel ramaḍān 8 eg., primi di gennaio 630. Purificata la città da tutte le apparenze esteriori di paganesimo, concessa un'amnistia quasi generale, vietato ogni bottino, soppresso il reggimento oligarchico secolare, M. tornò alla capitale, Medina, ove affluivano in gran copia ambascerie inviate da tribù lontane a fare atto di omaggio e sudditanza al trionfatore. Né in quell'anno, né nel successivo 9 eg. (marzo 631), M. prese parte al pellegrinaggio; non voleva contatti con infedeli in quella cerimonia. Ma appunto nel marzo 631 egli fece proclamare che quella sarebbe stata l'ultima volta che politeisti avrebbero potuto accedere al territorio meccano ed al pellegrinaggio; essi sono sozzura, dichiara ora il Corano, e patti nuovi non si potranno più stringere con loro. È dunque la guerra aperta contro i pagani perché tali, e non soltanto, come in passato, perché aggressori e fedifraghi. È la teoria della guerra santa spinta alle sue ultime conseguenze.
Sicuro di non aver più contatti impuri, nell'ultimo mese del successivo anno 10 eg., marzo 632, M. alfine compì i riti complicati del pellegrinaggio islamizzato. Sull'altura di ‛Arafah, incorporata ai luoghi del pellegrinaggio. benché lontana una cinquantina di chilometri verso oriente, egli tenne all'immensa folla convenuta il celebre "discorso del commiato", che celebrava il definitivo compimento della sua missione; concetto confermato anche da contemporanei versetti del Corano. Subito dopo la grande cerimonia tornò a Medina, ove s'accingeva ad allestire una spedizione militare contro la parte sud-est della Palestina soggetta all'impero bizantino, quando cadde ammalato; dopo varie alternative spirò l'8 giugno 632, correndo l'undecimo anno arabo lunare dell'ègira. Non lasciò figli maschi; delle quattro figlie superstiti ebbe nei secoli successivi grande celebrità Fātimah (v.), moglie di ‛Alī e morta poco dopo il padre. Delle mogli superstiti merita particolare menzione la più giovane, ‛Ā'ishah (v.), figlia di Abū Bakr, la quale morì nel 58 eg., 678 d. C., ed ebbe una parte attivissima e virile nelle lotte civili scoppiate alla fine del califfato di ‛Othmān.
La figura di Maometto. - La naturale venerazione per il loro profeta e un passo coranico ove è detto che i credenti hanno in lui il migliore dei modelli hanno portato i musulmani a ritenere l'imitazione di Maometto, anche nei più semplici e volgari atti della vita, come il sommo ideale della vita religiosa, morale e civile; solo pochissime cose, come la poligamia oltrepassante il numero di quattro mogli contemporaneamente, sono considerate quale sua prerogativa. Da ciò l'enorme importanza dei ḥadīth (v.), o tradizioni canoniche intorno ai detti e fatti di M. Alla naturale venerazione si aggiunse l'aureola miracolosa, benché il Corano, ossia la parola di Dio, avesse proclamato che M. era un uomo come gli altri e che il solo suo miracolo consisteva nel fatto di ricevere da Dio messaggi o rivelazioni testuali. Sulla base di elementi folkloristici, di leggende talmudiche e rabbiniche di racconti degli apocrifi cristiani circolanti in Oriente, d'arbitrarie interpretazioni di passi coranici, e poi anche di concetti derivanti dal parsismo e da dottrine gnostiche e neoplatoniche, a partire già dalla metà del primo secolo dell'ègira le successive generazioni musulmane andarono elaborando la leggenda miracolosa di Maometto, in parte anche per fare di lui un contrapposto alla figura di Gesù presso i cristiani. Scrittori del sec. XIII fanno salire a più di tremila i suoi miracoli e li classificano in varie categorie secondo l'oggetto su cui si esercitarono. Notevoli per la loro popolarità e per il posto loro dato in catechismi moderni sono i varî portenti che preannunziarono la sua nascita, i miracoli della sua infanzia (calcati soprattutto sugli apocrifi cristiani), il viaggio notturno a Gerusalemme sulla cavalcatura portentosa al-Burāq e la successiva salita in cielo nel periodo meccano, e la scissione della luna operata da Dio in seguito a preghiera di M. per convertire alcuni infedeli. Il viaggio notturno a Gerusalemme sull'al-Burāq serve ora di base ai musulmani per le loro pretese sul luogo ove gli ebrei si recano la sera di venerdì e il sabato per piangere sugli avanzi del tempio di Salomone; pretese che hanno dato luogo a incidenti gravissimi, dei quali ebbe a occuparsi anche la Società delle nazioni negli anni 1928-30. I ṣūfi o mistici attribuiscono la paternità delle loro dottrine esoteriche agl'insegnamenti segreti che M. avrebbe impartito a pochissimi compagni di scelta; molti affermano la preesistenza di M. in cielo ad Adamo e taluno trasforma M. addirittura in una specie di Logos.
