MANICHEISMO
. È la religione fondata da Mānī (v. sotto), la quale tra la seconda metà del sec. III d. C. e il XIII si diffuse, nonostante le frequenti persecuzioni, fino alla Spagna e alla Cina, sì da meritare di essere annoverata tra le grandi religioni universali.
Tale sue diffusione è appunto causa che le fonti per lo studio del manicheismo siano per provenienza e per età diversissime: sì da presentare difficoltà numerose e gravi di carattere linguistico (si tratta di documenti in latino, greco, copto, siriaco, arabo, sogdiano, pehlevico, turco uigurico e cinese) e anche più ardue d'interpretazione e di ricostruzione storica; difficoltà che fanno del manicheismo un campo di ricerche tra i più appassionanti per il filologo, lo storico delle religioni, della cultura e (relativamente ai monumenti figurati) dell'arte.
Mānī. - Della vita di Mānī (nelle fonti greche e latine Μάνης, Manes, gen. Manetis, onde anche l'it. Manete, o Μανιχαῖος, Manichaeus) poco si sa di preciso. Le notizie che sembrano più sicure ci sono tramandate da storici musulmani e da accenni di carattere autobiografico nei testi copti. Di famiglia persiana e nobile, egli nacque nell'anno 215-16 presso Seleucia-Ctesifonte, nella Babilonia. Suo padre, Futtaq, sarebbe stato membro di una setta "battista", del tipo rappresentato dai mandei. A 12 o 13 anni, Mānī avrebbe già avuto una prima rivelazione, per mezzo di un angelo, o del Paracleto: non è improbabile che Mānī identificasse l'uno e l'altro con l'apostolo Tommaso. Sulle orme del quale - reali o leggendarie poco importa, di fronte al fatto che Mānī doveva conoscere già il racconto tradizionale - egli si recò per nave, verso la fine del 240, in India, stabilendovi delle comunità. Di lì (cioè, verosimilmente, dalle regioni della costa nord-occidentale, percorse dall'Indo) egli sarebbe ritornato dopo la morte del sasanide Ardashīr; accolto favorevolmente dal nuovo re, Sapore (Shāhpuhr) I, predicò, durante le feste per l'incoronazione di quel sovrano, il 20 marzo 242, acquistandosi la simpatia del fratello del re, il principe Pērōz. In seguito, viaggiò lungamente, certo percorrendo l'intero impero persiano; nulla di preciso si sa sul suo presunto esilio e su altri viaggi, che lo avrebbero condotto fino al Tibet e al Turkestān cinese. Secondo le stesse fonti arabe che ci parlano dell'esilio, egli sarebbe ritornato in patria sotto Ormāzd I (272-273); certo fu combattuto come eretico dai sacerdoti zoroastriani e suppliziato sotto Bahrām I (273-276); non si sa bene in quale anno.
A Mānī vengono attribuiti numerosi scritti, elencati in gruppi di 4, di 5 o di 7, talvolta con titoli differenti, che ne rendono difficile l'identificazione. Oltre numerose lettere, di cui - all'infuori dei frammenti citati in varie fonti - è stata ritrovata una raccolta in copto, essi sono: lo Shāpurakān, rivolto al re Sapore, unica opera in persiano, mentre vennero redatte in siriaco tutte le altre, cioè la Pragmateia (gr. Πραγματεία, in trascrizione araba Farakmatiyyah, da intendere nel senso di "trattato", onde il nome passò dal greco al siriaco come titolo e quasi nome proprio); il Libro dei misteri; il Libro dei giganti; il Tesoro della vita; L'evangelio vivente; I Capitoli (Κεϕάλαια) ritrovati in copto e che si presentano sotto un aspetto che ricorda i sutrā buddhistici ma anche scritti gnostici, e che si possono attribuire a Mānī press'a poco allo stesso titolo che il Libro delle leggi dei paesi a Bardesane (v.). Con la Pragmateia, P. Alfaric ha proposto d'identificare l'Epistula Fundamenti di cui Sant'Agostino cita brani e il prologo, imitazione delle lettere di San Paolo; nulla di preciso si sa intorno ai libri Dei precetti, Della direzione e della condotta, Della certezza e del fondamento, ricordati rispettivamente da Ibn an Nadīm, al-Ya‛qūbī e al-Bīrūnī; poiché nell'elenco contenuto nel c. 148 dei Kephálaia copti il nome Kephálaia è stato ristabilito in una lacuna, mentre in un'altra lista in luogo del Libro dei Giganti è menzionato un altro scritto (forse lo Shāpurakān), non è esclusa per ora l'identificazione proposta dallo stesso Alfaric del Libro dei Giganti appunto con i Kephálaia.
