Manifestazioni della cultura dell'Occidente greco. La ceramica
di Laura Buccino
Le prime importazioni vascolari greche documentate in Occidente nella fase della precolonizzazione e nelle più antiche apoikiai comprendono ceramiche di stile medio- e tardogeometrico, databili tra la fine dell’VIII e gli inizi del VII sec. a.C.: vasi per bere, come le coppe a semicerchi penduli, à chevrons, con metope a uccelli, di origine euboica, le kotylai del tipo cosiddetto Aetòs 666 o le coppe del tipo Thapsos, di produzione corinzia, ma anche anfore, pithoi, crateri, oinochai e le relative imitazioni coloniali. Nell’VIII sec. a.C. si datano anche i primi esemplari di vasi figurati, come il celebre cratere con scena di naufragio rinvenuto a Pithecusa e prodotto da una bottega locale.
Dal VII sec. a.C. si assiste a un’eterogeneità di importazioni da varie aree del mondo greco (ceramica euboica, corinzia, achea, laconica, greco-orientale, oltre ai piatti con aironi stilizzati e ai buccheri etruschi), che diedero impulso alle produzioni in ateliers locali che imitavano i modelli della madrepatria (ad es., la ceramica cd. in “stile acheo”). Il rinvenimento di un grande cratere figurato ha dato il nome alla bottega “dei crateri del Fusco”, attiva a Siracusa nella prima metà del VII sec. a.C., probabilmente originaria di Argo. Al prevalere del commercio dei vasi corinzi in età orientalizzante e arcaica, in gran parte provenienti dalle colonie corinzie dell’Adriatico, Corfù o Itaca, seguirono nel V-IV sec. a.C. le importazioni di ceramica attica, ben esemplificate in territorio italico anche dai cospicui rinvenimenti nelle necropoli di Spina e di Ruvo di Puglia.
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di Fernando Gilotta
Vario e articolato appare il quadro della produzione ceramica nelle diverse regioni dell’Italia meridionale. Tra le testimonianze più precoci nel panorama del Geometrico magno-greco, si segnalano per qualità e originalità stilistica i vasi di bottega pithecusana, collocabili nella seconda metà dell’VIII sec. a.C. e chiaramente ispirati alla omologa ceramica della madrepatria euboica. Particolare interesse rivestono, in alcune aree, classi ceramiche ancora di impronta geometrica, ma dai caratteri più propriamente indigeni: significativa per finezza e per la notevole diffusione geografica è la ceramica cosiddetta “a tenda”, prodotta forse nell’entroterra materano nel IX e soprattutto nell’VIII sec. a.C. Materiale indigeno abbondante ha restituito anche l’Apulia, ove sono state individuate scuole ceramografiche autonome in Daunia e nella parte centromeridionale della regione, caratterizzate da conservatorismo decorativo (pur non immune da influssi esterni, anche del Geometrico greco) e da un persistente uso della modellazione a mano o alla ruota lenta. Stili geometrici vivificati da spunti di origine corinzia e attica sopravviveranno in questa regione fin nel V e IV sec. a.C.
Per buona parte del VII sec. a.C. ceramiche orientalizzanti di notevole qualità, dotate di rappresentazioni figurate talora policrome, vengono prodotte a Siris, Siracusa, Megara Hyblaea e in altri centri, rivelando frequentemente inflessioni stilistiche cicladiche e argive. Interessanti, pur se limitate, produzioni di ceramiche riecheggianti modelli greco-corinzi, greco-orientali, attici, non mancano neppure nel corso del VI e V sec. a.C., tanto in ambiente coloniale che nei centri indigeni (ad es., in Messapia); si segnala, inoltre, un gruppo di vasi a figure nere rinvenuti soprattutto nelle zone di Bari e di Egnazia e lungo la costa salentina, che mostrano affinità tecniche e stilistiche con le coeve produzioni campane e sono per alcuni studiosi opera di artigiani immigrati da quella regione. L’arrivo di ceramografi attici, forse in concomitanza con la fondazione della colonia panellenica di Thurii (443 a.C.), favorisce la nascita di una produzione magno-greca a figure rosse destinata a incontrare largo favore.
I vasi più antichi di questa classe, denominati “protoitalioti”, vengono creati nell’ultimo trentennio del V sec. a.C. in officine di area lucana e poco dopo anche in territorio apulo. Tra la fine del V e il IV sec. a.C. le ceramiche italiote a figure rosse si diversificano sempre più nettamente nelle varie aree di produzione, dando luogo in Apulia, Lucania, Campania, a Paestum e in Sicilia a scuole dai caratteri peculiari. La scuola lucana, dopo le cospicue prove dei Pittori di Pisticci, Amykos e Policoro, conosce ancora momenti di notevole creatività con il Pittore di Dolone (fine del V - primi decenni del IV sec. a.C.), ma va incontro nei decenni successivi a un netto e rapido impoverimento qualitativo. Sviluppi assai più rilevanti conosce invece la ceramografia apula che, dopo i Pittori della Danzatrice di Berlino e di Sisifo, si articola nelle produzioni del Plain e dell’Ornate Style. Nello stile ornato, che prende le mosse dal Pittore della Nascita di Dioniso verso la fine del V sec. a.C., sono dipinti tra gli altri i vasi del Pittore della Ilioupersis (370-350 a.C.), vero precursore della produzione ceramica della seconda metà del IV sec. a.C. per quanto riguarda monumentalità e ricchezza ornamentale.
