CORTENUOVA, Manfredo di
Figlio di Egidio, nacque sul finire del sec. XII da ricca ed influente famiglia comitale lombarda, che traeva il proprio cognome dall'omonima località del Bergamasco sita fra Martinengo e Romano di Lombardia, centro dei possessi fondiari del gruppo parentale. Occorre tuttavia distinguere il C. da un suo omonimo, figlio del conte Alberto, testimoniato in documenti di poco posteriori al 1237, in seguito inseriti negli Statuti di Bergamo. Questi due ultimi rappresentanti del gruppo comitale non sono altrimenti noti alle fonti a noi pervenute.
Secondo l'Odazio e il Belotti, i conti di Cortenuova erano strettamente imparentati con le famiglie dei conti di Martinengo, di Calepio e di Mezate. Il Simeoni afferma, senza però citare le sue fonti, che padre del C. era il conte Zilio (o Egidio) da Cortenuova, noto per essere stato console maggiore di Bergamo nel 1181 e nel 1195, e podestà di Verona nel 1199 e nel 1202. Inoltre nel 1212 Egidio ricoprì l'importantissima carica di vicario della Lombardia per conto dell'imperatore Ottone di Brunswich; in un documento del settembre del medesimo anno, rogato a Cortenuova, sub porticu cammate comitis Egidii, si afferma in modo esplicito che Manfredo era figlio del conte Egidio, in quel momento vicario imperiale di Lombardia. Il C. assisteva ad una significativa decisione politica del padre, tesa ad affermare - con la complicità dei Milanesi - la giurisdizione di Vercelli sugli uomini di Casale Sant'Evasio. Si imponeva infatti ai Casalesi di scavare un fossato, tra il Po ed il Sesia, al fine di difendere in modo più efficace i possessi del Comune vercellese sul confine meridionale del distretto. Non sappiamo, invece se il C. sia stato colpito, nel maggio 1213, dalla sentenza di bando, pronunciata dal vescovo di Trento, a nome del giovane Federico II, contro il padre, Egidio, e contro Narisio di Montichiari e Alberto di Casaloldo, i maggiori fautori lombardi di Ottone IV. Padre e figlio ebbero inoltre cordiali rapporti con il gruppo politico veronese dei Montecchi, anch'essi partigiani di Ottone IV: tali legami possono in parte spiegare la ripetuta presenza politica dei due conti alla guida del potente Comune veneto.
Nel 1227 il C. venne nominato podestà di Verona succedendo, il 5 di giugno, ad Ezzelino da Romano. Sia perché apparteneva ad una famiglia che vent'anni prima era stata molto vicina ai Montecchi, sia perché godeva della fiducia dei rettori della lega lombarda, il conte bergamasco doveva essere gradito ai due partiti maggiori che si contendevano il potere all'interno della città: quello guelfo, capeggiato da Rizzarcio di San Bonifacio, e quello ghibellino, che aveva i suoi esponenti in Ezzelino da Romano e nella famiglia dei Montecchi. Doveva essere certamente bene accetto anche alla fazione politico-militare detta "della Comunanza", formata da uomini nuovi, non compromessi con i gruppi di potere guelfi e ghibellini, né coinvolti in precedenti responsabilità di governo. Il favore, da cui era circondato il nuovo podestà, è testimoniato dal fatto che il C., grazie anche all'intervento dei rettori della lega lombarda, riuscì, appena tre giorni dopo aver assunto la carica, a pacificare con l'accordo di Nogara le fazioni cittadine. I patti della conciliazione richiedevano, fra l'altro, il perdono reciproco e la reciproca composizione dei danni subiti dall'una e dall'altra parte nel corso delle contese intestine. Secondo il Maffei, durante la podesteria del C. venne anche compiuta una revisione degli statuti veronesi: allo stato attuale delle nostre conoscenze, è tuttavia difficile poter ora definire e valutare la parte che il conte bergamasco ebbe in questo lavoro.
