Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Andrea Mantegna, a Mantova dal 1460, lavora per tre generazioni presso i duchi Gonzaga. Ad accomunare pittore e committenti è una straordinaria passione per l’antico: circondato dalla raccolta di marmi dei suoi signori, e dai bronzetti dello scultore Pier Jacopo Alari Bonacolsi, detto l’Antico, Mantegna dà vita alle più convincenti rievocazioni del mondo classico di tutta la pittura quattrocentesca, i Trionfi di Cesare. E partecipa da protagonista alla decorazione pittorica del celebre studiolo di Isabella d’Este.
Nato a Isola di Carturo, vicino a Padova, nel 1442 Mantegna entra giovanissimo nella bottega padovana di Francesco Squarcione, dove ha la possibilità di studiare rilievi antichi e modelli tratti dalla scultura romana.
Dagli anni Quaranta del Quattrocento, con i soggiorni in città di Donatello, Paolo Uccello e Filippo Lippi, Padova è la testa di ponte per la penetrazione del Rinascimento toscano nel Nord Italia. La decorazione della cappella Ovetari degli Eremitani, iniziata nel 1448 da una nutrita équipe di pittori, tra cui lo stesso Mantegna, e da lui terminata autonomamente nel 1457 (il complesso è andato in gran parte distrutto nei bombardamenti del 1944), segna la raggiunta maturità dell’artista, la cui fama raggiunge Mantova già nel 1456. Fin dall’epoca di Gian Francesco Gonzaga – nel 1432 acquista il titolo di marchese dall’imperatore Sigismondo di Lussemburgo –, Mantova è un centro di cultura umanistica grazie soprattutto alla scuola che vi tiene l’umanista Vittorino da Feltre. Pisanello è ricordato nel 1439 come familiare alla corte di Gian Francesco, per il quale nei primi anni Quaranta affresca l’incompiuto ciclo di tema cavalleresco nella Corte Vecchia del Palazzo Ducale. Ludovico III Gonzaga, educato alla scuola di Vittorino, nel 1447 commissiona a Pisanello una medaglia commemorativa del padre. Esemplata sui modelli romani, come le altre eseguite dall’artista per i Visconti, gli Sforza e gli Este, la medaglia di Gian Francesco costituisce una precoce testimonianza degli interessi antiquari dei Gonzaga.
Nel 1459 Leon Battista Alberti giunge a Mantova, dove lascia i progetti per le chiese di San Sebastiano e di Sant’Andrea. Quest’ultima, la cui costruzione è avviata solo nel 1472, è la più matura espressione del programmatico ritorno all’antico al centro della riflessione teorica albertiana.
Tra il 1456 e il 1459 Mantegna, impegnato a Padova nell’esecuzione della pala per l’altar maggiore di San Zeno a Verona, procrastina la sua partenza per Mantova, dove Ludovico lo invita ripetutamente; nel 1460 l’artista si stabilisce definitivamente in città, accettando l’incarico di pittore di corte, che virtualmente gli impedisce di accettare qualsiasi altra commissione. Il ruolo che Mantegna riveste a Mantova ha un parallelo in quello che Cosmè Tura ha alla corte di Borso d’Este a Ferrara dal 1458, ma rimane sostanzialmente un caso unico nel Quattrocento per la vastità e l’eccezionalità delle imprese portate a termine dall’artista per i suoi mecenati in un lasso di tempo di quasi 50 anni.
Il primo incarico di Mantegna a Mantova è la decorazione della cappella nel Castello di San Giorgio (1460-1465 ca.), smembrata già nel Cinquecento, cui è da ricondurre il Transito della Vergine (oggi al Prado), dove la veduta sullo sfondo raffigura il ponte di San Giorgio che attraversa la laguna formata dal Mincio alle porte di Mantova.
