Manfredi re di Sicilia
Nacque nel 1232, figlio illegittimo dell'imperatore Federico Il di Svevia e di Bianca Lancia: " ex damnato coitu derivatus " (Saba Malaspina); " quamvis [Federico] in morte desponsaverit eam " (Salimbene de Adam). D., che del bastardo abate di San Zeno (Pg XVIII 125) dice che mal nacque, dichiara M. in VE I XII 4 bene genitus, esaltando, in questo caso, la continuità di una magnanima eccellenza: Fredericus caesar et bene genitus eius Manfredus, la maestà di principi mecenati: humana secuti sunt, brutalia dedignantes, suscitatori di una corte-scuola non regionale, ma italiana, dove convennero gli excellentes animi Latinorum, e tutti cercarono corde nobiles atque gratiarum dotati inhaerere tantorum principum maiestati, donec fortuna permisit.
È possibile che D. sapesse M. " sonatore e cantore " come lo dice Ricordano Malispini. Noi lo sappiamo revisore e prefatore del De Arte venandi cum avibus del padre Federico, e autore del Prologus, premesso alla traduzione, dall'ebraico, del Liber de pomo sive de morte Aristotelis (che D. sia stato indotto a salvare lo scomunicato M. per avere letto, in questo prologo, l'affermazione di fiducia piena nella sola misericordia del creatore, è ipotesi, male accettabile, di B. Nardi).
Alla morte del padre (1250) M. divenne principe di Taranto e reggente del regno di Sicilia per il fratello Corrado IV, che si trovava in Germania. Dovette subito lottare contro Pietro Ruffo, vicario in Calabria e Sicilia e difendersi dal prepotere di Bertoldo di Hohenburg, capo dei baroni tedeschi. La venuta nel regno di Corrado IV, nel 1251, lo mise in disparte. Ma morto Corrado (1254), tentò di accordarsi con Innocenzo IV, cui era stata affidata la tutela di Corradino, figlio di Corrado. L'intransigenza del pontefice, che rispose alla resistenza armata di M. con la scomunica, fu allora vittoriosa: M. accettò l'ufficio di vicario della Chiesa nella Basilicata e in Puglia. Ma dopo che riuscì a impadronirsi del tesoro svevo e a porsi a capo delle truppe saracene di Lucera (1254), riprese con successo le armi e, mentre veniva diffusa la voce della morte di Corradino, ottenne di essere incoronato, a Palermo, re di Sicilia e di Puglia (1258). Svolse allora, pur colpito da solenne scomunica (1259), una politica intensa, tentando di raccogliere intorno a sé tutte le forze disponibili in Italia che, per le più diverse ragioni, accettassero di combattere sotto le insegne ghibelline. La sconfitta dei guelfi di Toscana a Montaperti (7 settembre 1260) parve designarlo signore, " iure belli " e per la tradizione paterna, dell'intera penisola.
Ma Urbano IV, successo (1261) al debole Alessandro IV, decise di stroncare le ambizioni dello Svevo: rialzò le sorti del partito guelfo in Italia, e invitò Carlo d'Angiò alla conquista del regno di Sicilia procurandogli l'appoggio delle grandi case bancarie di Siena e di Firenze. M. tentò inutilmente di trattare col pontefice. Carlo d'Angiò, che era stato già eletto nel 1263 senatore di Roma, vi giungeva nel maggio del 1265. Ai Romani M., che aveva invano tentato d'impadronirsi di Roma il 30 marzo 1265 con truppe guidate dal suo alleato Pietro di Vico, indirizzava il 24 maggio un Manifesto, con cui esaltava il loro diritto imperiale e li incitava a prendere le sue parti.
L'ipotesi che D. abbia conosciuto il Manifesto e ne abbia trasfuso qualche tesi nella Monarchia, pare inconsistente, dal momento che nel documento in questione si proponevano argomenti che circolavano diffusamente nella pubblicistica del tempo (e del resto quel Manifesto non dovette avere grande circolazione se, giuntoci in un florilegio retorico composto dopo il 1330, soltanto il domenicano Francesco Pipino ne riportò alcuni pochi tratti nel suo Chronicon).
M. si disponeva a difendere il regno, ma il tradimento e l'abbandono dei baroni compromisero la situazione. Carlo avanzò: passato il ponte di Ceprano, il suo esercito si scontrò nella pianura intorno a Benevento il 26 febbraio 1266 con l'esercito di M., che, sconfitto, vi perse la vita.
Se nel De vulg. Eloq. M. è unito al padre nel mito politico-letterario della Magna Curia, non per questo è pensato partecipe della sua imperialità. La vicenda di M. principe e re si colloca, per D., non nel firmamento dei duo luminaria magna (Mn III I 5), ma sullo sfondo di contrasti di parti, guelfe e ghibelline, nella misura di scelte cittadine e di lotte fratricide ('l grande scempio / che fece l'Arbia colorata in rosso, If X 85-86); di una difesa di un regno spettante legittimamente per eredità di Costanza d'Altavilla e insidiato da Carlo I d'Angiò, chiamato a contendere quell'eredità dai pontefici, a continuare la sua rapina provenzale (Pg XX 61-68). E in questa prospettiva antiangioina (e antifrancese), si legano le sorti degli ultimi due Svevi. Vittima, M., come Corradino: a Ceprano M. sconfitto dal tradimento dei baroni del reame; a Tagliacozzo vinto sanz'arme Corradino dal vecchio Alardo (If XXVIII 16-18).