Da un passo nel prologo dello Shāpurakān riferito da al-Bīrūnī, appare che Mānī si presentava come l'ultimo e definitivo rivelatore della verità religiosa, dopo le predicazioni di Buddha per l'India, di Zarathustra per la Persia e di Gesù per l'Occidente. Questo carattere di limitatezza delle religioni che lo hanno preceduto è sottolineato in due capitoli dei Kephálaia copti, in cui Mānī dichiara che nella sua chiesa e nella sapienza da lui rivelata sono confluiti, come i corsi d'acqua in un gran fiume (o: come i fiumi nel mare), gli scritti sacri, la sapienza, le apocalissi, le parabole e i salmi di tutte le chiese precedenti. Mentre le chiese fondate dai suoi predecessori sono rimaste chiuse nelle parti del mondo in cui sono sorte originariamente, la sua è destinata a diffondersi così nell'Occidente come nell'Oriente: il suo messaggio verrà proclamato in tutte le lingue e in tutte le città. La diversità delle lingue spiega anche le differenze tra le rivelazioni d'un'unica potenza divina. Tale differenza ha la sua causa anche nel fatto che i predecessori di Mānī non sono gli autori dei loro libri sacri, talché la loro dottrina ha potuto facilmente essere alterata (infatti S. Agostino ci riferisce l'accusa rivolta dai manichei ai cristiani di avere introdotto interpolazioni nel Nuovo Testamento); Mānī invece ha in persona non solo redatto, ma illustrato con miniature i suoi, e, secondo una tradizione, inventato anche una nuova scrittura.
Queste dichiarazioni hanno importanza notevole. In primo luogo esse confermano ancora una volta, ma soprattutto spiegano, e la cura veramente straordinaria (testimoniata dalle fonti storiche e dai ritrovamenti) che i manichei hanno avuta per i loro libri sacri e le notizie forniteci da varie fonti, intorno all'abilità di Mānī come pittore. In secondo luogo, esse ci dànno la sicurezza che il lavorio di traduzione degli scritti di Mānī in varie lingue, e dunque anche l'attività missionaria, sono cominciati durante la vita stessa di lui e per suo impulso. E anche, si rende più comprensibile quella capacità di adattamento alle condizioni ambientali, di cui i manichei diedero prova e cui ricorsero largamente per sfuggire alle persecuzioni. Ma soprattutto, queste dichiarazioni programmatiche (storicamente inesatte, perché al tempo di Mānī il cristianesimo era già penetrato nell'impero persiano e forse anche nell'India nord-occidentale) ci rivelano lo spirito animatore della predicazione manichea, e ci avviano a comprenderne la genesi. Appare evidente, infatti, da esse, l'intenzione di compiere una sintesi, più che un "sincretismo", dei sistemi religiosi esistenti: fra i quali, o, meglio, tra le formulazioni di essi che gli erano note, Mānī dovette anche riscontrare delle somiglianze. Poiché appare molto probabile che del buddhismo, e anche dello zoroastrismo, Mānī non abbia subito l'influsso se non in maniera piuttosto vaga e superficiale: mentre assai viva era nel mondo ellenistico la curiosità intorno alla sapienza religiosa dell'India, dei suoi "gimnosofisti" e del Buddha, su cui si avevano nozioni generiche e in gran parte fantastiche. In ogni modo, Mānī dovette constatare che sia il cristianesimo (nelle formulazioni della gnosi, in particolare di Marcione e Bardesane) sia lo zoroastrismo davano del problema che più lo preoccupava (l'esistenza del male nel mondo) una spiegazione sostanzialmente identica, su basi dualistiche; che entrambe promettevano ugualmente una redenzione; che il buddhismo, infine, mirava anch'esso a sottrarre l'uomo e