La commissione più importante realizzata per Ludovico è però la cosiddetta Camera Picta, nota come Camera degli Sposi, affrescata tra il 1465 e il 1474 nel Castello di San Giorgio. L’ambiente, quadrato, è sfondato illusionisticamente sia sui lati che sulla volta. Quest’ultima si apre su un cielo azzurro attraverso un oculo centrale che finge una balaustra dalla quale si affacciano alcune donne e dove giocano puttini visti in uno scorcio straordinariamente ardito. Nei lacunari circostanti una ricca decorazione a finte ghirlande e racemi incornicia otto medaglioni con i ritratti dei Cesari, mentre nelle vele sopra le lunette delle pareti sono finti rilievi di marmo su fondo a mosaico raffiguranti episodi mitologici.
Il complesso decorativo costituisce un’eloquente testimonianza dell’amore per l’antico dei Gonzaga e dello stesso Mantegna. Le quattro pareti sono trattate come una loggia continua, ritmata da lesene che sostengono i capitelli su cui è impostata la volta. Le pareti sono schermate da finte cortine in cuoio, che a nord e a ovest si aprono a mostrare scene della vita di corte. Celebre è soprattutto la raffigurazione di Ludovico, della moglie Barbara di Brandeburgo e del loro entourage sulla parete nord, dipinta quasi interamente a secco su muro. Qui l’illusionismo tocca vertici straordinari per quei tempi, con i tappeti lasciati ricadere nello spazio della stanza stessa, il camino che segna la linea del pavimento della sala, a cui si accede attraverso la scala raffigurata a destra, e l’uomo che, appoggiandosi alla lesena centrale, sembra occupare il medesimo spazio dello spettatore. Mantegna potrebbe aver messo in scena un momento ben preciso della vita dei suoi committenti, ma già nel Cinquecento si stenta a identificare l’episodio. Ludovico ha appena ricevuto un breve portatogli dal messo che sopraggiunge da sinistra: è quello pontificio che gli comunica la nomina a cardinale del suo secondogenito, Francesco (1444-1483), a sua volta ritratto nella parete ovest della Camera? Sopra la porta al centro della parete ovest alcuni putti sostengono l’iscrizione latina con la data che segna il termine dei lavori e la dedica ai committenti: Mantegna indica la decorazione della Camera come OPUS HOC TENUE, ovvero un’opera “modesta” (tenue), ma forse anche “fine”. Pochi centimetri più in là, tra i finti racemi di una lesena, l’artista inserisce orgogliosamente il proprio autoritratto.
Il 23 settembre 1464 Mantegna, insieme a tre amici festosamente travestiti da antichi, tra i quali l’umanista Felice Feliciano che ci ha lasciato una descrizione della gita, si imbarca per un’escursione sulle rive del lago di Garda alla scoperta di auguste vestigia della romanità, in particolare di quelle preziose iscrizioni avidamente collezionate in area padana già a partire dal Trecento. L’episodio è emblematico di quella passione per l’antichità che caratterizza la committenza della corte dei Gonzaga e la lunga carriera di Mantegna.
Alla morte di Ludovico, nel 1478, suo figlio Federico diviene il terzo marchese di Mantova. È probabilmente in occasione delle nozze del 1481 della figlia di Federico, Chiara, che Mantegna dipinge il San Sebastiano oggi al Louvre, tour de force della sua cultura antiquariale. Il santo è legato ai ruderi di un edificio classico riccamente decorato, e poggia i piedi su frammenti di trabeazioni e rilievi; alle sue spalle, è la veduta di una città cresciuta sulle rovine classiche, con una porta che somiglia piuttosto a un arco trionfale.
Mantegna non ha una conoscenza filologica della romanità: la sua è una rievocazione intuitiva della grandiosità degli antichi che si nutre di suggestioni prima di tutto letterarie o delle fonti visive di seconda mano disponibili in area padana. Solo nel 1488, infatti, il pittore si reca per la prima volta a Roma, per eseguire la decorazione della cappella di Innocenzo VIII nel Palazzetto del Belvedere in Vaticano, un complesso interamente perduto alla fine del Settecento. A parte un disegno di discussa attribuzione, niente attesta che Mantegna esegua copie dall’antico a Roma, né lo stile del pittore sembra risentire in maniera evidente di quanto egli può vedere in città.