Tra il 340 e il 320 a.C. la personalità di maggior spicco è il Pittore di Dario, incline a rappresentare nei suoi vasi di dimensioni talora colossali immagini del mito ed episodi storici dall’impianto grandioso. Nella seconda metà del IV sec. a.C. ceramografi tarantini dovettero trasferirsi con le loro botteghe in diversi centri indigeni ellenizzati della regione (Altamura, Canosa, ecc.), ma non è da escludere che in località della Daunia fossero attivi nella produzione a figure rosse anche artigiani locali. Assai meno significativa, per quantità e modestia del repertorio figurato, è la produzione sviluppatasi intorno al secondo quarto del IV sec. a.C. in Campania e a Paestum, forse dietro sollecitazione di ceramografi attivi inizialmente in Sicilia. Tra gli aspetti più interessanti del primo gruppo si segnala la relativa frequenza di immagini di guerrieri in armamento sannitico e di personaggi femminili abbigliati alla maniera locale, che ricordano analoghe raffigurazioni di contemporanee tombe dipinte e vasi pestani. Recente, e ancora in fase di definizione, il riconoscimento di un piccolo nucleo di vasi atticizzanti di possibile produzione campana (e neapolitana) databili verso la fine del V sec. a.C., forse le più antiche produzioni a figure rosse della regione dopo l’esperienza isolata e tutto sommato provinciale dell’Owl Pillar Group (terzo quarto del V sec. a.C.).
Quanto alla Sicilia, dopo una prima fase collocabile tra 400 e 370 a.C., che vede personalità di formazione spiccatamente atticizzante, botteghe di un certo rilievo si segnalano soltanto a partire dal terzo quarto del IV sec. a.C. Di particolare interesse i prodotti di una bottega liparese operante verso gli ultimi decenni del secolo, ormai pienamente omologabili alle pitture dell’alto ellenismo di ambiente greco. Accanto alla produzione a figure rosse, che si esaurirà nel corso dei primi decenni del III sec. a.C., si affermano in Italia meridionale anche classi ceramiche diverse: quelle sovraddipinte (cd. “di Gnathia”), già in voga a partire dalla prima metà del IV sec. a.C., quelle policrome, di prevalente uso funerario, prodotte in centri dauni (Canosa, Arpi) e siciliani (ceramica ellenistica di Centuripe), quelle a rilievo e a vernice nera, attribuibili a una pluralità di botteghe di differente formazione e gusto.
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Ceramiche geometriche e orientalizzanti:
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Per nuovi gruppi stilistici:
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Ceramica sovraddipinta:
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Ceramica policroma:
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di Filippo Giudice
A parte la produzione dei vasi campani a sola vernice nera, quella dei vasi a figure nere e quella, infine, del Pittore del Pilastro con Civetta, datato intorno al terzo venticinquennio del V sec. a.C., una produzione, ritenuta campana, si afferma agli inizi del IV sec. a.C. se non addirittura nell’ultimo quarto del V sec. a.C. La ricostruzione della fisionomia dell’artigianato campano s’identifica con l’opera di A.D. Trendall. Lo studioso britannico, sulla scia della grande tradizione di J.D. Beazley, nel 1967 pubblicava, a conclusione di una lunga serie di studi precedenti, la voluminosa monografia The Red-Figured Vases of Lucania, Campania and Sicily, nella quale, sulla base delle somiglianze stilistiche e grafiche, isolava un numeroso gruppo di officine e maestri di vasi a figure rosse operanti tra la fine del V e tutto l’arco del IV sec. a.C.
Per le ceramiche campane, egli faceva precedere alla rassegna dei pittori un capitolo dedicato alle origini delle figure rosse campane e passava ad affermare che lo stile di queste e di quelle pestane aveva origine in una serie di vasi che potevano essere raggruppati attorno ai pittori della Scacchiera e di Dirce, che furono probabilmente attivi alla fine del V e durante le prime decadi del IV sec. a.C. Poiché molti di questi vasi avevano una provenienza siciliana, lo studioso sosteneva che non era irragionevole che i due pittori lavorassero nell’area siciliana, specialmente dopo che la disfatta del 415 a.C. aveva reso più difficile l’importazione in Sicilia dei vasi attici. Egli, ancora, sulla base della presenza di ceramiche simili rinvenute in Campania, ipotizzava che alcuni dei seguaci fossero emigrati a Paestum e nell’area campana, mentre altri avessero continuato stentatamente la loro opera in Sicilia; in particolare, egli congetturava che una piccola officina si fosse impiantata in Sicilia, probabilmente a Siracusa, sotto il Pittore della Scacchiera, un artigiano di formazione ateniese; a questa seguì quella del Pittore di Dirce, un “collega” del quale, il Pittore di Napoli 2074, emigrò verso il Nord alla volta della Campania. I seguaci del Pittore di Dirce (e quelli del gruppo dell’Orgia) sembrano essersi divisi tra Sicilia e Campania, alcuni rimanendo nell’isola e dando origine al gruppo di Lentini, altri dando consistenza alle fabbriche che riconosciamo chiaramente come campane e pestane.