gli esseri viventi al dominio del dolore e del male, attraverso l'ascesi. La possibilità d'una conciliazione tra queste diverse forme religiose, che le abbracciasse tutte in una sintesi superiore, più completa, suscettibile d'essere accolta ovunque e capace di spiegare anche i fenomeni della natura, dovette attrarre Mānī e presentarsi a lui come un'esigenza anche più forte nel momento in cui l'avvento della dinastia sasanide poteva far credere alla prossima formazione d'un impero veramente universale. E se gli elementi per la sua sintesi gli dovevano essere forniti in prevalenza dalle dottrine gnostiche, in esse si mescolavano, ai semitici-cristiani, numerosi elementi d'origine ellenica e anche iranica. Per tal modo, possiamo arguire, Mānī si avviò alla formulazione d'un sistema, che risolvesse il problema del male, della sua origine e della redenzione da esso dell'uomo e del mondo: e si presentò come l'annunziatore della più alta e suprema verità religiosa, ultimo d'una serie di profeti e di figure divine, emanazioni della divinità, a ciascuna delle quali egli assegnava un posto nella sua elaborata cosmogonia ed escatologia.
La dottrina e l'organizzazione. - Allo stesso modo che nella gnosi, anche per il manicheismo la salvezza, la redenzione consistevano in primo luogo in una conoscenza: dei "Due principî" costitutivi dell'universo e dei "Tre momenti" di questa grandiosa economia della redenzione. I due principî, è noto, sono da Mānī denominati Luce e Tenebra; ma in Alessandro di Licopoli si trovano anche due termini più distintamente filosofici, cioè "dio" e "materia" (gr. ὕλη, termine certamente usato da Mānī). Soltanto che questa "materia" non è da lui intesa (avverte lo stesso Alessandro) nello stesso modo che Platone o Aristotele: per Mānī, la hyle è ἄτακτος κίνησις, movimento disordinato: il principio ideale e materiale, potremmo dire, di ogni disordine e pertanto di ogni male nell'universo, e, nell'uomo, di ogni passione e cupidigia.
In origine, Luce e Tenebra occupavano lo spazio, costituendo due "regni": quello della Luce si estendeva verso l'alto, quello della Tenebra verso il basso; erano contigui, separati da un "confine". Nel primo, era il "Re del paradiso della Luce" o "Padre della grandezza" con le sue 5 ipostasi; il regno della Tenebra aveva anch'esso il suo sovrano, con i suoi "arconti". Ma era soprattutto il regno del disordine e della confusione. Il primo atto del grande dramma cosmico si ha quando le potenze tenebrose, acquistata una vaga conoscenza del dominio della Luce, muovono all'assalto di esso. Poiché le 5 ipostasi del Padre della grandezza, create per la tranquillità e per la pace, non potevano combattere, il Padre decise di sostenere egli stesso la battaglia, attraverso una sua emanazione. Così egli "evocò" (Mānī evita ogni termine che alluda a una generazione o procreazione) la Madre della vita (o: dei viventi), la quale a sua volta evocò il Primo Uomo (che non va dunque confuso con Adamo: si tratta di una figura divina). Armato dei 5 elementi luminosi, etere, luce, vento (aria), acqua e fuoco, questi si avviò alla battaglia, ma cadde prigioniero delle potenze tenebrose, prigionia presentata come uno stratagemma. Ma non appena il Primo Uomo e i suoi cinque figli ebbero riacquistato l'intelligenza perduta, si rivolsero al Padre della grandezza. Questi evocò allora - e comincia così il secondo atto - lo Spirito Vivente, il Grande Architetto Ban e l'Amico delle Luci. Quest'ultimo iniziò la liberazione del Primo Uomo, portata a compimento dallo