A confermarlo sono soprattutto le nove grandi tele raffiguranti i Trionfi di Cesare che Mantegna esegue in un arco di tempo piuttosto ampio, tra il 1486 e il 1505: iniziati prima del viaggio a Roma, i dipinti non rivelano alcuna svolta radicale nel linguaggio. Il committente del ciclo è probabilmente Francesco II , marchese dal 1484, sebbene non si possa escludere la possibilità che l’impresa fosse già stata avviata da Ludovico. Discussa è anche l’originaria destinazione delle tele: esposte a partire almeno dal 1521 nel palazzo di San Sebastiano, pare espressamente costruito per ospitarle, nel 1501 alcune erano state impiegate anche come decorazioni temporanee per un apparato teatrale, quasi si trattasse di arazzi. Ad attestare da subito l’eccezionalità dell’impresa è la notizia che nel 1486 Ercole d’Este, ospite a Mantova, interrompe una gita sul Mincio per “andare a vedere i Triomphi de Cesare che dipinge il Mantegna: li quali molto li piacqueno”. Le tele sono per tutto il Cinquecento il vanto delle collezioni d’arte mantovane, le più ampie, preziose e celebri d’Europa. Alla vigilia del sacco della città nel 1629-1630, il ciclo è acquistato in blocco da Carlo I d’Inghilterra, e si conserva oggi in una galleria del palazzo di Hampton Court. Il soggetto raffigurato è il trionfo gallico di Cesare: Mantegna si serve di fonti letterarie, prima fra tutte la Roma triumphans di Flavio Biondo, pubblicata proprio a Mantova nel 1472, ma inserisce anche la descrizione di armi e trofei all’antica frutto della sua fantasia. La convinzione con cui l’artista ricrea la sfilata trionfale è tale da mascherare ogni inesattezza: i Trionfi sono il più grandioso tentativo della pittura quattrocentesca di ridare vita all’antico, e la loro fama non è affatto scalfita dalle conquiste e dai progressi della “maniera moderna” del primo Cinquecento, arrivando intatta alle pagine delle Vite di Giorgio Vasari.
Figlio della fiorente cultura antiquaria mantovana è Pier Jacopo Alari Bonacolsi che, dopo una formazione da orafo e un’iniziale attività di medaglista, si specializza come autore di piccoli e raffinati bronzetti all’antica. Già nel 1479 l’artista si firma come ANTI, ovvero l’Antico, soprannome con cui è noto ancora oggi.
Egli lavora quasi esclusivamente per i Gonzaga, divenendo inoltre loro consulente per gli acquisti e i restauri delle antichità in virtù dell’esperienza acquisita a Roma. Qui egli lavora nel 1495 per Alessandro VI Borgia, e nel 1497 Francesco II lo manda nuovamente a Roma con l’incarico di cercare pezzi antichi per arricchire la collezione della moglie, Isabella d’Este, sposata nel 1490. Del 1498 circa è l’ Apollo del Belvedere, replica della celebre statua trovata a Roma alla fine del secolo. Il bronzetto è noto in più esemplari, uno dei quali eseguito per il vescovo Ludovico Gonzaga, principale committente dell’Antico. Quelli realizzati per Ludovico sono generalmente gli esemplari più sofisticati della produzione dell’Antico, che impiega l’argento per dare luminosità agli occhi e l’oro per rifinirne alcune parti. Rispetto ai bronzetti che il Riccio esegue contemporaneamente a Padova per una committenza colta, legata all’università, che raffigurano a volte temi inusuali, quelli dell’Antico, spesso solo copie di opere antiche (come lo Spinario), si distinguono prima di tutto per l’accuratezza dell’esecuzione. Nel 1519 Isabella chiede a Bonacolsi la copia di tutte le creazioni realizzate 20 anni prima per il vescovo Ludovico: l’artista ne esegue almeno otto, tutte prive però delle rifiniture in oro e argento.
