MANFRONE, Giampaolo, detto Fortebraccio
Figlio di Manfrone - nei documenti veneti citato quasi sempre con il cognome di Manfron - e di Giacoma Malatesta, nacque intorno al 1441 probabilmente a Schio, dove i Manfrone, forse di origine romagnola, avevano alcuni possedimenti ottenuti in dono dalla Serenissima, insieme con la cittadinanza vicentina e una provvisione annua di 2800 ducati. Il nome del M. figura tra i condottieri più noti al servizio di Venezia, nell'arco di tempo (1494-1527) contrassegnato dalle guerre tra Francia e Spagna per l'egemonia in Italia.
Della giovinezza non si hanno notizie certe: era il maggiore di tre fratelli (gli altri erano Girolamo e Alessandro), tutti avviati alla carriera militare. Il suo apprendistato di uomo d'arme fu compiuto probabilmente nella compagnia di Iacopo Piccinino e successivamente in quella di Carlo e Bernardino Fortebracci da Montone, ai quali rimarrà molto legato, tanto da assumere l'appellativo di Fortebraccio e da dichiararsi più volte e con orgoglio "bono bracescho" (Sanuto, I, col. 801). Militò sotto le insegne della Serenissima nella campagna contro i Turchi, penetrati nel Friuli negli anni Ottanta del XV secolo, per poi passare per un periodo non lungo al servizio di Ferdinando I e Alfonso II d'Aragona, da cui ebbe in feudo il castello di Petina nel Cilento.
Con la discesa in Italia del re di Francia Carlo VIII all'inizio del 1494, il M. tornò al servizio della Serenissima, che gli affidò subito una condotta di 200 cavalli. Le prime notizie di un suo impiego sul campo risalgono, però, all'aprile del 1496 quando fu inviato con 250 cavalli in soccorso dei Pisani, alleati di Venezia, impegnati contro i Fiorentini. In questo frangente, insieme con il condottiero cremasco Socino Benzone e con Giovanni da Ravenna, si distinse sia a Vico Pisano (16 maggio 1496), sia nell'assedio al castello di Ponte di Sacco, dove fu ferito in battaglia e si attirò dal nemico una taglia di 200 ducati. Terminato l'impegno contro i Fiorentini, tra il novembre del 1498 e il luglio del 1499 fu inviato in Romagna con una nuova condotta di 400 cavalli, segnalandosi in varie azioni tanto da essere nominato capo delle fanterie.
In conseguenza del trattato di Blois tra il re di Francia Luigi XII e Venezia per la spartizione del Ducato di Milano, reso noto il 15 apr. 1499, il M. partecipò con il grosso dell'esercito veneziano alla conquista di Cremona, per essere poi inviato in Friuli per progettare nuove fortificazioni contro i Turchi. In questa occasione, il 18 luglio 1500, perdette un figlio, probabilmente il primogenito, ucciso da "alcuni villani".
Tra il giugno del 1502 e lo scadere del 1509 il M. fu utilizzato dalla Repubblica di Venezia nel contesto della sua politica estera diretta a estendere il dominio in Romagna. Nel novembre 1503 partecipò alla presa di Faenza e nell'ottobre del 1504 gli fu affidata la difesa di Rimini, sebbene si registrassero molte lamentele per i danni causati dalla sua compagnia. Richiamato nel Vicentino dal provveditore Giorgio Emo per controllare i movimenti dell'esercito imperiale sceso in Italia nei primi mesi del 1508, nell'ottobre dello stesso anno fu inviato nuovamente a Faenza, dove con il provveditore Pietro Lando organizzò la difesa della Romagna nel contesto delle operazioni legate al trattato di Cambrai e alla grande Lega antiveneziana. Il 2 maggio 1509, però, venne catturato da Giovanni Sassatelli mentre tentava di liberare il castello di Brisighella, assediato dall'esercito pontificio.
Per tutto il periodo legato alle operazioni militari conseguenti alla Lega di Cambrai (1509-10) Venezia non solo perdette i suoi domini in Romagna, ma anche il M., prigioniero prima del papa Giulio II e in seguito dell'imperatore Massimiliano I e dei Francesi fino al 6 giugno 1510, quando fu liberato grazie soprattutto all'intervento del figlio Giulio, nato tra il 1490 e il 1492, e anch'egli avviato alla carriera delle armi.
Alla notizia della sua liberazione definitiva, visti il valore e la fedeltà testimoniata dalla scelta di subire la confisca del castello di Petina pur di rimanere al servizio della Serenissima, gli venne affidata una nuova condotta di 150 uomini e fu fatto anche il suo nome per la candidatura a comandante del campo veneziano rimasto sguarnito dopo la morte di Niccolò Orsini, conte di Pitigliano, e la cattura di Bartolomeo d'Alviano. La scelta, però, dopo lunghe discussioni, cadde su Lucio Malvezzi con una decisione non pienamente condivisa dal M., che con lui avrebbe avuto spesso motivi di dissenso.