Dubbi, ampiamente condivisi, sono stati avanzati sul “trasferimento” ipotizzato da Trendall di pittori dalla Sicilia alla Campania dall’età di Dionisio fino a quella di Timoleonte, momento in cui si sarebbe verificato un “ritorno” nell’isola. L’attenzione posta alla politica di ampio respiro di Dionisio I (405-367 a.C.), proiettata verso Locri, il Golfo di Taranto e l’alto Adriatico, il suo esercito composto di mercenari, fra i quali particolare spicco avevano quelli campani, le sue incursioni persino in territorio etrusco, i suoi incentivi all’immigrazione di esperti artigiani e ingegneri dall’estero, forniscono uno scenario ampio, non ristretto alla sola Sicilia, entro cui uomini e merci potevano muoversi e circolare; quello che appare centrale è in ogni caso il ruolo della Sicilia, e subalterno quello campano, e appare più convincente attribuire all’isola una capacità produttiva, che l’ampio spettro della politica dionigiana consentiva di sostenere: in questo senso andrebbero spiegate le presenze delle ceramiche al di fuori dell’isola, in Africa, a Locri, lungo l’Adriatico, alla foce del Po e, principalmente, in Campania. Questa apertura della produzione siceliota al mercato italiota (bruzio, campano e adriatico) non deve avere subito interruzioni vistose al tempo di Dionisio II (367-344 a.C.), che continuò ad attingere per il suo esercito all’area campana. Diodoro e Polibio, inoltre, ricordano che Agatocle era figlio di un vasaio operante in Sicilia al tempo di Dionisio e, presumibilmente, dello stesso Dionisio I.
Apre la serie di questi pittori “protosicelioti”, che esportano in Campania, il Pittore della Scacchiera (così denominato per questo motivofirma), attivo tra la fine del V e i primi decenni del IV sec. a.C., il quale predilige la forma del cratere a calice e le raffigurazioni di Eroti; segue il gruppo di Dirce (così denominato dal supplizio di questa rappresentato su un cratere a calice). I vasi del Pittore di Dirce provengono tutti da località siciliane, tranne una lekanìs rinvenuta a Cuma; quelli del Pittore di Napoli 2074 e del Pittore dell’Erote e della Lepre, appartenenti allo stesso gruppo, provengono in buon numero, oltre che dalla Sicilia, dalla Campania. Il terzo gruppo, detto “dell’Orgia” (dal thiasos raffigurato su un’hydria di Londra), ha vasi, oltreché in Sicilia e in Campania, a Locri, che sembrerebbero confermare una via commerciale intermedia tra la Sicilia e la Campania. A questo primo gruppo di ceramiche importate dalla Sicilia sembra ispirarsi la prima produzione dei pittori “campani” veri e propri, distinti in un secondo, in un terzo e in un quarto gruppo, e la cui produzione circola per lo più all’interno della sola area campana. Il secondo gruppo ha come caposcuola il Pittore di Cassandra; il terzo comprende i vasi dei gruppi di Capua e Avella (A.V.); il quarto, il gruppo di Cuma.
Il secondo gruppo, che fa appunto capo al Pittore di Cassandra ha, fra i principali rappresentanti, i pittori della Collezione Parrish e quelli del Laghetto, di Caivano ed Errera. A sé sta il Pittore di Issione, così denominato per il peculiare soggetto della punizione di Issione. Chiudono questo secondo gruppo pittori che operano nell’area di Capua, i Pittori di Atella e Siamese, espressione di un estremo barbarism, attivi negli ultimi decenni del IV sec. a.C. Il luogo di rinvenimento dei circa 1000 vasi attribuiti a questo secondo raggruppamento è noto solo per un numero ristretto di essi: si registrano provenienze specialmente da Capua, Marcianise (vicino a Capua), Maddaloni, Santa Maria Capua Vetere, Frignano, Aversa, Atella, Caivano, Cuma, Napoli, Castelcapuano, Ponticelli, Baia, Paestum, contrada Laghetto, fondo Castagno, Fravita, Pontecagnano, Calvi; fuori dalla Campania, da Spina e, fuori dalla penisola italiana, da Ampurias. La cronologia dell’attività del Pittore di Cassandra si pone intorno al 360 a.C., quella dei suoi primi allievi intorno al 350-340 a.C.
Al terzo gruppo, che comprende i vasi dei gruppi di Capua e A.V., sono attualmente attribuiti più di 600 vasi. Il gruppo A.V., a sua volta, sulla base di considerazioni stilistiche, è stato suddiviso in tre principali sottogruppi: della Faccia bianca (A.V. I), della Libagione (A.V. II), e delle Danaidi (A.V. III). I luoghi di rinvenimento del terzo gruppo (cd. Second Capuan School ) sono Capua, Carditello, Caserta, Marcianise, Maddaloni, Frignano, Atella, Telese, Sant’Agata dei Goti, Avella, Nola, Napoli, Castelcapuano, Pompei, Sorrento, Tempa del Prete, Sant’Angelo Ogliara, Pontecagnano; fuori dalla Campania, Anzi.