Spirito Vivente e dalla Madre della Vita. Ma restavano da ricuperare gli altri elementi luminosi. Di questa luce, una parte fu ricuperata dallo Spirito Vivente, che con essa fece il Sole, la Luna e gli astri: i suoi 5 figli uccisero gli arconti, con le cui spoglie la Madre della Vita e lo Spirito Vivente (Demiurgo) fecero dieci cieli e otto terre sovrapposte, come dischi messi l'uno sull'altro. I cinque figli dello Spirito Vivente assunsero allora ciascuno il proprio ufficio, di sorreggere (Atlante, 'Ωμοϕόρος) e di tener sospeso dall'alto (Splenditenens) il cosmo, di vigilare le tre ruote" del vento dell'acqua e del fuoco, di proteggere il cosmo dalle Tenebre nemiche, e di attrarre a sé la luce che il Sole e la Luna trasportano nel loro moto regolare. Poiché tutto questo, però, non bastava ancora, il Padre della grandezza inviò un altro suo Messaggero - il terzo, dopo il Primo Uomo e lo Spirito Vivente (o l'Amico delle Luci, v. sotto) - con l'incarico di sottrarre alla Tenebra gli altri elementi luminosi mescolati in essa. Il mito comprende anche lo scabroso racconto della "seduzione degli arconti" e quello della creazione dell'uomo. Le varie tradizioni presentano delle varianti, ma concordano nell'affermare che il microcosmo è stato creato dalle potenze tenebrose a perfetta imitazione del macrocosmo, e destinato, con la diśtinzione dei sessi e il meccanismo della procreazione, a mantenere la luce indefinitamente avvinta nella materia. Ma Gesù si presenta a Adamo, sveglia in lui la coscienza, sì che questi maledice il suo creatore, il Dio di quell'Antico Testamento che infatti i manichei respingono.
In alcuni testi, si nota una tendenza a identificare il Terzo Messaggero (che in altri è Mithra) appunto con Gesù. Ma è ormai chiaro che questi appartiene a una quarta evocazione, insieme con due altre figure, che ricorrono ugualmente nei testi orientali e in quelli copti: la Manuḥmēd dei primi non è più da intendere come l'anima (ψυχή: Reitzenstein) o la gnosi (Waldschmidt e Lenz), ma corrisponde alla figura dell'Intelletto (Νοῦς)-Luce dei Kephálaia copti (c. 7) dove troviamo la serie delle divinità manichee ordinata in cinque "generazioni" (oltre il Padre della grandezza), ciascuna di tre "emanazioni", una delle quali è "padre" della successiva. Notevole che la prima di esse comprenda la Madre della Vita, l'Amico delle Luci (invece dello Spirito Vivente) e il Terzo Messaggero. Ciò, come qualche altra particolarità, dipende dalla rigidezza dello schema, che riflette la simpatia del manicheismo per il numero 5, sicché si è dovuta includere una sola figura a rappresentare, per così dire, anche le sue altre ipostasi. Ma nelle generazioni che succedono a Gesù e all'Intelletto (Νοῦς)-Luce troviamo anche l'Apostolo della luce (cioè, Mānī, di cui così ci spieghiamo meglio il culto) e, nell'ultima, i 3 angeli, uno dei quali è la "figura luminosa che gli eletti e i catecumeni (v. sotto) rivestono quando rinunciano al mondo". Con Gesù, dunque, si passa dallo stadio cosmogonico a quello decisamente soteriologico: solo che, in quanto emanazione divina, Gesù non può, secondo il manicheismo, avere sofferto in un corpo. Di qui il docetismo, che Mānī ha ereditato dalla gnosi e del quale è manifestazione anche il favore dei manichei per gli apocrifi e gnostici Atti di Tommaso (l'apostolo, al quale Mānī attribuisce la sua vocazione). Come elemento luminoso, Gesù è poi il simbolo di tutta la luce che soffre nel mondo: il Jesus patibilis, di cui parla Sant'Agostino e che "pende da ogni ramo".