Intanto, nel febbraio 1510, il papa si riavvicinava a Venezia rovesciando l'alleanza con la Francia, contro cui nell'ottobre del 1511 strinse con gli Spagnoli e i Veneziani la Lega santa.
Il M., dopo una lunga malattia, che lo aveva costretto a rimanere a Padova con il figlio, il 7 maggio 1511 si scontrò a Massa Finalese con l'esercito francese guidato da Gaston de Foix, ma venne nuovamente catturato.
La nuova prigionia fu fortunatamente più breve della prima, dal momento che venne liberato già nell'agosto, ma in Collegio cominciava ad alzarsi qualche voce contraria all'impegno di uomini e denari per la sua liberazione, specialmente in riferimento alla sua non più giovane età.
Dopo l'elezione, nel settembre del 1511, di Bernardino Fortebracci a vicegovernatore dell'esercito veneziano, il M. fu con lui al comando della "cavalcata" incaricata di distruggere un ponte nei pressi di Bassano e di bloccare le artiglierie dei Francesi, mentre nel gennaio dell'anno successivo, insieme con il figlio, si riunì all'esercito veneziano, guidato da Andrea Gritti, per dare l'assalto a Brescia, dove i Veneziani entrarono trionfalmente il 9 febbr. 1512. La città, però, fu riconquistata pochi giorni dopo dall'esercito francese condotto da Gaston de Foix, che il 22 febbraio la sottopose a un terribile sacco durante il quale molti condottieri vennero catturati: Gritti e il M. furono portati a Milano, mentre Giulio Manfrone fu liberato e tornò a Venezia.
La riconquista francese di Brescia fu un episodio che colpì molto i contemporanei; e dalle fonti emerge chiaramente, oltre alla violenza dello scontro, l'importante ruolo avuto dal M., cui Gritti, saputo dell'arrivo del Foix, "commise [(], come a più vecchio soldato e di maggiore autorità, che con breve parlare dovesse por animo ai soldati" (Da Porto, p. 288).
Da Milano, il M. venne trasferito, insieme con Gritti, in Francia, dove rimase fino all'aprile 1513, quando fu liberato nuovamente grazie agli interventi del figlio e della moglie Angela Mele. Tornato a Venezia, gli venne concessa una nuova condotta di 150 uomini, ma per la carenza di denaro della Serenissima, e nonostante i suoi ripetuti tentativi, fu costretto ad attendere in città fino al 24 maggio, quando ottenne la nomina a governatore di Vicenza, minacciata dalle truppe imperiali.
Pochi giorni prima, infatti, era stato reso pubblico il nuovo trattato di Blois che univa Venezia e la Francia in una lega per spartirsi il Ducato di Milano. Malgrado l'apporto delle genti del contado chiamate alle armi dallo stesso M., la città era comunque difficilmente difendibile e Bartolomeo d'Alviano, capitano generale dell'esercito veneziano, decise quindi di concentrare gran parte delle forze nella difesa di Padova. A Vicenza rimasero solo il M. e il podestà Niccolò Pasqualigo; dopo un'accesa resistenza, i due dovettero comunque abbandonare la città il 6 luglio 1513. Vi sarebbero rientrati solo due mesi più tardi, quando gli Spagnoli la abbandonarono semidistrutta.
Per la Serenissima la situazione si faceva, intanto, sempre più difficile, perché gli alleati francesi furono battuti dagli Svizzeri a Novara, mentre le truppe imperiali arrivarono a minacciare la laguna e l'esercito veneziano, guidato da Bartolomeo d'Alviano, venne sconfitto nell'ottobre 1513 alla Motta, tra Padova e Vicenza; qui Giulio Manfrone, che partecipò alla battaglia insieme con il padre, venne catturato dagli Imperiali, che lo tennero prigioniero per circa un mese.
Il M., nel frattempo, fu inviato a Treviso come governatore, ma il 22 giugno 1514, nel tentativo di recuperare il castello di Marano, venne sconfitto da Cristoforo Frangipane, probabilmente per la discordia tra lui e gli altri comandanti, Giovanni Vituri e Girolamo Savorgnan.
Alla sconfitta, che scosse profondamente il M. e di cui egli si sarebbe scusato con la Serenissima ancora per mesi, si aggiunse poi un altro episodio che minò ulteriormente il suo prestigio: il 23 marzo 1515 il figlio Giulio fu costretto a rifugiarsi a Mantova dopo essere stato condannato alla pena capitale per le violenze inflitte da lui e da alcuni uomini della sua compagnia a una giovane di Oderzo e riuscì a salvarsi solo grazie alla mediazione di Lorenzo Orsini da Ceri.
Il re di Francia Francesco I, intanto, valicava le Alpi e insieme con l'esercito veneziano, guidato da Bartolomeo d'Alviano, il 13 sett. 1515 vinceva gli Svizzeri a Marignano e conquistava la Lombardia. Il 14 novembre, però, l'esercito veneziano fu sconfitto presso Verona: alla battaglia parteciparono anche il M. e il figlio Giulio, che si meritò le lodi maggiori, rischiando più volte la vita e finendo catturato dalle truppe di Prospero Colonna. Questa nuova prigionia si rivelò molto lunga e fu il M. questa volta a intercedere presso la Serenissima per ottenerne la liberazione.