Il quarto gruppo, che fa capo a Cuma, si articola, da una parte, nell’officina del Pittore CA e del Pittore di New York GR 100 e, dall’altra, nel gruppo di Cuma A, col gruppo cosiddetto “apulizzante” (di questo gruppo va ricordato il Pittore APZ), in quello di Cuma B (I: col gruppo di Nicholson; II: col gruppo Romboide) e infine in quello di Cuma C. A quest’ultimo gruppo sono stati attribuiti più di 4000 esemplari, provenienti specialmente da Cuma, tradizionalmente ritenuta già da G. Patroni e da E. Gabrici il luogo di produzione e, quindi, da Capua, Minturno, Teano, Vitulazio, Sant’Angelo in Formis, Sant’Agata dei Goti, Carditello, Maddaloni, Villa di Priamo (Aversa), Caivano, Sant’Antimo, Fratte, Afragola, Villaricca, Avella, Nola, San Paolo Belsito, Calvi, Napoli, Castelcapuano, Ponticelli, Pompei (villa delle Colonne a Mosaico), Spinazzo (Paestum), Tempra del Prete (Paestum), Fuscillo, contrada Sterpone (Padula), contrada Trepedino (Padula) e, fuori dalla Campania, da Canosa e da Castronuovo Sant’Andrea.
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di Ettore M. De Juliis
La ceramica apula è una produzione di ceramica italiota a figure rosse autonoma rispetto a quella, più nota, attica, riconosciuta e distinta per la prima volta nel 1893 da A. Furtwängler. Da allora gli studi di questa ricca classe vascolare sono progrediti lentamente per diversi decenni, dato lo scarso interesse per essa da parte dei maggiori archeologi del tempo e fatta eccezione per alcuni importanti, ma isolati contributi scientifici (Vanacore 1905; Macchioro 1909; Moon 1929). Un mutamento sostanziale negli studi sulla ceramica italiota e soprattutto un progressivo, costante, maggiore interesse verso i problemi a essa legati si verificarono grazie agli studi di A.D. Trendall, la cui prima opera sui vasi protoitalioti, risalente al 1938, è stata seguita da innumerevoli, fondamentali studi, che giungono fino ai giorni nostri. L’impegno di Trendall si è volto soprattutto alla sistemazione organica dell’immensa produzione vascolare italiota, distinta per aree di produzione e, all’interno di esse, per officine, gruppi e singole personalità artistiche sulla base di un’approfondita analisi stilistica. L’opera di Trendall, a cui si è affiancato presto A. Cambitoglou per lo studio delle ceramiche della Puglia, ha contribuito a suscitare un ampio e forte interesse per le ceramiche dell’Italia meridionale in un crescente numero di studiosi, i quali hanno affrontato l’aspetto iconografico con i relativi problemi: le rappresentazioni mitologiche, i rapporti con il teatro antico, il significato funerario e religioso (Schneider-Herrmann 1970; Trendall-Webster 1971; Moret 1975; Schauenburg 1976; Smith 1976).
Sul piano tecnico la produzione italiota non differisce, almeno nella fase più antica, da quella attica a figure rosse, dalla quale deriva anche per le forme e per la decorazione. Quest’ultima è fondata sul contrasto tra il nero del fondo verniciato e le parti risparmiate nell’argilla. Più in particolare nella ceramica apula si osserva il graduale passaggio da un disegno netto, derivato dal solo contrasto tra vernice e argilla, a un’esuberante policromia dovuta all’impiego di tre colori aggiunti: il bianco, il rosso porpora, il giallo. Anche il repertorio formale utilizzato dalle officine apule subisce modifiche e aggiunte rispetto a quello attico originario. Basti considerare a tal proposito il cratere “a mascheroni”, l’anfora di tipo panatenaico, la loutrophoros con o senza anse, la grande patera con anse ornate da pomelli e infine, tra le forme di derivazione indigena, la nestorìs. Uno dei problemi maggiori, in cui ci si è imbattuti sin dall’inizio dello studio della ceramica italiota, è quello della sua origine. Un’ipotesi già formulata nel 1893 da A. Furtwängler e poi ripetuta, con maggiore o minore convinzione, da tutti gli studiosi fino ai giorni nostri, è quella che considera la fondazione di Thurii, nel 444/3 a.C., quale causa determinante dell’inizio di una produzione autonoma di ceramica a figure rosse di stile attico in Magna Grecia.
Alla fondazione della nuova colonia voluta da Pericle avrebbero partecipato anche artigiani ceramisti ateniesi, i quali, trasferendo le loro officine in Italia, avrebbero dato il via a un’attività parallela a quella della madrepatria. L’ipotesi, oltre a essere affascinante, è verosimile, anche se non tutto deve essersi svolto in maniera così semplice e lineare, come sembrano dimostrare le più recenti indagini archeologiche. In realtà gli scavi di Thurii, anche se limitati, non hanno dato finora nessuna prova dell’esistenza di fornaci di ceramica a figure rosse risalenti ai primi anni della colonia. Viceversa, gli scavi effettuati nel 1973 nel quartiere dei ceramisti di Metaponto hanno rivelato l’esistenza in quella città dell’officina di uno dei primi maestri italioti, il Pittore di Amykos, e dei suoi principali seguaci, il Pittore di Creusa, il Pittore dell’Anabates, il Pittore di Dolone, tutti operanti tra la fine del V e l’inizio del IV sec. a.C. Tali scoperte, benché di grande importanza, non risolvono in maniera definitiva il problema delle origini, poiché esse non escludono la presenza di officine, anche più antiche, a Thurii, né la possibilità che l’officina dei pittori sopra citati abbia operato, sia prima che dopo, anche in altri centri vicini.