Il significato generale di questo "rivestimento mitologico" di una dottrina in complesso semplice, è dunque chiarissimo: nell'universo come nell'uomo lo spirito e il bene sono avvinti e compenetrati nella materia, e devono liberarsene. Tuttavia il mito manicheo ha non solo un valore filosofico-religioso, ma anche uno scientifico-pratico: i manichei si vantavano di poter spiegare, p. es., il movimento degli astri e le fasi della luna, e i loro libri contenevano nozioni di astrologia, pertanto anche di matematica e di altre scienze. Di tutti i fenomeni naturali essi credevano di poter dare una spiegazione puramente razionale e respingevano ogni insegnamento fondato sull'autorità, dichiarando di non esigere l'assenso di alcuno nisi prius discussa et enodata veritate (Aug., De util. cred., 1). Un capitolo dei Kephálaia ha appunto per titolo: "L'uomo non deve credere, se non veda la cosa con i proprî occhi": razionalismo che si ritrova nelle critiche dei manichei alla Bibbia, al Corano, ecc. Un aspetto anche più importante della loro religione è questo: la conoscenza del mito, che ridesta nell'uomo la parte superiore, il νοῦς ("ragione") e l'incita a liberare sé stessa e l'"anima" (ψυχή, principio vitale), induce altresì il manicheo a farsi come deve, strumento per la liberazione della luce ancora frammista alla materia.
Da qui traggono origine e l'etica manichea e la costituzione della chiesa. La prima trova la sua manifestazione nell'ascetismo e nella serie dei divieti, simbolizzati nei tre "sigilli" apposti alla bocca, alla mano e all'addome: onde il manicheo, p. es., eviterà la bestemmia e lo spergiuro, come anche i cibi animali, che sono morti, e perciò pura materia abbandonata dalla luce; si asterrà dal sopprimere la vita, ma anche dal propagarla con la procreazione; non aspirerà a possedere nulla nel mondo. Non compierà se non atti che siano rivolti verso la liberazione della luce. A tale scopo servono pure le funzioni della digestione. Perciò, essendo gli adepti divisi nelle due grandi categorie degli uditori e degli eletti (i veri manichei, soli tenuti a osservare rigidamente le pratiche ascetiche), i primi forniscono il cibo ai secondi. Questi formano il grado più basso della gerarchia, che ne comprende altri quattro, con nomi ("anziani" cioè presbiteri e "vescovi") in parte presi a prestito dal cristianesimo, fino al capo supremo (ἀρχηγός; nelle fonti arabe, imām) successore di Mānī. Il culto, celebrato in templi modesti, era semplice: comprendeva numerose e frequenti preghiere, inni, digiuni, feste come quella del Bema (Βῆμα, così detta dalla "cattedra" che veniva innalzata su 5 scalini) celebrata a commemorazione della morte di Mānī, e la confessione dei peccati.
La distinzione tra eletti e uditori risponde anche all'escatologia individuale: l'anima dei primi, dopo la morte, è destinata a ricongiungersi al mondo della Luce; quella dei secondi dovrà subire varie reincarnazioni, fino a che non avrà potuto liberarsi, animando un perfetto. I "peccatori" non manichei sono invece destinati alla perdizione eterna. Ma questa escatologia non è che un aspetto del grande processo di redenzione degli elementi luminosi, scopo di tutta la vita del cosmo. Allorché le ultime porzioni della luce saranno state liberate, si avrà la catastrofe finale, il terzo atto: dopo una conflagrazione che durerà 1468 anni, tutta la materia tenebrosa, formante un'unica massa indistinta (βῶλος, globus) sarà definitivamente separata dalla luce e chiusa per l'eternità nell'abisso.