Nel Medioevo Bizantini e Latini si sono sbizzarriti a loro volta intorno a M., considerato come turpe eretico o scismatico, e lo hanno fatto segno a molte leggende in parte comiche e in parte ingiuriose, che tendono a mostrarlo un impostore cosciente della sua impostura e un uomo rotto a ogni licenza. Così il supposto incontro del giovane M. con il monaco Bahirā o Sergio in Siria, narrato dai musulmani per fare che quest'ultimo preannunzi la futura missione divina di M., serve ai cristiani per fare di M. il semplice portavoce o il complice d'un eretico; i fenomeni nervosi che, almeno nei primi tempi, accompagnavano il ricevimento delle rivelazioni secondo il racconto dei musulmani, sono adoperati dai Bizantini per fare di M. un epilettico.
La critica moderna non può mettere in dubbio l'assoluta sincerità iniziale di M. e il suo primitivo disinteresse. Qualche dubbio può sorgere per alcuni atti del periodo medinese, nel quale rivelazioni coraniche scendono a giustificare azioni scorrette, a secondare sue passioni, a far cessare le querimonie di sue mogli gelose; ma bisogna tener presenti le condizioni spirituali e intellettuali sue e del suo ambiente e le illusioni di cui M. stesso poteva esser vittima a questo riguardo; al qual proposito giova ricordare che tal genere di rivelazioni sembra essere stato trovato sempre cosa naturale dai suoi compagni di profonda fede religiosa. Fu uomo mutevole: per lo più disposto alla serenità e alla mitezza, ma in poche circostanze crudele e vendicativo; impulsivo in certi casi, freddo calcolatore e politico in altri; monogamo e di correttissima condotta fin che visse la prima moglie Khadīgiah, manifestò poi a Medina una fortissima sensualità, contenuta del resto nelle larghissime forme legali concesse dai costumi arabi e dall'islamismo. Nella fase definitiva della sua vita, la medinese, sotto l'influenza dell'avvenuta commistione completa del sacro e del profano, della vita religiosa e dell'attività politica e militare, fu di necessità portato a un abbassamento dell'ideale morale, a una rinunzia a tendenze ascetiche, a transazioni e accomodamenti voluti dalle esigenze della vita politica e pratica quotidiana. Non ebbe vedute molto lontane, non piani a lunga scadenza; ma fu di straordinaria abilità nello sfruttare le circostanze impreviste che sembravano venire a sconvolgere i suoi disegni. Le straordinarie e rapide sue metamorfosi nel decennio della sua vita medinese sono indice d'una pieghevolezza e di un'adattabilità di spirito veramente eccezionali. Senza alterigia, affabile con i compagni, pronto ad accoglierne pareri e critiche, esercitò tuttavia su di loro un fascino del quale non si conoscono altri esempî in Arabia.
Per le sue dottrine v. islamismo, nn. 7-12 e 16.
Bibl.: Le biografie composte da G. Weil (1843), A. P. Caussin de Perceval (1847-48, nei voll. I e III dell'Essai sur l'hist. des Arabes avant l'islamisme), W. Muir (1858-1861, voll. 4) e A. Sprenger (1861-65, anche con la falsa data 1869, voll. 3), hanno iniziato lo studio scientifico della vita di M., ma sono in alcune parti molto antiquate. L'attività esteriore di M., è ampiamente esposta nei voll. I e II degli Annali dell'Islām di L. Caetani (Milano 1905-1907). Biografie complete: Fr. Buhl, Das Leben Muhammeds, Lipsia 1930 (ottima); T. Andrae, Mohammed. Sein Leben und Glaube, Gottinga 1932 (trad. it. di F. Gabrieli, Bari 1934). La biografia tradizionale musulmana si può leggere nella trad. tedesca che G. Weil fece della vita scritta da Ibn Hishām, Stoccarda 1864, voll. 2. Inoltre: O. Pautz, Muhammeds Lehre von der Offenbarung, Lipsia 1898; T. Andrae, Die Person Muhammeds in Lehre und Glauben seiner Gemeinde, Stoccolma 1918; A. Geiger, Was hat Mohammed aus dem Judenthum aufgenommen?, Bonn 1833 (ristampa difettosa a Lipsia 1902); G. Sacco, Le credenze religiose di M., Roma 1922 (per i rapporti con il giudaismo ed il cristianesimo); W. Rudolph. Die Abhängigkeit des Qorans von Judentum und Christentum, Stoccarda 1922; K. Ahrens, Christliches im Qoran, in Zeitschr. d. Deutschen Morgenländischen Gesellschaft, n. s., IX (1930).