Certo il trasferimento di alcuni artigiani ateniesi in Occidente non basta a spiegare un fenomeno così importante e ricco di conseguenze come è l’inizio della produzione vascolare italiota, in considerazione del fatto che pure in precedenza può essersi verificato il trasferimento di ceramisti dalla Grecia in Italia senza per questo dare vita a un fenomeno così macroscopico. In realtà la spinta iniziale deve essere stata potenziata e favorita da una serie di circostanze favorevoli, ossia dalla situazione storica generale. All’iniziale trasferimento di ceramisti attici a Thurii viene affiancata, da parte di Trendall, quale causa originaria del fenomeno, la crisi dell’artigianato vascolare ateniese dovuta alla peste del 430 a.C. e alla successiva guerra del Peloponneso, che avrebbero falcidiato la forza-lavoro e compromesso i fiorenti rapporti commerciali. Tutto questo è probabile e molto ancora si potrebbe dire in proposito. Certo è, comunque, che la ceramica italiota cominciò a essere prodotta in alcune colonie greche del Golfo di Taranto: Metaponto e, quasi certamente, Eraclea e Taranto. Sono queste le città che, per un verso o per l’altro, sono più legate ad Atene negli ultimi decenni del V sec. a.C.; basti considerare la costante amicizia tra Metaponto e Atene da una parte e la composizione mista, turino-tarantina, di Eraclea dall’altra. Nell’ambito di queste tre città vicine del Golfo di Taranto nasce, pertanto, la ceramica italiota, strettamente connessa all’inizio con quella attica, da cui ha origine.
I più antichi vasi italioti sembrano risalire al decennio 430-420 a.C. e presentano una forte omogeneità stilistica. Essi, tuttavia, sono stati distinti sin dall’inizio in maniera artificiosa in due grandi gruppi (protoitaliota A e protoitaliota B), corrispondenti rispettivamente alla produzione lucana e a quella apula. Anche questa terminologia, ormai universalmente usata, è antistorica e fuorviante, se solo si considera che gli indigeni di cui si utilizza il nome non hanno nulla a che fare con tale ceramica, almeno nella sua fase più antica, trattandosi di ceramica italiota in generale e di una produzione metapontina, eraclense e tarantina in particolare. Fatte le dovute riserve terminologiche, si riporta di seguito l’articolazione stilistico-cronologica della ceramica apula, già da tempo utilizzata e di recente aggiornata da Trendall e Cambitoglou: Apulo Antico (430-370 a.C.); Apulo Medio (370-340 a.C.); Apulo Tardo (340-300 a.C.). Va detto subito che la cronologia della ceramica italiota e quindi anche di quella apula non è fondata ancora su dati cronologici assoluti, bensì sullo sviluppo stilistico dei diversi artisti. La prima parte dell’Apulo Antico, un tempo definita protoapulo, parallela e affine al protolucano, potrebbe più utilmente restare distinta da quella successiva, con le seguenti definizioni: Apulo Antico I (430-400 a.C.); Apulo Antico II (400-370 a.C.).
Opinione comune è che la ceramica apula abbia avuto inizio qualche anno dopo quella cosiddetta “lucana”; essa tuttavia si presenta già stilisticamente ben caratterizzata nel corso dell’ultimo venticinquennio del V sec. a.C. In tale periodo operano alcune personalità artistiche, tra le quali eccellono il Pittore della Danzatrice di Berlino e il Pittore di Sisifo. Nelle opere del primo appare ancora viva l’influenza attica, in particolare quella della cerchia del Pittore di Polignoto, riscontrabile nella scelta delle forme e dei soggetti, in alcuni tratti del disegno, nell’uso delle iscrizioni. Il secondo artista è il principale tra i pittori protoapuli e la sua opera è di grande importanza per lo sviluppo successivo di questa ceramica. Infatti in essa si trova l’origine dei due principali filoni stilistici in cui si articola la successiva produzione apula: lo “stile semplice” e lo “stile ornato”. Del primo fa parte una produzione che può definirsi minore, sia per le dimensioni dei vasi sia per la semplicità della decorazione. Rientrano invece nel secondo i grandi vasi, spesso di aspetto monumentale, decorati con complesse scene non sempre di facile interpretazione. Apprezzabili sono la bellezza delle figure di aspetto statuario, rifacentisi spesso alla grande scultura greca del V sec. a.C., così come la ricchezza dei panneggi femminili, a cui fa però spesso riscontro una scarsa unità compositiva, con gruppi di figure giustapposti. In due crateri a colonnette di questo stesso pittore compaiono già, per la prima volta, personaggi in costume apulo. Questo è un segno tangibile non solo dei rapporti di scambio intercorrenti tra Taranto e le aristocrazie indigene, ma anche del ruolo tutt’altro che marginale assunto da queste ultime, per le quali i vasai tarantini lavoravano anche su commissione.
