DORIA, Manuele
Nacque a Genova alla fine del sec. XII, primogenito di Nicolò e Giacominetta Della Volta; suoi fratelli furono Lanfranco, Ingo (morti entrambi prima del 1252) e Antonio (ricordato in un documento del 1227).
Già nel 1202 egli affiancò il padre nell'atto in cui a Nicolò furono riconosciuti dai marchesi Malaspina alcuni diritti sui pedaggi riscossi in Valle Trebbia e Valle Borbera. Il padre volle (6 genn. 1210) che egli sposasse Giorgia (o lurgia), figlia di Comita [II] giudice di Torres. Il contratto, stipulato nel palazzo "de Curchis", residenza del giudice in Sardegna, prevedeva che, nel caso in cui il D. avesse rifiutato la scelta, sarebbe stato diseredato; in caso di morte prematura del marito, Nicolò si impegnava a far ritornare la nuora, che in seguito al matrimonio doveva risiedere in Genova, nel porto di Bosa o in quello di Torres. L'atto contribuì alla penetrazione doriana nel Giudicato (dove gli eredi di Andrea, zio del D., possedevano un vasto patrimonio terriero lasciato loro dalla madre, Susanna di Lacon, sorella di Comita) e segnò anche la vita del D., impegnandolo a fondo nelle complesse vicende isolane.
Nel 1215 egli divenne console del Comune e in tal veste accompagnò Ottone, arcivescovo di Genova, al IV concilio lateranense; due anni dopo, gli Annali genovesi lo segnalano in lotta contro Giovanni e Giordano Richieri, unito a Percivalle Doria (l'identificazione di questo membro della famiglia, spesso citato accanto al D., è assai problematica, perché in tutti gli atti in cui i due compaiono associati non vengono mai specificati né la parentela tra loro né il rispettivo patronimico). Tale rivalità, di cui ci sfuggono i motivi, sottolinea il carattere di uomo di parte che distinse sempre il D. (come pure il ramo della famiglia da lui originato), non legato agli interessi generali del Comune, ma impegnato attivamente in una politica personale tesa a salvaguardare i possessi sardi e, sia pure occasionalmente, a costruirsi una signoria rivierasca.
Nel 1218 egli fu inviato dal podestà genovese a Ventimiglia, come membro di una commissione incaricata di governare la città; tuttavia questa rifiutò di accogliere i rappresentanti genovesi, dando vita ad una rivolta che si concluse solo dopo alcuni anni; lo stesso D. fu presente all'atto in cui gli abitanti di Ventimiglia si arresero, impegnandosi ad ubbidire al Comune genovese (8 sett. 1222). Nel febbraio 1223 fu podestà di Savona e, due anni dopo, podestà di Albenga, stabilendo in tal veste coi vescovo della città, Oberto, un accordo su problemi giurisdizionali e fiscali. Nel 1227 coi fratelli Lanfranco ed Ingo vendette allo zio Oberto una terra (9 febbraio); fu poi presente come consiliator all'atto in cui venne riconfermato l'arbitrato deciso per risolvere le vertenze tra il Comune genovese e l'alleata Astì e le città nemiche di Alba ed Alessandria (5 giugno). L'anno successivo, sempre come consigliere, fu testimone all'accordo tra Genova e Bonifacio II marchese del Monferrato (8 agosto); nel settembre si recò a Gavi Ligure, dove assistette all'accordo con gli uomini di quel castello. Nel 1232 fu chiamato a far parte della magistratura degli Otto nobili, incaricata di assistere il podestà; nel settembre fu presente al contratto di matrimonio tra Adelasia, figlia del fu Pietro Doria, e il tortonese Bellengerio Torto.
Nel frattempo la pressante opera di penetrazione compiuta dal Comune genovese nella Riviera di Ponente fu bruscamente sconvolta da una rivolta rurale scoppiata nelle valli di Oneglia e di Arroscia contro il vescovo di Albenga e i marchesi di Clavesana; questi ultimi (affrettatisi a giurare fedeltà a Genova, atto cui fu presente il D., il 16 sett. 1233), incapaci di controllare la sommossa, chiesero aiuto al Comune genovese e furono costretti ad indebitarsi pesantemente anche con privati cittadini, tra cui i Doria. Genova inviò un contingente di truppe, delle quali fu messo a capo il D., che fu, però, sconfitto, cosicché la rivolta venne domata a stento. Nel 1234 fu chiamato ancora a far parte degli Otto nobili.