Diffusione e storia. - Mānī stesso, come si è detto, organizzò le prime missioni. E la propaganda del manicheismo fu estremamente rapida. In Egitto, esso trovava già nel sec. III un confutatore in Alessandro di Licopoli (prossima all'odierna Asyūṭ donde provengono i testi copti) e dove ebbe invece un seguace in quello Ieraca di Leontopoli che Sant'Epifanio (Pan., haer. 67) ricorda come asceta cristiano ed eretico, seguito nell'errore (condanna delle nozze, negazione della resurrezione dei corpi, ecc.) da molti monaci, e che oggi è ritenuto l'organizzatore di una delle prime comunità cenobitiche. Alla fine del sec. III, il manicheismo era penetrato nell'Africa, donde il proconsole Giuliano si rivolgeva a Diocleziano, provocando nel 296 il primo editto di persecuzione; nel 311, papa Milziade scopre gruppi manichei in Roma; prima della fine del sec. IV, vi sono in Gallia e nella Spagna, come in altre parti dell'impero, dei manichei o simpatizzanti del manicheismo che cercano di passare per cristiani, per sottrarsi alla severa repressione delle leggi di Costantino, di Valentiniano I (372), di Teodosio (381, 382, 383). Il manicheismo è, nell'impero cristiano, considerato generalmente come un'eresia: sospettati di manicheismo - e probabilmente più o meno intinti di esso - sono varî gruppi ascetici, specie quelli che condannano recisamente il matrimonio, come incompatibile con la morale cristiana. Ma il manicheismo ha certo avuto dei seguaci (che si saranno fatti passare per aderenti a una setta filosofica) anche tra pagani, se proprio nel 384 Agostino poté essere raccomandato da amici manichei a Simmaco allora praefectus urbi. Ma la politica di repressione ottenne l'effetto desiderato, e verso il sec. VI il manicheismo in Occidente appare già in diminuzione. Nelle parti orientali dell'impero esso durò più a lungo: Giustiniano specialmente lo combatté con vigore, comminando la pena di morte, non solo (come Teodosio) agli eletti, ma a tutti i detentori di libri manichei, e imponendo ai convertiti la recitazione d'una formula di abiura. Tuttavia esso non finì subito: la polemica antimanichea dei teologi bizantini continuò e già nel sec. IX dottrine manichee vengono professate dai pauliciani, da cui sembra passassero ai bogomili e quindi a catari, albigesi, ecc., in Italia e in Francia.
Fuori dell'impero romano, i manichei vennero pure perseguitati in Persia. Sisinnio, il successore di Mānī, fu mandato a morte sotto Bahrām II (276-293), il suo successore Innaios trovò invece un protettore, al tempo del re Narsete (293-302), nel piccolo re di Hira sull'Eufrate, ‛Amr ibn ‛Adī. Ma ben presto anche in Persia il manicheismo, proscritto benché facesse sentire il suo influsso anche su altri riformatori quali Battai e Mazdak, fu ridotto a presso che nulla. I manichei si rifugiarono più a oriente, verso il Khorāsān: pare che appunto in questa regione sorgesse uno scisma, per opera di zelanti osservatori della dottrina, che rifiutarono di sottostare all'autorità del capo supremo della religione, residente allora in Babilonia. In ogni modo, una reviviscenza manichea si ebbe in Persia al cadere della potenza sasanide. Sotto il dominio degli Omayyadi essi non furono disturbati: pare anzi che uno dei califfi, Walīd II (743-44) avesse qualche inclinazione per le dottrine dualistiche. Le quali si mantennero e fecero sentire il loro influsso abbastanza a lungo su varie sette (cfr. M. Guidi, in Riv. d. st. orient., 1932, pp. 298 segg. e 426 seg.); conquistarono difensori e propagandisti, personalità cospicue, quali lo scrittore e traduttore Ibn al-Muqaffa‛; e fu precisamente per combattere l'eresia dei "due principî" che l'apologetica e la dogmatica dell'Islām foggiarono i loro strumenti. Il nome zindīq, che designò in origine appunto i manichei, ha assunto nel mondo islamico il senso generale di "eretico". Ma precisamente perché la diffusione delle dottrine manichee rappresentò per l'Islām un grave pericolo, i provvedimenti presi furono molto severi: al tempo in cui veniva redatto il Fihrist (circa 988) non v'erano a Baghdād, a suo dire, più di 5 manichei.
