MANI (Manes)
Con questa denominazione i Romani antichi designavano le anime dei defunti alberganti nell'oltretomba e che di là risalivano, di quando in quando, a vagare tra i vivi sulla superficie della terra. Il nome Manes si trova adoperato ordinariamente come maschile plurale, col significato (probabile) di "i buoni, gl'illustri"; e, se in tempi più tardi si trova frequentemente usata l'espressione di parentes et Manes, è certo però che, in origine, i Mani rimasero distinti dai di parentes, nel concetto dei quali era contenuta l'allusione all'immediata relazione fra i trapassati e i viventi della stessa stirpe; mentre l'idea di Manes abbracciava tutti indistintamente i defunti. In progresso di tempo questa distinzione scomparve e, obliteratosi poi del tutto il culto dei di parentes, i Mani subentrarono a essi: frequente ricorre allora, nelle epigrafi funerarie, la formula dis manibus illius. Allo stadio più antico del concetto e del culto dei Mani si ricollega il culto antichissimo della dea Mania, venerata nelle Compitalia insieme ai Lari e, nella mitologia, designata come madre dei Mani. Originariamente dunque i Mani sono affini alle divinità infernali, con le quali appaiono congiunti anche nelle formule delle devotiones. Nuove trasformazioni subì il concetto di Mani sotto l'influsso della letteratura ellenistica, che prestò a essi alcuni di quegli elementi che erano, presso i Greci, proprî della nozione del demone o dell'eroe: tale modificazione è da ritenersi però posteriore ai tempi di Lucrezio e di Cicerone. Coi poeti e con gli storici dell'età d'Augusto, specie con Virgilio, si delinea la definitiva figura dei Mani, riguardati come le anime placate degli antenati, trasformate ormai in divinità di carattere quasi personale. La pratica dell'apoteosi, cominciata dopo Cesare e Augusto, favorì l'identificazione dei Mani con gli eroi: identificazione che, se divenne familiare alle scuole filosofiche, rimase sempre piuttosto estranea alle masse popolari. (Per il culto dei Mani, come parte del culto dei morti, v. morte).
Bibl.: G. F. Schömann, De diis Manibus, Laribus et Geniis, Greifswald 1840; K. Schwarlose, De dis Manibus, Halle 1913, p. 21; G. Wissowa, Religion und Kultus der Römer, 2ª ed., Monaco 1912, p. 238 segg.; J.-A. Hild, in Daremberg e Saglio, Dictionnaire des antiquités, III, p. 1571 segg.; H. Steuding, in Roscher, Lexikon der griech. und röm. Mythologie, II, col. 2316 segg.; Marbach, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., XIV, col. 1050 segg.