Dopo gli ultimi di maggio del 1228, allorché ebbe terminato il suo incarico a Verona, le fonti a noi note non riportano più alcuna notizia sul C. sino al 1234, quando fu chiamato come podestà a reggere il governo di Milano. Dovette giungere nel centro lombardo tra l'aprile e il maggio, succedendo ad Oldrado da Tresseno, perché questi risulta ancora in carica il 27 marzo 1234. Nei mesi che seguirono il C. ed i rappresentanti della lega lombarda non esitarono ad accettare l'offerta di alleanza avanzata da Enrico, re dei Romani, allora in aperta rivolta contro il padre, l'imperatore Federico II. Il 17 dicembre, nel palazzo del Comune, insieme con gli ambasciatori di Brescia, di Novara e di Lodi, il C. si incontrò con gli inviati del giovane sovrano tedesco, il maresciallo di corte Anselmo di Instingen e Walter di Thaunberg, per discutere i termini dell'accordo. A conclusione della trattativa, il C., Uberto di Manate ed il giudice Madelbergo giurarono, a nome di Milano, un trattato, con il quale la città lombarda si riconosceva "fedele" del re dei Romani; si impegnava a non partecipare ad alleanze o a leghe che fossero a lui ostili; prometteva di fornirgli aiuti militari, ma solo nell'ambito della regione lombarda. Il documento precisava che il giuramento di fedeltà ad Enrico non avrebbe comportato né il pagamento di un tributo, né la consegna di ostaggi. A nome di Milano, inoltre, il C. per il tramite di suoi ambasciatori chiese ad Enrico di impegnarsi a difendere con le armi la stessa Milano, e le città di Brescia, Novara, Lodi, ed il Monferrato, e di attaccare Cremona e Pavia. Mentre con rapida e decisa azione Federico II soffocava la rivolta in Germania ed eliminava dalla scena politica il figlio, relegandolo in Puglia (aprile-luglio 1235), in Italia settentrionale il Comune di Bergamo abbandonava la lega e passava alla parte imperiale, trascinando con sé il territorio rurale, nel cui ambito si trovavano anche il borgo ed il castello di Cortenuova: la sede della casata, il centro ed i possessi fondiari, presupposto della potenza politica del C. e della sua famiglia, furono in tal modo tagliati fuori dall'area politica milanese. Le altre città lombarde risposero a tale atto rinnovando i patti di alleanza con Brescia ed inviando in quest'ultima, come podestà, lo stesso C. agli inizi del 1236. Da Brescia, dove intanto andava preparando la sua rivincita, il C. vide il vescovo di Como organizzare, in seguito a precise disposizioni dell'imperatore, una Dieta italiana a Piacenza, ed assistette impotente al capovolgimento degli equilibri politici che, quasi dieci anni prima, aveva contribuito a creare nella vicina Verona. Passata quest'ultima al fianco di Federico II, e ricongiuntesi le forze imperiali con quelle di Ezzelino da Romano, le truppe milanesi e bresciane, forse capitanate dal C., furono impegnate in una serie di azioni militari nei territori di dominio bresciano, che erano stati attaccati o invasi dal nemico.
Scaduto dal suo incarico di podestà di Brescia, il C. dovette fare ritorno ai suoi possedimenti: il 12 febbr. 1237, d'accordo con i conti Egidio (II) e Guifredo, suoi consanguinei, riuscì infatti a staccare dalla soggezione al Comune di Bergamo i castelli di Cortenuova, di Palosco e di Mura, ed i loro territori, passando con essi alla parte di Milano e della lega. Era un successo non indifferente per quest'ultima, data l'importanza strategica di quelle località. Bergamo reagì violentemente, dichiarando il C. ed i suoi consanguinei ribelli e proclamandoli pertanto deposti dal rango e dalle funzioni comitali. Su ciascuno di loro venne posta una taglia di 100 lire, da pagarsi a chi li avesse consegnati vivi o morti, alle autorità municipali. Fu, inoltre, fatto drastico divieto ai Bergamaschi di parlare, aver contatti, avviare e concludere accordi col C. e con gli altri ribelli; si proibì infine di recarsi per qualsiasi ragione a Cortenuova. E fu proprio nelle vicinanze di questo borgo, che, rientrato Federico II in Italia, il 27 nov. 1237 venne combattuta la celebre battaglia fra gli eserciti imperiali e quelli della lega, che si concluse con la rotta dei Milanesi e dei loro alleati. Agli inizi di dicembre anche il castello di Cortenuova cedette al nemico, arrendendosi: le milizie bergamasche, dopo averlo occupato, lo rasero al suolo. I beni dei conti di Cortenuova furono confiscati: il Comune di Bergamo li teneva ancora nel febbraio del 1246.
Le fonti a noi note non riportano più alcuna notizia relativa al C. dopo il 1237; non è azzardato ritenere dunque che egli sia morto alla fine dell'anno 1237, senza eredi, nel corso delle operazioni militari che si conclusero con la resa e la distruzione del castello di Cortenuova.
Gli sopravvissero invece Guifredo ed Egidio. Egidio (II), il quale si era ritirato nel castello di Mozzanica, dopo la scomparsa di Federico II sposò Beatrice Visconti, sorella dell'arcivescovo di Milano, e passò a militare tra i ghibellini. Contro di lui, definito "vir nobilis genere, fide tamen ignobilis" e denunciato come eretico pericoloso, cui facevano capo quanti in Lombardia erano ribelli alla Sede apostolica, inviarono diffide e lanciarono condanne Innocenzo IV (20 luglio 1253; 23 marzo e 27 luglio 1254), Alessandro IV(28 luglio 1258). Nel giugno 1269, su di un precedente ordine di Clemente IV, l'inquisitore di Milano si impadronì del castello di Mozzanica e prese prigionieri Egidio (II) ed i suoi consanguinei, nonostante fossero stretti parenti dell'arcivescovo di Milano, Ottone Visconti. Furono in seguito liberati e nel 1287 Egidio (II) partecipò alla mediazione di pace fra i nobili e il clero milanese, da un lato, e la fazione popolare cittadina, dall'altro.
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