Essi erano invece ancora numerosi a Samarcanda, ove si trasportò, da Babilonia, il capo della religione. Qui erano già stabiliti i Turchi occidentali, tra i quali il manicheismo fece dei proseliti, iniziando poi, circa il tempo in cui la caduta dei Sasanidi gli prometteva nuove fortune in Persia, un'altra fase della sua diffusione. La prima notizia relativa al manicheismo in Cina si riferisce al 694; ma la vera penetrazione ebbe inizio solo più tardi. Nel 719 il viceré del Tokharistān inviò alla corte cinese un missionario manicheo, al quale si deve con ogni probabilità l'introduzione in Cina della settimana planetaria. Nel 752 era emanato un editto che, pur riprovando in principio la nuova religione, le concedeva la tolleranza. E dalla Cina, il manicheismo ritornò verso l'Asia centrale, quando il qaghan turco (uiguro) di Orkhon (Manciuria settentrionale), avendo conquistato la città di Loyang (sul Hoang-ho), centro del manicheismo cinese, si convertì a sua volta e fece convertire il suo popolo. Monumento dell'accettazione del manicheismo da parte dell'allora potente regno uigurico è l'iscrizione trilingue (cinese, turco uigurico e sogdiano) di Karabalgassun. Allorché nell'840 l'impero uigurico fu sopraffatto dai Kirghisi, due dei piccoli regni che si formarono sulle sue rovine, nelle odierne provincie cinesi del Kan-su e dello Shan-si, e l'altro più importante nel Kao-tch'ang, a est di Turfān, rimasero fedeli alla loro religione, che, tollerata fino allora perché protetta dagli Uiguri, cominciò a essere perseguitata in Cina, fin dall'842. Tuttavia, mentre del manicheismo uigurico e in genere turchestanico, combattuto sulle sue diverse frontiere dall'Islām e dal buddhismo, non abbiamo più notizie dopo il sec. XIII, in Cina esso resistette a lungo: si registra al principio del sec. XI un tentativo di far includere scritti manichei nel canone taoistico e almeno una setta manichea (la "religione del Venerabile della Luce") è tra le vietate in documenti del 1370 e del 1374, quando le ultime tracce delle eresie dualistiche erano state distrutte in Occidente.
Fonti principali: In latino, in greco e in siriaco (talvolta si possiede non l'originale ma una versione): la confutazione del manicheismo del filosofo neoplatonico Alessandro di Licopoli (ed. Brinkmann, Lipsia 1895); i romanzeschi Acta Archelai cum Manete (ed. Beeson, Lipsia-Berlino 1906); la confutazione di Serapione di Thmuis (in Patr. Gr., XL), usata anche da Tito di Bostra (ed. P. de Lagarde, Berlino 1859); Sant'Epifanio (Pan., haer. 66); lo scritto antimanicheo di Mario Vittorino (in Patr. Lat., VIII), di Sant'Agostino (v.) e di Evodio di Uzali; le formule greche di abiura (in Patr. Gr., I); le Confutazioni di Sant'Efrem, la 183ª omelia di Severo d'Antiochia e gli Scolî di Teodoro bar Khōnāi, che ci ha conservato frammenti di Mānī nell'originale siriaco (per le ultime tre, v. sotto: Bibliografia).
Tra le fonti arabe vanno ricordati: il Fihrist (v.) di Ibn an-Nadīm; l'opera eresiologica di ash-Shahrastānī; la Cronologia e la Storia dell'India di al-Bīrūnī. Le fonti persiane sono lo S̄kand Vimānīk Vičar (o Shikand-Gumānīg Vizhar "Spiegazione che scaccia il dubbio") redatto in pehlevico da Martān-farūkh (sec. IX) a noi giunto in trad. pāzand (sec. XII) (trad. in The Sacred Books of the East, XXIV); le Ingiunzioni di Mānī, confutate dal sommo sacerdote zoroastriano Ātūrpāt (sec. IV) nel Dēnkart (di entrambe, trad. ingl. di A. V. W. Jackson; v. sotto: Bibl.).
Una serie di esplorazioni a opera di missioni russe (1893-95, 1898, 1902), tedesche (1902-03, 1904-05, 1905-07), inglesi (1907), francesi (1908) e giapponesi (1908) nel Turkestan orientale hanno condotto alla scoperta di numerosi frammenti di vario genere e di due opere complete, o quasi: un formulario di confessione dei peccati (Khuastuanift) e un Trattato, in forma di sutrā buddhistico, tradotto in cinese. Per le principali ediz. di questi testi, come per i testi copti ritrovati nel 1930, v. sotto: Bibl.
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