Nei mesi intercorsi tra il concordato di Bologna (dicembre 1515) e la pace di Noyon (agosto 1516), Venezia visse, insieme con l'Italia, un periodo di relativa tranquillità, e in Collegio più volte fu messo in discussione l'operato del M., che non aveva brillato nelle ultime esperienze militari e che a circa 75 anni era tra i più anziani uomini d'arme in circolazione. D'altra parte, per il M. la liberazione del figlio, che nel frattempo era stato portato in Germania, rappresentava la questione prioritaria, e al riguardo intervenne più volte in Collegio.
Nel maggio del 1517, nonostante le polemiche e il giudizio non sempre positivo sul suo conto, gli fu affidata dal Senato una compagnia ridotta nel numero di uomini e nella paga. Il 21 dic. 1518, dopo tre anni di prigionia, Giulio Manfrone venne liberato e tornò finalmente a Venezia. Nei due anni successivi, non essendo la Serenissima impegnata in particolari azioni militari, il M. e suo figlio vennero più volte inviati a Crema per mantenere sotto controllo la situazione lungo il confine con il Ducato di Milano.
Nel 1521, però, ripresa la guerra tra Francia e Spagna, Venezia, fedele al trattato di Blois, scese in campo contro le truppe ispano-pontificie. Il M., sempre più criticato dagli altri condottieri, ebbe l'incarico di controllare Lodi, mentre il grosso dell'esercito, guidato da Gritti, si spostò a difendere inutilmente Milano, subito caduta nelle mani di Prospero Colonna. Il M. fu costretto a rifugiarsi a Crema, da dove scrisse numerose lettere alla Serenissima e anche al comandante nemico, preoccupato ancora una volta per la sorte del figlio, di cui non aveva più notizie e che era invece riuscito a mettersi in salvo vicino Cremona.
Dopo questa disfatta, Venezia cominciò a disimpegnarsi dal conflitto fino a rompere effettivamente il trattato di Blois, alleandosi con l'imperatore Carlo V nel luglio 1523 per aiutarlo a mantenere lo status quo acquisito nel Milanese. Proprio dal campo veneziano a Martinengo, l'11 genn. 1524, il M. inviò una lettera al Collegio spiegando "come l'era vechio et pregava la Signoria volesse la soa compagnia darla a suo fiol, et darli qualche provision per la persona sua in segno de la fede ha sempre portato a questo stato" (Sanuto, XXXV, col. 330). Il M. rinunciò al mestiere delle armi e tornò a Venezia, che accolse le sue richieste e gli concesse una pensione annua di 200 ducati.
Nel maggio del 1526, però, Venezia scese in campo con la Lega di Cognac contro le città tenute dagli Imperiali, e Giulio Manfrone, il 15 agosto, venne ucciso da un'archibugiata, mentre era al comando delle operazioni per l'assedio di Cremona insieme con Malatesta Baglioni. La morte del figlio fu un duro colpo per il M., che chiese alla Serenissima di poter riprendere le armi per "far vendeta di la morte di so fiol" (ibid., XLII, col. 416). La proposta venne accettata e il M., a circa 85 anni, tornò a combattere con una condotta di 100 uomini, finché il 3 ott. 1527, all'assedio di Pavia, "per haver troppo coraggio [(] et passato sopra la testa stanca de uno arcobuso, et morì subito" (ibid., XLVI, col. 165).
Il M. venne sepolto al Santo di Padova, presso l'ingresso al presbiterio, ricordato da una lapide, oggi scomparsa. Il figlio, invece, è ritratto nelle vesti di s. Giorgio in una pala realizzata da Paris Bordon, commissionata in suo onore probabilmente proprio dal M. (Cosma, p. 47), per la chiesa di S. Agostino a Crema, oggi nella galleria Tadini di Lovere. Con la sua morte, la condotta del M. e quella del figlio passarono a Pietro Paolo Manfrone, già loro luogotenente, finché i figli di Giulio non avessero avuto l'età adatta per gestirla.
Il M. fu anche il principale artefice delle fortune economiche della famiglia: attraverso numerose operazioni finanziarie, tra il 1520 e il 1525 acquistò possedimenti a Vicenza, Padova, Schio, Rovigo, Verona; inoltre creò una rete di legami e parentele con importanti e facoltose famiglie. Sposato almeno dal 1497 con una nobildonna napoletana, Angela Mele, ebbe con lei quattro figli, dei quali Lucrezia andò in sposa al conte Brunoro Porto, mentre Giulio contrasse matrimonio con Beatrice Roverella. Dei figli di Giulio, inoltre, Giampaolo sposò Lucrezia Gonzaga e Angela si unì in seconde nozze con Rinaldo Comini, legato strettamente a Ercole II d'Este. L'altra figlia del M., Domicilla, fondò a Vicenza i monasteri di S. Maria Nuova e del Corpus Domini.
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