Isabella è figura chiave del collezionismo mantovano. Nel castello di San Giorgio la marchesa ricava due ambienti destinati alla conservazione ed esposizione delle opere d’arte: lo studiolo, decorato da dipinti moderni, e la grotta, ricolma di antichità.
Isabella si tiene continuamente aggiornata attraverso i suoi agenti a Roma, dove nel 1502 acquista il celebre Cupido dormiente scolpito da Michelangelo intorno al 1495 e venduto a Roma come pezzo genuinamente antico (l’opera è perduta).
Nel 1499-1500 Leonardo (1452-1519), in fuga da Milano dopo la caduta di Ludovico il Moro, soggiorna a Mantova e ritrae la marchesa in un disegno dal quale ricava poi il piccolo cartone del Louvre, che forse avrebbe dovuto essere tradotto in pittura. A Leonardo, che nel corso del suo soggiorno milanese ha realizzato ritratti di straordinaria modernità, la marchesa probabilmente impone un modello preciso, la medaglia che il suo scultore di corte, Gian Cristoforo Romano, ha eseguito nel 1498 (Vienna, Kunsthistorisches Museum), e che la ritrae rigidamente di profilo.
Isabella è committente esigente, ma anche incostante: la lunga vicenda della decorazione dello studiolo è illuminante (i dipinti sono oggi tutti al Louvre). La marchesa, intorno al 1495, matura il progetto di ornarlo con cinque o sei tele da commissionare ai maggiori pittori dell’Italia del tempo, e dopo aver ottenuto da Mantegna lo splendido Parnaso, si rivolge a Giovanni Bellini per avere una tela da affiancargli. Ma il vecchio maestro veneziano, temendo forse il confronto con il cognato, assai più abile di lui nella pittura di tema mitologico-allegorico, temporeggia e finisce per non eseguire nulla. La trattativa con Perugino è altrettanto estenuante, e si conclude solo nel 1505 con la non esaltante Battaglia fra Amore e Castità. Il pittore si attiene alle minuziose istruzioni iconografiche inviategli da un dotto umanista della corte mantovana, Paride da Ceresara – si tratta del più antico programma iconografico scritto giunto fino a noi –, ma non riesce a infondere alcun pathos a quella che doveva essere una lotta accesa. Isabella da una parte insiste affinché i pittori si attengano alle sue indicazioni, dall’altra è pronta a cedere pur di ottenere qualcosa da Bellini, o magari persino da Raffaello, al quale la marchesa si rivolge nel 1515, quando il ciclo non è ancora terminato. Dopo tanti tentativi in varie direzioni, la marchesa finisce per avere nello studiolo solo tre pittori: Mantegna, che esegue anche la Minerva scaccia i Vizi dal giardino della Virtù (1502), Perugino e Lorenzo Costa. Questi dipinge l’Incoronazione di una poetessa (1506) e, una volta stabilitosi a Mantova come pittore di corte, porta a termine una tela lasciata incompiuta da Mantegna (Il Regno di Como, 1511 ca.). Nel 1519, alla morte del consorte, Isabella trasferisce i suoi appartamenti e le sue collezioni in Corte Vecchia, e all’inizio degli anni Trenta porta finalmente a termine la decorazione dello studiolo con le due Allegorie della Virtù e del Vizio commissionate a Correggio. Un programma, quindi, tutto incentrato sulla contrapposizione tra Virtù e Vizio e sull’autocelebrazione della marchesa come patrona delle arti, e della musica in particolare.
Il Parnaso, con Venere-Isabella che assiste dall’alto alle Muse che danzano sulle note della lira di Apollo, è l’opera paradigmatica di tutto il ciclo, e mostra l’anziano Mantegna ancora capace di interpretare al meglio le richieste della committenza gonzaghesca.