Ma nell'episodio del Purgatorio che s'incentra sulla figura di M. (III 103-145), D., più che impegnarsi nella valutazione di un fatto politico, vuole offrire l'esempio dell'infinita misericordia di Dio, nei confronti di un peccatore dagli orribili... peccati, nonché scomunicato, contro una Chiesa strutturata per gerarchie e decretali e fattasi estranea alla sua missione di grazia e di salvezza. Attorno a questo motivo si sono mossi tutti i commentatori della Commedia, ponendo in rilievo la grandezza poetica dell'episodio e le sue motivazioni di carattere psicologico e figurativo (Momigliano primeggia tra i chiosatori moderni, centrando la validità dell'episodio nello " splendore adombrato dal ricordo della corte e nella serenità che tutto supera e dissolve ").
L'aspetto del bel principe normanno-svevo è descritto con parole che richiamano il passo biblico (I Reg., 16, 12) a proposito di Davide condotto a Samuele: " rufus et pulcher adspectu decoraque facie ". Ma si aggiunge la notazione dei segni di ferite, in viso e in pieno petto: tra le molte voci sulla fine cruenta di M. a Benevento, D. ha scelto per il suo personaggio tipiche ferite di valoroso. E forse ha anche raccolto una voce sulla conversione ‛ in extremis ' di M.: se un racconto di fra Iacopo d'Acqui, nell'Imago mundi (1330-1340), nel riferire le cinque parole che M. avrebbe pronunciato in punto di morte: " Deus propitius esto mihi peccatori " - un verso ritmico - può far supporre una precedente fonte versificata.
Della sepoltura di M. dette notizia a Clemente IV lo stesso Carlo d'Angiò, dichiarando di avere provveduto, per naturale pietà, a seppellirlo, " cum quadam honorificentia sepulturae, non tamen ecclesiasticae ". " E sopra la sepoltura ciascuno dell'oste gettava una pietra; onde si fece uno monte grande di sassi ", scrisse Ricordano Malispini; e così, press'a poco, altri, numerosi cronisti. Ma sulla vicenda che seguì, cioè il dissotterramento del cadavere e il suo trasferimento fuori del regno, noi non siamo informati da alcun documento, ma, con parole tra loro simili, soltanto da Ricordano Malispini, da D., da G. Villani. Se in questa successione la notizia fu tramandata, come volle dimostrare R. Morghen, o se D. stesso è all'origine di questa storia, è questione forse aperta. Certo è che D. dice che il vescovo di Cosenza (Bartolomeo Pignatelli) non accettò quella sepoltura, pietosa o onorifica in co del ponte presso a Benevento (v. 128), ma volle disseppellire quel corpo e trasferirlo di fuor dal regno, quasi lungo 'l Verde (v. 131); volle infierire, con quell'estremo bando, contro chi aveva osato contendere il regno di Sicilia, sul quale la Chiesa esercitava la sua alta sovranità: dissepolto, dunque, non perché sepolto in terra consacrata, o comunque sacra in quanto terra della Chiesa (Benevento città pontificia e il regno di Sicilia avvassallato a s. Pietro), ma cacciato fuori del regno che aveva preteso suo. Trasmutate, quelle ossa, a lume spento, come si doveva nel trasporto dei corpi di eretici e di scomunicati. L'odio politico contro l'avversario si era così concluso e confuso con la censura della Chiesa, nel lugubre corteo " sine cruce, sine luce ".
È contro questa censura della Chiesa che si svolge, nel tono fattosi lontano dalle passioni politiche, il discorso più impegnato di Dante. Censura finale, la scomunica, ma salutare: se isola il peccatore nella sua condanna, gli ricorda insieme che è possibile sempre la resipiscenza " a diaboli laqueis ". L'anatema che giudica perduto l'uomo, non chiude mai le vie della grazia, aperte fino all'ultimo respiro. E invece D. avverte, nella Chiesa del suo tempo, una pretesa di concludere, nei termini soltanto della sua condanna e della sua riconciliazione, la presenza del divino, quasi escludendosi contrizioni senza confessione, ricomunioni senza sentenza, mentre la Chiesa, da Dio, vicariamente, ha avuto la missione, essenziale, di misericorde salvezza.
E però D. riconosce, nonostante il perdono di Dio per chi al fin si penta (v. 137), una conseguenza di pene per coloro che non abbiano ottenuto in vita la riconciliazione della Chiesa: riconoscimento dunque della sua funzione e del suo giudizio vicario. Una pena temporale, per coloro che sono morti scomunicati, aggiuntiva, oltre alla pena temporale per gli altri peccati: una permanenza, fuori del Purgatorio, trenta volte il tempo vissuto in contumacia di Santa Chiesa. La gravità del vivere esclusi dalla comunione della Chiesa militante è espressa in questa pesante misura di espiazione, da D. proposta. Dottrina invece indiscussa era quella per cui le preghiere dei vivi, come ogni altra opera meritoria, potevano abbreviare, nella comunione dei santi, le pene temporali delle anime purganti. Tali preghiere, conseguentemente, potevano abbreviare la maggiore attesa, calcolata da D., dei contumaci pentiti. Onde l'invito di M. a D. di recarsi da Costanza, genitrice / de l'onor di Cicilia e d'Aragona (vv. 115-116), delle corone regali cioè di Federico re di Sicilia e di Giacomo re d'Aragona. Invito coerente con la figura dantesca di M.: prima la richiesta di essere riconosciuto da D. e, infine, la preghiera di ambasceria alla figlia, sono espressione di una regalità che è caratteristica evidente, se pur smorzata da un sereno e umile distacco dalle vicende terrene.
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