Il diretto discendente del Pittore di Sisifo e il massimo rappresentante dello stile ornato nella seconda fase dell’Apulo Antico è il Pittore della Nascita di Dioniso. Il nome gli deriva dal celebre cratere a volute del Museo Archeologico Nazionale di Taranto, con la rappresentazione della nascita di Dioniso dalla coscia di Zeus. In questo vaso, come negli altri attribuiti allo stesso pittore, le pose solenni e statuarie e soprattutto la cura nel trattamento delle pieghe del panneggio ci riportano ai pittori attici della fine del V sec. a.C., specialmente alla scuola di Meidias. Contemporaneo del Pittore della Nascita di Dioniso è il Pittore di Taporley, il maggiore esponente dello stile cosiddetto “semplice”. Nella sua abbondante produzione si avvertono notevoli variazioni, che hanno indotto gli studiosi ad articolarla almeno in tre periodi successivi partendo dalle prime opere più vicine ai modi del Pittore di Sisifo. Anche il Pittore di Taporley produce crateri a colonnette con la rappresentazione di guerrieri apuli, contraddistinti dal costume nazionale. Inoltre a questo stesso pittore viene attribuito uno dei primi vasi fliacici, il cratere a calice di New York, dove è rappresentata la scena di una farsa, in cui i personaggi sono accompagnati da iscrizioni metriche.
Nella fase media della ceramica apula continuano a coesistere i due stili tradizionali, ma comincia ad apparire verso la metà del IV sec. a.C. una decorazione ricca ed esuberante, per questo detta “barocca”, che caratterizzerà la successiva fase tardoapula. In questa fase intermedia appaiono infatti molti di quelli che saranno gli elementi caratteristici dell’Apulo Tardo: l’incremento dell’uso dei colori aggiunti (rosso violaceo, giallo, bianco); l’elaborazione della decorazione sussidiaria, come le teste femminili tra elementi vegetali; la frequenza di teste femminili, come rappresentazione principale nei vasi di piccole dimensioni; una particolare attenzione ai problemi dello scorcio e della prospettiva, specialmente nella rappresentazione dei naiskoi. Una figura centrale e di grande importanza nella storia della ceramografia apula è quella del Pittore dell’Ilioupersis, che dà nuovo impulso allo stile ornato e introduce parecchie novità, che diverranno canoniche nella successiva fase tardoapula. Una delle innovazioni principali riguarda il cratere a volute; sembra infatti sia stato il primo ad applicare dei medaglioni a forma di maschere sulle volute, creando così il cosiddetto “cratere a mascheroni”, forma tipica della ceramica apula assente in Campania e in Sicilia. I soggetti sono mitologici, dionisiaci, teatrali, ma il merito maggiore dell’artista sta nell’introduzione di un tema specificamente funerario rappresentato dal naiskos o dalla stele.
La seconda grande personalità della fase media della ceramica apula è il Pittore di Licurgo, la cui attività si pone tra il 360 e il 340 a.C. La sua opera è autonoma rispetto a quella del Pittore dell’Ilioupersis e della sua fiorente scuola, mentre scarso appare il suo influsso sui pittori della fase tardoapula. Viceversa si riscontra un’influenza di questo artista sui pittori lucani, soprattutto sul Pittore del Primato, che viene ritenuto suo discepolo. Caratteristiche stilistiche del Pittore di Licurgo sono la predilezione per la rappresentazione dei volti visti di tre quarti e l’uso esteso dei bianchi e dei gialli aggiunti. I volti hanno spesso un aspetto sofferente, derivante dai contemporanei scultori di scuola scopadea; tuttavia è rilevabile nel suo stile una certa dose di manierismo e di artificiosità. I temi preferiti da questo pittore sono mitologici, teatrali, nuziali o erotici. Si è già accennato alle caratteristiche principali della ceramica apula nella sua ultima fase di sviluppo (340-300 a.C.). A esse si deve aggiungere la predilezione per le dimensioni monumentali dei vasi, soprattutto dei crateri a mascheroni, e l’accentuazione del carattere funerario di tali vasi, confermata dalla mancanza del fondo in molti esemplari.
Uno dei massimi artisti di questa fase tarda è il Pittore di Dario, che prende il nome dal celebre cratere canosino con la rappresentazione del re Dario tra i Persiani. Questo pittore si collega strettamente al Pittore dell’Ilioupersis, di cui accentua la ricchezza dello stile ornato conferendogli un carattere pienamente “barocco”, spesso a scapito dell’unità compositiva. Un’altra importante personalità di questo periodo è il Pittore dell’Oltretomba, che porta i principi decorativi del precedente verso un’elaborazione ancora maggiore. Egli esercita una grande influenza sugli artisti successivi, tra i quali emerge la personalità del Pittore di Baltimora, che produce vasi monumentali di notevole livello artistico e la cui attività sembra essersi svolta nella Puglia settentrionale, forse a Canosa. In un centro della stessa area, probabilmente ad Arpi, si colloca l’attività di uno degli ultimi pittori validi prima del definitivo esaurimento di questa produzione. Si tratta del Pittore di Arpi, individuato recentemente e definito da Trendall il più originale e notevole tra gli ultimi pittori apuli, sia per la scelta sia per il trattamento dei soggetti, oltre che per la maniera altamente individuale di dipingere.