Nello stesso periodo la situazione nel Giudicato di Torres precipitò, rendendo precario il controllo dei Doria sui loro possessi sardi. Le difficoltà crescenti incontrate da Genova nel Mediterraneo orientale, dove si era installata la potenza veneziana, e la politica di stretto controllo fiscale e commerciale voluta da Federico II in Sicilia, rendevano vitale per la famiglia il controllo del Logudoro. La presenza dei Doria nel Giudicato era stata, inoltre, rinsaldata dal matrimonio, avvenuto verso il 1231, tra Nicolò, figlio del D., e Preziosa, figlia naturale di Mariano [II] e sorella di Adelasia, moglie del pisano Ubaldo Visconti, giudice di Gallura. La morte di Mariano e la successione del figlio Barisone, ancora decenne e sotto tutela dello zio Ithocor, crearono un periodo di instabilità che finì col preoccupare seriamente i Doria (presenti in Sardegna anche con Daniele, figlio di Andrea), nel timore che il Visconti potesse approfittarne. Infatti, nel 1233 scoppiarono rivolte a Sassari ed a Torres che furono, però, represse.
In un primo tempo, tuttavia, il D. dovette appoggiare la nuova situazione creatasi nel Logudoro, dato che il 24 genn. 1233 approvò l'alleanza tra il Comune genovese e Barisone; l'anno seguente, però, i rivoltosi, tra cui il potente notabile Michele Zanche, esiliati, ottennero ospitalità a Genova, dove (15 sett. 1234) costituirono procuratori il D. e Percivalle Doria con l'incarico di arrivare ad un accordo con Barisone, in modo da ottenere la restituzione dei beni e la promessa di incolumità personale. Tale iniziativa vide concordi tutti i membri della famiglia coinvolti nelle vicende sarde, da Daniele al figlio Gavino a Niccolò, figlio del Doria. L'accordo, che rovesciava l'appoggio concesso a Barisone, trovò forse la sua ragione nella scarsa fiducia che la famiglia nutriva nelle possibilità del giovanissimo giudice di mantenersi a lungo al potere. Ancora nel 1235, tuttavia, la situazione doveva essere tranquilla in Logudoro; infatti, il 14 settembre ed il 21 ottobre il D., affiancato da Percivalle (forse questa volta suo figlio) si impegnò con un gruppo di coloni a concedere loro in "Nulauro" tutta la terra che fossero stati in grado di coltivare, fornendo anche l'abitazione, gli animali e le sementi; dopo il primo anno, il contratto prevedeva la cessione ai Doria della metà dei prodotti.
Poco dopo, una sommossa popolare, sobillata forse dallo Zanche, portò alla sanguinosa uccisione di Barisone. A soffiare nel fuoco furono anche i Doria, dato che l'erede del giudice, la sorella Adelasia, dovette venire a patti coi ribelli, che erano stati aiutati dalla famiglia. In tal modo il D. poté rafforzare il suo controllo sui vasti possessi territoriali derivatigli dalla sua politica matrimoniale in Logudoro (particolarmente in Anglona, Nurra e "Nulauro"), esercitando una sorta di protettorato sulla giudichessa turritana. Grazie anche ai possedimenti di Daniele, si creò così gradualmente uno Stato doriano in Sardegna che, garantendo a Genova l'approvvigionamento di grano, sul cui commercio i Doria esercitarono gelosamente il monopolio, finì col diventare una potenza in grado di trattare alla pari anche con lo stesso Comune genovese.
In questi anni il D. continuò a risiedere nella sua città: il 22 ott. 1235 nella chiesa gentilizia di S. Matteo egli assistette al contratto di matrimonio tra Aiguina, figlia di Montanario Doria, e Corrado de Campi. Nello stesso anno si offrì come mallevadore del marchese Ottone Dei Carretto (11 dicembre 1235). Nel frattempo, prese consistenza un altro progetto che il D., primo della sua famiglia, perseguì e che fu coronato da successo solo dopo la sua morte: la creazione di una signoria rivierasca. Il 3 luglio 1237, insieme col fratello Lanfranco, egli acquistò la metà della villa e del castello di Andora da Bonifacio, detto "Taiaferrus", marchese di Clavesana; l'altra metà era stata ceduta al Comune genovese. L'8 nov. 1239 egli fu teste all'atto in cui Percivalle si vide riconoscìuti alcuni diritti sui marchesi di Ceva, preludio, forse, ad un tentativo di penetrazione anche in quel feudo.