Si è accennato solo a proposito degli ultimi pittori alla possibilità che essi abbiano operato in centri indigeni, ancorché ellenizzati, della Puglia. La localizzazione delle fabbriche è in realtà uno dei principali problemi relativi alla ceramica apula ed è ancora tutt’altro che risolto. La ceramica apula è un prodotto dell’artigianato tarantino, come è attestato, se non ancora dal ritrovamento delle fornaci, almeno da quello di vasi e frammenti dei più noti pittori, dal Pittore della Danzatrice di Berlino al Pittore di Dario. A partire dalla fase media, però, pur restando Taranto il centro di invenzione e di propulsione di tale ceramica, si ritiene che gruppi di artigiani o pittori isolati abbiano cominciato a trasferire la propria attività nei maggiori centri indigeni, già da tempo fruitori di tale produzione. Si è pensato, ad esempio, che il Pittore dei Nasi Camusi, il Pittore Varrese e i suoi seguaci abbiano lavorato in Basilicata e nella Puglia centrale. Queste ipotesi si fondano finora solo sull’esame delle aree di diffusione dei prodotti di determinati artisti e restano piuttosto incerte per la fase media.
Una base più concreta sembra avere, invece, l’ipotesi dell’attività di pittori o di gruppi di pittori nella Puglia centro-settentrionale nell’ultimo trentennio del IV sec. a.C. Essa è costituita dall’osservazione della mancanza assoluta di vasi di questi pittori a Taranto e in genere nella Puglia meridionale, mentre viceversa essi si concentrano, talvolta in decine di esemplari, in aree abbastanza circoscritte o in ben determinati centri. Sembra legittimo perciò localizzare a Ruvo l’attività dell’officina del Pittore della Patera, del Pittore dell’Anfora e del Pittore di Ganimede, tra loro strettamente collegati, così come si può porre a Canosa l’officina del Pittore di Baltimora e di altri a lui vicini o allievi, come il Pittore di Stoke-on-Trent, il Pittore del Sakkos bianco e il gruppo del Kantharos. Un altro problema non marginale, che dovrà essere approfondito negli anni venturi, ma che è stato già affrontato in anni recenti con risultati apprezzabili anche se non definitivi, è quello della diffusione della ceramica apula. Va subito chiarito che essa, come tutta la restante ceramica italiota, è ben lungi dal sostituire la ceramica attica anche nella sua diffusione. La produzione italiota circola, infatti, quasi esclusivamente nell’Italia meridionale, dove subentra alla ceramica attica, fatta eccezione per alcune aree della Campania interna e della Puglia adriatica, come Ruvo, dove giungono vasi attici ancora alla fine del V e all’inizio del IV sec. a.C.
Altre interessanti osservazioni si possono fare sulla circolazione delle ceramiche italiote, più specificamente per l’area pugliese. Qui, nell’ultimo trentennio del V sec. a.C., i vasi protolucani sono di gran lunga più numerosi di quelli apuli, cioè in misura del 68,7%, rispetto al 31,3%. Questo conferma ciò che era già noto da altri aspetti della documentazione archeologica, come pure della circolazione monetaria, ossia che in quei decenni Metaponto manteneva ancora il primato nei rapporti con il mondo indigeno, non solo enotrio, ma anche iapigio, rispetto a Taranto che, però, cominciava la sua progressiva, rapida ascesa. Infatti nel primo trentennio del IV sec. a.C. il divario tende a colmarsi: i vasi protolucani sono il 51,2%, quelli protoapuli il 48,8%. Successivamente, nella fase media e tarda si instaura il monopolio dei vasi apuli, mentre scompaiono del tutto quelli lucani. Un altro quadro significativo è dato dai flussi di importazione dei vasi protoitalioti prima e apuli poi nelle tre regioni storiche della Puglia. Le percentuali sono queste: Messapia (30%, 10%, 4%); Peucezia (65%, 65%, 40%); Daunia (5%, 25%, 56%), rispettivamente per le fasi Apulo Antico, Medio e Tardo. La Peucezia quindi è la regione che assorbe la massima parte delle importazioni, mentre al tracollo della Messapia fa riscontro la crescita della Daunia nell’ultima fase. La grande floridezza dei centri della Peucezia e più tardi di quelli dauni si fondava probabilmente sulla fornitura di derrate alimentari a Taranto, che in quei decenni ne aveva grande bisogno per mantenere i numerosi eserciti al suo servizio, dato il suo stato di perenne conflittualità prima con le popolazioni messapiche e poi con quelle lucane.