Nel frattempo la situazione politica in città divenne difficile per il D., che, fedele alla sua alleanza con l'Impero, per difendere i suoi possessi sardi, si vide spiazzato dal corso degli avvenimenti, che obbligarono Genova a prendere posizione contro Federico II. I legami del D. con la corte sveva erano stati rinforzati dagli avvenimenti sardi. Infatti Adelasia, rimasta vedova di Ubaldo, giudice di Gallura, si vide sottoposta alla continua pressione dei Doria perché si rimaritasse con un loro candidato; questo piano, però, urtava con l'ostilità pisana, spalleggiata dal papa. Con un'abile azione diplomatica, tuttavia, i Doria riuscirono a far sposare la giudichessa con Enzo, figlio di Federico II (ottobre 1238); questa situazione mise in crisi in città il ramo sardo della famiglia, perché l'orientamento prevalso a Genova proprio in quegli anni fu di appoggiare il papa nella lotta contro l'Impero. Già nel 1238 Gregorio IX era intervenuto perché il D. e Percivalle avevano costruito una fortezza a porto Torres, minacciando Adelasia; l'anno successivo, i due erano a Bonifacio, forse per seguire da vicino i convulsi avvenimenti dell'isola.
Nel 1241 la situazione precipitò: mentre il Comune genovese era impegnato nell'allestimento della sfortunata flotta che avrebbe dovuto trasportare i prelati al concilio convocato da Gregorìo IX, il podestà decise un'azione di forza contro i ghibellini presenti in città. Convocato il populus sulla piazza di S. Lorenzo, si attaccò H borgo dei Doria, ma l'azione fu fermata dall'intervento dei francescani e dei domenicani; di notte il D. e Percivalle lasciarono Genova, ma vì fecero ritorno in seguito, per discolparsi nel pubblico Parlamento. Diventata più incalzante l'opera repressiva del podestà e del partito guelfo, il D., Percivalle ed Ingo, fratello del D., decisero di allontanarsi definitivamente da Genova, trovando rifugio nei feudi di Guglielmo Spinola.
L'esilio del D. si protrasse per alcuni anni, ma non fu inoperoso: nel 1246 fu nominato arbitro nella lite che oppose gli Avvocati e i Camilla ad Ansaldo De Mari, che nel gennaio aveva comperato dalle due famiglie genovesi alcuni castelli in Corsica; nello stesso anno egli fu chiamato a Firenze come vicario del podestà ghibellino Federico d'Antiochia, rimanendo in carica anche l'anno seguente; nel 1248 divenne podestà dell'imperiale Como.
Morto Federico II e tramontato il pericolo ghibellino su Genova, in città si arrivò rapidamente ad una riappacificazione tra le grandi casate voluta dagli stessi guelfi, forse per ricompattare l'oligarchia davanti alla crescita del "populus".
Già agli inizi del 1251 il D. doveva essere tornato a Genova, dove fu in rapporto con uno dei capi dei partito guelfo, Alberto Fieschi; inoltre, il 24 maggio, in un atto stipulato in città, si accordò col marchese Giacomo Dei Carretto per pagargli il riscatto richiesto per la liberazione dei figli di un suo collaboratore finanziario. L'anno seguente un Manuele Doria fu inviato in Valle Scrivia per catturare un piccolo feudatario ribelle, Tebaldino di Cagna, ma fu fatto prigioniero e liberato solo dopo un intervento militare più deciso guidato dal podestà. A probabile, però, che il Manuele di cui parlano gli Annali genovesi non sia il D. (data la scarsa rilevanza dell'incarico, sproporzionata alla posizione ed al prestigio raggiunti da questo), ma il figlio di Percivalle, ricordato nel 1256 come ambasciatore al giudice di Cagliari, Chiano. Nel marzo del 1252 il D. assistette come "consiliator" all'accordo con gli uomini di Brehl; nel settembre gli fu comunicata la decisione del Comune di Firenze di nominarlo podestà: il D. accettò, a patto che il suo stipendio venisse aumentato. Nel frattempo, a seguito della sconfitta del partito ghibellino, svanì il suo progetto di costruirsi una signoria rivierasca: il 15 giugno 1252 egli venne incaricato dal nipote Lanfranchino (figlio di Ingo, morto in quegli anni, ed erede della quota di Andora acquistata dallo zio Lanfranco, morto senza eredi) di cedere al Comune genovese i suoi diritti su questa località. Con atto successivo il D. si accordò col Comune per vendergli anche la sua parte.
Il D. morì prima del 1260; è probabile che egli si sia sposato una seconda volta, perché i documenti ricordano Alba, figlia di Alberto Vento e vedova di un Manuele Doria, la quale nel 1260 riedificò il monastero di S. Pietro di Vesima. Suoi figli furono certamente Nicolò, Babilano e Guglielmo (premorto al padre); gli sono attribuiti anche Percivalle e Lanfranco.
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