Un altro ampio campo di indagine, ancora ben lungi dall’essere del tutto esplorato, è costituito dallo studio delle scene figurate, nei più diversi aspetti: iconografico, teatrale, funerario, religioso. A tal proposito basterà richiamare l’attenzione sul valore documentario, oltre che artistico, di questo immenso atlante figurato, coevo alle grandi opere scultoree e pittoriche greche irrimediabilmente perdute. Né meno preziosi si mostrano i vasi italioti in generale e apuli in particolare per gli studiosi del mito greco, rappresentato qui spesso secondo versioni rare o, a volte, del tutto sconosciute e quindi di ardua interpretazione. Un altro ambito di ricerca affascinante, anche se molto infido per il rischio di collegamenti azzardati, è quello volto allo studio dei rapporti tra il grande teatro greco e le rappresentazioni figurate presenti in alcuni dei maggiori vasi apuli, come, per citarne uno solo, il cratere canosino dei Persiani. Più sicuro invece è il legame tra la farsa popolare e i vasi cosiddetti “fliacici”. In essi, nello spirito della commedia attica, vengono raffigurate scene di un teatro popolare imperniato sulla parodia della tragedia e del mito, che assurgerà a dignità letteraria grazie all’opera di Rintone.
Il carattere funerario e quindi religioso della ceramica apula, già presente nella fase antica e media, diventa preminente nella fase tarda, allorché i grandi vasi, veri e propri monumenti sepolcrali, si rivestono di scene che alludono sempre più chiaramente al mondo degli inferi (rappresentazioni dell’Ade) e al destino dell’uomo nella vita ultraterrena (stele, naiskos, attributi e simboli funerari). In una siffatta prospettiva anche le divinità tradizionali si rivestono di significati mistici, cosicché vengono rappresentati in rapporto all’aldilà non solo Ade, Persefone, Ecate, Demetra, ma anche Afrodite, Eros e, naturalmente, Dioniso nella sua accezione ctonia. In questo sincretismo religioso si è visto anche un esplicito riferimento alle dottrine orfiche e pitagoriche, che proprio nel IV sec. a.C. ebbero una straordinaria ripresa in Magna Grecia. Tuttavia, più che l’orfismo e il pitagorismo, dottrine di carattere aristocratico, sembrano aver riscosso un enorme successo negli strati popolari e tra le genti indigene ellenizzate le dottrine eleusine e soprattutto il dionisismo, la cui iniziazione prometteva molto di più che la severa dottrina morale pitagorica.
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di Filippo Giudice
I vasi canosini prendono il nome dalla località apula in cui vennero per la prima volta alla luce verso la metà dell’Ottocento. Essi rappresentano una peculiarità nell’ambito della ceramica prodotta in Puglia a partire dal IV sec. a.C. per la presenza di figure plastiche femminili, talora alate, applicate sul corpo di alcune forme vascolari, essenzialmente anfore e askòi.
Le figurine, realizzate secondo una tradizione plastica microasiatica o pur anche alessandrina, che consente d’inserire la produzione canosina nell’ambito della koinè ellenistica, indossano ampi chitoni con sbuffo alla vita e alzano entrambe le braccia in atteggiamento di dolore. Grossi mascheroni e protomi equine sono applicati sul corpo dei vasi. La loro deposizione come corredo di alcune tombe apule porta a escludere che essi servissero da cinerari e danno peso all’ipotesi del loro uso come suppellettile funeraria. È difficile dire se il luogo di produzione fosse proprio Canosa, anche se l’area di diffusione molto limitata induce a escludere ateliers fuori dell’area dauno-messapica. Recenti analisi chimiche sono volte a definire i pigmenti utilizzati nella decorazione degli elementi lineari e plastici. I vasi canosini possono essere datati tra la fine del IV e il II sec. a.C.
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di Laura Buccino
Si tratta di una classe di ceramica caratterizzata da una decorazione a rilievo, prodotta in Italia dal II sec. a.C. alla metà del I sec. a.C. a imitazione della ceramica megarese.
La produzione italo-megarese consiste prevalentemente in una forma a coppa emisferica (emitomos) con labbro distinto dal corpo e pareti molto sottili, che presenta diverse varianti, caratterizzata da un tipo di argilla di colore arancio e dall’assenza di vernice. Il bordo, la vasca e la base sono decorate con motivi geometrici e vegetali impressi tramite l’impiego di punzoni e matrici. Le coppe servivano per bere il vino o per libagioni di tipo cultuale e sepolcrale, come documentano i numerosi rinvenimenti in contesti tombali. Tra le forme meno diffuse sono attestati krateriskoi, lagynoi, skyphoi, olle globulari e brocche monoansate. Le firme conservate sulla parete di alcune coppe ci permettono di conoscere il nome di vasai attivi in Magna Grecia e nell’Italia centrale. Officine sono state localizzate in Etruria meridionale, in Umbria, nel Lazio, in Magna Grecia e in Sicilia. In particolare, il ritrovamento di matrici ha fatto ipotizzare l’esistenza di manifatture locali a Rimini, Arezzo, Cosa, Mevania, Otricoli, Roma, Tivoli, Monte Sannace, Metaponto, Taranto, Ordona e Morgantina. La produzione magno-greca è contrassegnata dal rivestimento con una vernice opaca grigia, che la distingue da quelle dell’Italia centrale solitamente prive di vernice. In Sicilia è documentata la circolazione in numerosi centri di coppe megaresi prevalentemente di fabbrica microasiatica, ma anche attica, peloponnesiaca, centro-italica e magno-greca/tarantina. Le forme e le soluzioni decorative della classe italo-megarese costituiscono un precedente importante per la produzione della ceramica sigillata di epoca romana.
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